“Quello che fanno i grandi è permesso. Ma se lo fanno i più piccoli è solo concorrenza sleale e quindi va vietato. È questa più o meno la tendenza che caratterizza i negoziati per l’imposta minima globale sugli utili delle multinazionali, proposta dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e sottoscritta da 137 paesi”, scrive la Neue Zürcher Zeitung. Per quanto riguarda il cosiddetto primo pilastro dell’imposta, cioè la possibilità di tassare le multinazionali negli stati in cui effettivamente vendono i loro prodotti, non è ancora chiaro se i più grandi tra i paesi firmatari siano a favore e lo metteranno in pratica, come previsto, entro la fine del 2024. Sul secondo pilastro, che introduce un’aliquota minima globale del 15 per cento sui profitti delle multinazionali con ricavi superiori ai 750 milioni di euro all’anno, è stata invece raggiunta l’unità. Tuttavia, spiega il quotidiano svizzero, “le nuove regole prevedono diversi casi in cui possono essere stabilite aliquote più basse a livello nazionale. Per esempio, per le aziende che investono nella ricerca e nello sviluppo. Una formula per la quale si battono i paesi più grandi, tra cui l’intera Unione europea.
Cosa blocca l’imposta globale
L’elefante è andato via
“La distribuzione globale della ricchezza è cambiata senza che lo notassimo più di tanto”, scrive Branko Milanović su Social Europe. L’economista ha descritto il periodo di “alta globalizzazione”, che va dalla fine degli anni ottanta alla crisi finanziaria del 2008, con il famoso grafico a forma di elefante (la curva blu nel grafico) realizzato nel 2012 insieme al collega Christoph Lakner. Questa curva descriveva un netto aumento dei redditi nella parte centrale della distribuzione globale, in cui si concentrano i redditi medi cinesi (il punto A nel grafico), una crescita modesta nei redditi medio-alti, in cui prevalgono le classi medie occidentali (il punto B) e un’impennata dell’1 per cento più ricco della popolazione mondiale (punto C). “Quel grafico”, osserva Milanović, “era la conferma empirica di ciò che molti pensavano: la rapida crescita dei redditi in Asia è coincisa – e forse ne è stata una delle cause – con il declino delle classi medie occidentali e l’ascesa dell’1 per cento più ricco”. Queste dinamiche sono continuate tra il 2008 e il 2018. Ma i nuovi dati analizzati da Milanović evidenziano anche dei cambiamenti, come dimostra la curva arancione nel grafico. “In questo decennio i redditi asiatici hanno continuato a crescere, ma c’è stato un calo significativo delle fasce più ricche della popolazione mondiale. Bisogna considerare gli effetti della crisi del 2008, che ha provocato la recessione in Europa e in Nordamerica, ma non ha sostanzialmente toccato l’Asia e soprattutto la Cina”. Il crollo occidentale, a causa della sua natura finanziaria, ha danneggiato anche i miliardari (oltre ai più poveri), in particolare negli Stati Uniti, dove costituiscono quasi la metà dell’1 per cento più ricco della popolazione mondiale. ◆
Articolo precedente
Articolo successivo
Inserisci email e password per entrare nella tua area riservata.
Non hai un account su Internazionale?
Registrati