L’insegnante chiama gli studenti davanti alla classe e gli chiede di disporsi su un’unica fila e di dire in quale posto della fila si trovano. Poi gli chiede di scambiarsi i posti. Tutti ridono. Il numero lo azzeccano sempre, ma con il genere hanno qualche difficoltà.
“Eu sunt prima (io sono la prima)”.

“No”, spiega l’insegnante mescolando inglese e romeno. “Look. You are a man_: primul. Eu sunt primul_ (io sono il primo). I am a woman_: eu sunt a doua_ (io sono la seconda)”. Prima di andare avanti si assicura che gli allievi abbiano capito gli aggettivi numerali ordinali. Gli studenti sono tre uomini del Sudan che hanno appena ottenuto asilo in Romania. L’insegnante, invece, è Anca Pascui. Ha 46 anni e insegna romeno nel centro regionale per i richiedenti asilo di Șomcuta Mare, una cittadina di settemila abitanti nella regione romena del Maramureș. È una delle sei strutture del paese che accolgono chi scappa da situazioni drammatiche in tutto il mondo: rifugiati ucraini, cubani perseguitati per motivi religiosi, prigionieri di guerra del Congo. Del loro percorso d’integrazione fanno parte le lezioni di lingua romena impartite da Anca, sei ore alla settimana.
Sulle pareti dell’aula ci sono ripiani con manuali in romeno e libri in inglese, una cartina della Romania con messaggi in tutte le lingue del mondo e bacheche con le foto di rifugiati: donne con in braccio bambini, adolescenti, ragazze con l’hijab. L’unica faccia che compare ovunque è quella di Anca. “Amo tantissimo quest’attività. Mi dà soddisfazione come insegnante”, ci confida subito. Il suo lavoro principale è quello di docente al locale liceo scientifico, “ma l’impegno con i rifugiati per me è un’esperienza fondamentale”, aggiunge.
I tre allievi del Sudan apprendono velocemente. Il più giovane, che chiameremo T., ha circa vent’anni, sorride spesso e quando non capisce qualcosa alza la mano. Per esempio, chiede se la parola “primavera”, che ha sentito spesso, ha qualcosa a che fare con “primo”. Invece O. ha 38 anni, è alto, timido e ha difficoltà con la pronuncia. Il più grande, A., ha 50 anni, parla meglio di tutti, impara subito e non fa errori. I tre vivono in Romania da circa due anni. Sono arrivati con un visto di lavoro e si sono stabiliti a Timișoara. Poi hanno fatto richiesta di asilo politico e hanno cominciato a studiare il romeno con Anca. Anche se si sono subito trovati bene, l’insegnante si è accorta che hanno ancora una certa reticenza a parlare di quello che si sono lasciati alle spalle. “Quando ho sondato il terreno per capire se il tema poteva essere affrontato, ho notato che tutti rispondevano allo stesso modo, come se volessero proteggermi da una brutta storia”, dice l’insegnante. “Non si preoccupi”, le dicevano. “Adesso stiamo bene. Quello che succede lì non è bello. È complicato, ma adesso stiamo bene”.
Anca ha capito e non ha insistito. Il Sudan attraversa una gravissima crisi umanitaria a causa di un conflitto cominciato nel 2023 e che di recente si è inasprito. Gli uomini hanno ottimi motivi per non voler parlare di quello che succede lì. Anca lo sa. Ha imparato a trattare con attenzione i suoi allievi, a dargli il tempo necessario, a non fare troppe domande. E ha capito che spesso la strada che gli permette di aprirsi è proprio l’apprendimento del romeno.
Per chi ottiene una forma di protezione lo studio del romeno è obbligatorio
Quando ha insegnato a un gruppo di adolescenti non accompagnati il significato del verbo sentire, i ragazzi hanno subito cominciato a usarlo, spiegando che si “sentivano tristi”. “Gli chiedevo perché se n’erano andati, dato che sapevo quanto è difficile partire e lasciarsi tutto alle spalle. E loro mi rispondevano: ‘Signora, ha mai temuto per la propria vita?’, ‘Ha mai rischiato di essere stuprata?’”.
Che si tratti del dolore degli adolescenti o dei traumi degli adulti, Anca è sempre presente, pronta ad accogliergli. “All’inizio piangevo ascoltando le esperienze raccapriccianti che avevano vissuto queste persone”, racconta. Così si è presa una pausa di riflessione. E poi ha deciso: “C’è stato un momento in cui ho capito il ruolo e la responsabilità che avevo. Ho capito che se mi fossi lasciata travolgere dalle emozioni non avrei risolto nulla, che il mio compito era aiutarli ad adattarsi a una realtà nuova”.
