Da qualche anno a questa parte mi sono prefissa di cominciare libri invernali, con paesaggi innevati, gelati, nebbiosi, quando fuori ci sono quaranta gradi. Il labirinto delle nebbie è uno di questi. Il nuovo romanzo di Matteo Cavezzali è ambientato nella paludosa Afunde, un villaggio sul delta del Po che sembra essere costruito ai confini del mondo. Afunde è abitato solo da donne, vedove della grande guerra, come scopre il nuovo ispettore di polizia Bruno Fosco (lui stesso reduce della guerra), mandato laggiù da Bologna per indagare sulla morte della giovane Angelina. Per le prime cento pagine sembra quasi di leggere un thriller con venature gotiche: la palude è un posto oscuro, ma vivo, che respira, si espande e si contrae con le maree. Cavezzali descrive bene, senza risparmiare sulla crudezza, una comunità arcaica, contadina, e la realtà enigmatica in cui è immersa. È un paesaggio insieme delicato e violento, per usare le parole con cui è raccontato il lavoro delle donne nel rituale dello scannamento del maiale. Più l’ispettore Fosco si avvicina all’assassino, più si addentra nella palude, allontanandosi dagli unici punti cardine dell’epoca, la chiesa e lo stato. Si perdono così le coordinate della trama e gli eventi diventano più confusi, frettolosi, quasi come se l’intera indagine fosse una tela di ragno di cui lo stesso Fosco non riesce a capire i motivi. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1474 di Internazionale, a pagina 95. Compra questo numero | Abbonati