La notizia che Abdulrazak Gurnah ha vinto il premio Nobel per la letteratura è stata accolta con gioia e sorpresa. Gurnah, il primo scrittore africano nero a ricevere il premio dopo Wole Soyinka, 35 anni fa, non è un nome particolarmente noto tra i lettori del continente e ancora meno nel resto del mondo. L’annuncio ha scatenato una grande frenesia nelle liste dei desideri su Amazon di lettori e studiosi. Come scrive la professoressa di letteratura postcoloniale Bhakti Shringarpure, la vittoria di Gurnah pone degli interrogativi sul meccanismo con cui il comitato per il Nobel seleziona gli scrittori africani. Secondo Shringarpure, probabilmente lo stesso Gurnah concorderebbe con lei sulle opache motivazioni che hanno dato a lui la vittoria invece che al keniano Ngũgĩ wa Thiong’o, che da tempo si pensava avrebbe rappresentato la voce dell’Africa agli occhi della commissione. Un’altra questione sollevata dal premio è se porterà a una “riscoperta” dell’opera di Gurnah tra chi ignora i giù nutriti studi sulla sua prolifica attività, compiuti lontano dalle grandi università occidentali.
Resistenza ai luoghi comuni
In realtà le risposte a queste due domande potrebbero arrivare proprio dai libri di Gurnah. I suoi romanzi offrono una cronaca a puntate, intrisa di scetticismo, sulle politiche culturali che confezionano le storie africane per adattarle alla circolazione e al consumo globale. Ha esplorato le matrici mutevoli di questo fenomeno dall’epoca coloniale a oggi. In tutta la sua opera troviamo la solita richiesta rivolta alle persone africane di parlare delle origini e delle presunte meschinità del loro paese a un pubblico europeo. In Admiring silence, poco prima che il protagonista incontri i genitori della sua futura moglie britannica, lei lo avverte di non parlare di Zanzibar con loro per evitare di amplificare il loro autocompiacimento rispetto a un’Inghilterra razzista. La tagliente ironia di Gurnah emerge quando il protagonista s’irrita perché la sua futura suocera si rifiuta di “ascoltare un paio di aneddoti sulla tortura o la morte per fame” e il suo futuro suocero sceglie invece di ascoltare solo le sue “storie dell’impero”.
In The last gift i futuri parenti acquisiti e familiari britannici passano da ampollose ipotesi sulle origini etnico-razziali della loro potenziale nuora, espresse in termini imperialistico-etnografici, a un razzismo casuale e caustico. Il padre del fidanzato prega affettuosamente la giovane di dare alla famiglia un bel “negretto”. Il libro ruota intorno alla resistenza di chi è nato a Zanzibar a raccontare storie sul passato del paese tanto quanto alla resistenza degli altri ad ascoltarle.
Una misurata reticenza caratterizza la trama e lo stile di Sulla riva del mare (Garzanti 2002), dove un richiedente asilo nel Regno Unito esprime, con un atteggiamento reso famoso da Bartleby lo scrivano di Herman Melville, il desiderio di non parlare per poi cominciare a raccontare a singhiozzi un dramma transgenerazionale che evidenzia la posizione storicamente rilevante di Zanzibar nelle rotte commerciali precoloniali e coloniali.
Promesse poco neutrali
I romanzi di Gurnah esprimono scetticismo anche rispetto ai processi di costruzione di una letteratura mondiale finanziata dalle organizzazioni internazionali e dagli interessi statunitensi, e all’educazione coloniale. Le sue storie collocano questo genere di progetti a Zanzibar e si chiedono come e perché in Africa rappresentino una tentazione per gli intellettuali e gli scrittori che vi prendono parte. Sulla riva del mare racconta la scoperta della letteratura internazionale di uno dei personaggi nel contesto di un’adolescenza che si snoda in piena guerra fredda, all’indomani dell’indipendenza di Zanzibar dal Regno Unito. Un passaggio memorabile mostra come i servizi di intelligence statunitensi abbiano inaugurato una lussuosa biblioteca per strappare le menti e i cuori degli abitanti di Zanzibar al blocco socialista. Gurnah descrive il fascino della biblioteca in termini sensuali: l’aria fresca sulla pelle, il piacere visuale e tattile offerto dagli arredi, le linee moderne dei tavoli e delle riviste. La letteratura statunitense nella biblioteca rappresenta una proiezione della libertà democratica attraverso una lista di nomi che vanno da Ralph Waldo Emerson a Frederick Douglass. Al tempo stesso Gurnah evidenzia come la circolazione di questa letteratura sia legata alle contraddizioni del capitalismo statunitense.
Descrive la materialità dei libri: “grandi e pesanti”, “sfolgoranti”, “bordati d’oro e d’argento”. In questa scena il narratore contrappone la seducente propaganda della missione culturale statunitense alla biblioteca coloniale, che i britannici hanno chiuso a chiave e abbandonato al momento di andarsene, e alla biblioteca della scuola. Quest’ultima, trattata per decenni dagli amministratori coloniali in partenza come il luogo degli scarti, dei rifiuti, dei libri “in più”, è anche il luogo della letteratura come promessa di un falso universalismo e cosmopolitismo. Gli amministratori ci lasciano i libri che descrivono gli europei come grandi civilizzatori.
Gurnah però resiste al contrasto evidenziato dal narratore. Anche se le opere nella biblioteca dell’ambasciata statunitense non sono macchiate dal dominio coloniale, l’autore suggerisce che il progetto di mondo cosmopolita pensato come base della biblioteca è comunque intrappolato nelle reti di potere che hanno definito la guerra fredda, che non sono affatto neutrali. Sotto questo aspetto, non ha nulla di diverso dalla biblioteca coloniale o dalla biblioteca scolastica.
Pur mantenendo un forte scetticismo verso le letture colte e il falso universalismo promesso dalla letteratura, i libri di Gurnah sono anche lettere d’amore per l’ideale cosmopolita di una letteratura veramente globale in cui la finzione contribuisca ad ampliare l’immaginazione e ad approfondire il legame di ognuno con le storie letterarie che attraversano mari e continenti.
In Gravel heart scrive di un padre a Zanzibar che costruisce una “biblioteca arbitraria” fatta con gli scarti su cui riesce a mettere le mani nei primi anni successivi alla decolonizzazione. Questa biblioteca personale è un miscuglio di narrativa popolare e opere raffinate, come Shakespeare, romanzi western e gialli, e un’edizione ridotta delle Mille e una notte.
Ora che le opere di Gurnah saranno più facili da trovare, si spera che nella frenesia di conoscerle si evitino quelle strategie di lettura orientate al consumo contro cui si scagliano i suoi romanzi. Il Nobel a Gurnah è un’opportunità per cercare, affrontare e sviluppare, invece di ignorare, il lavoro intellettuale di chi ha già letto con attenzione la sua opera, in Africa e non solo. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1431 di Internazionale, a pagina 83. Compra questo numero | Abbonati