La prima classe
Anca ama la lingua romena. Parla in modo chiaro e articola perfettamente ogni parola, pronunciata con un accento regionale appena percepibile. Si entusiasma quando parla del lavoro con le sue classi sull’apprendimento dei tempi verbali e quando spiega in che modo usa il romanzo Ion dello scrittore Liviu Rebreanu per discutere di società e relazioni interpersonali. È il genere d’insegnante che fa di tutto per essere compresa.
Ha sempre saputo di voler fare l’insegnante. Da piccola giocava con gli amici a imparare le poesie. Dopo tre anni d’insegnamento a Baia Mare e Sighetul Marmaţiei, nel 2003 ha avuto la cattedra di lingua e letteratura romena al liceo scientifico Ioan Buteanu di Șomcuta Mare. È stata lei a chiedere il trasferimento. Voleva tornare nella sua comunità di origine e costruirsi una vita nella casa dei nonni. Anca insegna al centro per i rifugiati dalla sua fondazione, nel 2006. Non sapeva cosa aspettarsi, ma ha accettato d’istinto. “Ho pensato che le cose dovevano andare così, e ho sentito che il destino mi stava mettendo davanti a un’esperienza decisiva”. Oggi è felice della decisione presa. “Mi rendo conto che non sarei stata un’insegnante completa se avessi rifiutato l’offerta. Le persone che ho conosciuto hanno cambiato il mio rapporto con la mia lingua madre, con il mio paese, mi hanno fatto riflettere sulla posizione che occupo nella comunità, sui miei princìpi”.
La sua prima classe era composta da 23 adolescenti della Somalia. Era inverno e le strade erano piene di neve. “Mi sono trovata davanti a persone che si aspettavano che gli dessi degli strumenti per sopravvivere in Romania almeno per un periodo”. La prima lezione era cominciata con alcuni minuti di silenzio imbarazzato. Poi Anca gli aveva dato il benvenuto, gli aveva sorriso e gli aveva insegnato come ci si saluta in romeno.
A quei tempi non aveva a disposizione manuali di lingua romena e si è arrangiata con delle dispense concepite per gli studenti stranieri che frequentano l’università in Romania. Con il tempo ha messo a punto piani di studio, schede di lavoro ed esercizi. Ha smesso anche di chiedere agli allievi il loro livello di istruzione, perché molti non hanno mai frequentato la scuola, e ammetterlo può essere imbarazzante. All’inizio di ogni lezione si sofferma sull’alfabeto e non passa all’argomento successivo finché tutti non riconoscono le lettere e pronunciano correttamente i suoni del romeno. “Mi sono accorta che in questa fase devo ragionare come una maestra elementare”, dice.
Poi insegna i verbi. “Ogni forma verbale varia a seconda della persona. Ma io aggiungo sempre delle specificazioni: io sono dell’Iraq, tu sei dell’India, noi siamo dell’Afghanistan. È un modo per ammortizzare l’impatto dell’incontro con un verbo in romeno”.
Con gli anni Anca ha capito che la lezione sui modi di salutarsi è molto importante. La maggior parte degli studenti conosce già la parola salut (ciao), ma Anca gli insegna anche le altre formule e i contesti in cui si usano. “L’orecchio dei romeni è molto sensibile al modo in cui li saluti”, spiega. Una volta imparate le formule di saluto, i rifugiati possono cominciare a navigare tra le sottigliezze della lingua e della cultura romena. E fanno un passo avanti verso l’integrazione. Quando le è capitato un gruppo di congolesi che avevano difficoltà ad articolare bună diminea ţ a (buongiorno), Anca ha trovato insieme a loro un ritmo adatto e gli ha insegnato a salutare danzando.
La lezione sulla famiglia è difficile. Quando è il momento di dire “ho un fratello, una sorella, un cugino”, il fatto di trovarsi a migliaia di chilometri dal proprio paese e di non sapere quando si potrà tornare a casa rende tutto molto complicato. Ma ci sono anche momenti di gioia. Gli studenti si entusiasmano quando scoprono che la parola mamma si dice quasi nello stesso modo in tutte le lingue del mondo. E questa scoperta li avvicina ancora di più all’insegnante.

Per Anca il periodo passato a insegnare al centro per i rifugiati si divide in due fasi, prima e dopo il congedo di maternità del 2011-2012. In qualche modo la maternità ha cambiato anche il suo modo di lavorare. “Da un lato il dolore per le storie dei rifugiati è diventato più lancinante, dall’altro è aumentato il desiderio di fare bene il mio lavoro”, racconta l’insegnante. Quando sente i racconti delle mamme costrette ad abbandonare i figli le si spezza il cuore. Quando le donne le raccontano dei loro bambini, Anca spiega che anche lei è madre e mostra le foto del figlio. In questo modo si guadagna la loro fiducia e dimostra di capire il loro dolore.
Ha voluto che a suo figlio fosse ben chiaro che tutti gli esseri umani sono uguali, a prescindere dal colore della pelle o dal luogo dove sono nati. Quando il piccolo aveva tre anni, al centro per i rifugiati viveva una famiglia di siriani con una bambina della sua età. “Mentre io facevo lezione ai genitori, i nostri figli giocavano insieme”.
Tanta forza di volontà
Lasciarsi alle spalle la famiglia e tutto quello che si è costruito non è facile. D’altronde, se la tua casa è stata distrutta, se non puoi più assicurare un sostegno alla tua famiglia, se la tua vita è in pericolo, non hai altra scelta che emigrare.
L’emigrazione non è un fenomeno nuovo, come non lo sono i richiedenti asilo. La gente è sempre scappata da guerre, carestie e povertà. E oggi il riscaldamento globale, i conflitti e i governi autoritari spingono sempre più persone a partire. A maggio del 2024 nel mondo c’erano 120 milioni di profughi, di cui 43 milioni con lo status di rifugiati e 6,9 milioni con quello di richiedenti asilo. Nel 2022 in Romania sono state presentate 12.368 richieste di asilo, di cui 991 nella regione del Maramureș.

Dal momento in cui viene inoltrata la domanda di asilo, lo stato romeno garantisce al richiedente un interprete, assistenza medica e consulenza psicologica, più un posto letto in uno dei centri regionali coordinati dal ministero dell’interno. Chi ottiene una forma di protezione internazionale, lo status di rifugiato o il permesso di soggiorno per protezione sussidiaria, può rimanere nel centro e avviare un percorso d’integrazione.
In questa fase le persone seguono le lezioni di lingua romena e orientamento culturale. Per chi ha ottenuto una forma di protezione lo studio del romeno è obbligatorio, per gli altri è facoltativo. “Se devo indicare una qualità della nostra insegnante”, dice Simona Chioran, direttrice del centro regionale di Șomcuta, “è che non fa nessuna differenza tra chi è obbligato a seguire i corsi e chi partecipa volontariamente. Accoglie tutti con lo stesso entusiasmo”.
Nello studio del romeno il momento più difficile è rappresentato dai verbi, dice Anca. Così, quando devono affrontarli, molti allievi abbandonano lo studio o si prendono una pausa. “Ma con un po’ di voglia e di determinazione l’ostacolo può essere superato”, dice Anca, che però capisce anche chi rimane indietro. “Ammiro tutti i miei studenti, perché so che non è facile. In questi anni sono venuta in contatto con diverse lingue, tra cui l’arabo, il farsi, il tamil. Così cerco di mettermi nei loro panni. Se fossi io l’alunna e loro gli insegnanti, non so di quanta forza di volontà avrei bisogno per andare fino in fondo”.
Osservare con distacco
No, la situazione non è affatto facile per i rifugiati e i richiedenti asilo. Quasi sempre sono arrivati in Romania da soli e hanno dovuto ricominciare da capo in un paese nuovo, con una cultura e abitudini diverse, portandosi dietro cicatrici e ferite difficili da raccontare. Secondo uno studio del 2017 un richiedente asilo su tre soffre di depressione, ansia o disturbo da stress post-traumatico, condizioni che rendono più difficile il processo di apprendimento della lingua e di adattamento a un altro paese. “Più volte ho sentito di dover ‘uscire’ dalla mia lingua per osservarla con distacco e capire le sue trappole. Solo così avrei potuto gestire le difficoltà dell’apprendimento e renderlo più accessibile ai miei studenti”, spiega Anca.
Una volta lasciato il centro, tanti allievi dicono ad Anca che vorrebbero continuare a studiare il romeno, ma che non sanno come fare. Lei cerca di aiutarli, ma non sempre ci riesce. Un’insegnante del centro di Galaţi ci confida che non riconosce più i suoi colleghi perché cambiano troppo spesso.

Un altro problema è il numero insufficiente di ore di lezione. Nel 2006, quando ha cominciato, Anca ne faceva quattro alla settimana. Oggi sono sei, un arco di tempo ancora insufficiente per l’apprendimento di qualsiasi lingua straniera. Inoltre il sistema non tiene conto del diverso livello di istruzione e dei bisogni degli allievi. Ci sono casi in cui donne musulmane si sono rifiutate di fare lezioni con gli uomini, oppure classi con studenti analfabeti insieme ad allievi laureati. Quando gli studenti sono così diversi, bisogna dividerli in gruppi. Ma questo richiede più ore di quelle attualmente messe a disposizione.
Nonostante le difficoltà, la gioia più grande di Anca è sentire gli stranieri che parlano romeno. Cinque anni fa tra i suoi studenti c’erano una famiglia iraniana e un ragazzo del Sudan. Per comunicare tra loro hanno dovuto imparare il romeno. “Sembra un dettaglio insignificante, ma per me è stato un grande traguardo vederli ridere e scherzare in romeno. Hanno trovato nella lingua romena un modo per avvicinarsi, un tramite linguistico. È una cosa straordinaria”.
Straordinario è stato anche il modo in cui ha imparato il romeno Yeboua Moussa Ouattarea, un giovane che si era appassionato allo studio dei verbi. Di qualche mese più grande di Anca, Moise è arrivato in Romania nel 2007, a 32 anni, per sfuggire alla guerra civile in Costa d’Avorio.
Dopo aver ottenuto lo status di rifugiato, si è iscritto al programma d’integrazione e ha cominciato a frequentare le lezioni di romeno. In Costa d’Avorio aveva studiato criminologia: voleva far riconoscere la laurea e continuare gli studi in Romania. Così ha chiesto ad Anca di aiutarlo a ottenere un livello di conoscenza della lingua che gli permettesse d’iscriversi alla facoltà di giurisprudenza. Anca l’ha chiamato ad assistere alle lezioni che teneva al liceo, ma dopo sei mesi Moise le ha detto di non sentirsi ancora pronto. Anca non si è arresa e l’ha aiutato a prendere coscienza del proprio valore e a superare la paura. Moise si è lasciato convincere e adesso ha un suo studio di avvocato a Baia Mare.
Per Anca il lavoro a scuola e l’impiego al centro per i rifugiati sono complementari
Una delle sei ore dedicate all’insegnamento Anca la riserva all’orientamento culturale: le abitudini e le tradizioni locali, le regioni del paese, la capitale, i Carpazi e il mar Nero, come i romeni ragionano e come si organizzano la vita.
Un momento di grande gioia l’ha vissuto quando alcune donne siriane le hanno chiesto di rimanere in classe con loro, da sole. Hanno chiuso la porta e si sono tolte il velo perché volevano che l’insegnante vedesse i loro volti, i loro capelli. “Ancora oggi mi viene un nodo in gola a pensarci. Non lo dimenticherò mai, perché in quel momento ho capito quanta fiducia avessero in me”. Qualche anno più tardi Anca è andata a Bucarest per partecipare a un incontro ed è stata ospite a casa di quelle donne. “Sentire tanta gratitudine, tanto affetto e tanta comprensione mi ha fatto capire che sono una donna fortunata”.
Quando in classe alla radio ci sono notizie che riguardano i paesi dei suoi studenti, Anca chiede che si faccia silenzio. Le sue conoscenze di politica estera sono migliorate enormemente da quando lavora al centro per i rifugiati. Prima d’incontrare gli studenti, s’informa sui loro paesi, per capire di cosa può parlare e cosa invece è meglio evitare. In questo modo è diventata una fonte d’informazione anche per i suoi genitori. “Mi chiamano per chiedermi se del Sudan so qualcosa in più di quanto dicono in tv. E io gli do notizie di prima mano”. Quando hanno saputo del lavoro al centro per i rifugiati si sono preoccupati. Ma con il tempo hanno cominciato a incuriosirsi e adesso sono felici per me. “Hanno compreso la mia passione e hanno capito perché non potrei rinunciare a quest’attività”, spiega Anca.
Così com’è convinta di dover rappresentare al meglio la sua famiglia nella comunità di Șomcuta, Anca vuole incarnare i valori più nobili del suo paese agli occhi degli stranieri. “Devo sorridere, incoraggiarli, offrirgli soluzioni”, dice. “Devo essere l’esempio del cittadino romeno pronto a vivere accanto a loro”. Anca cerca di far sentire ai profughi il suo spirito di accoglienza, comprensione e aiuto e di fargli capire che i romeni sono consapevoli della ricchezza che la loro presenza porta nel paese. “Inoltre devo rendere comprensibile ai loro occhi la mia comunità d’origine”, aggiunge. Nonostante i miti sull’ospitalità dei romeni, tuttavia, non tutti sono come lei. Secondo un rapporto di Eurobarometro del 2023, il 25 per cento dei romeni non era d’accordo a fornire aiuti umanitari agli ucraini, la percentuale più alta dell’Unione europea. Un altro sondaggio del 2024 (realizzato dalla romena Inscop) ha rivelato che il 23,4 per cento dei romeni crede che gli immigrati del Medio Oriente siano una minaccia per il paese. D’altra parte in Europa non siamo i soli a pensarla così: le stesse paure alimentano il successo dell’estrema destra anche in paesi come la Francia, l’Italia o la Germania.
Anca spiega che il razzismo e l’ostilità sono soprattutto frutto dell’ignoranza. Ci racconta che a Șomcuta Mare non si sentono giudizi razzisti, perché la gente si è abituata alla presenza dei rifugiati.
Al di là dell’imperativo morale dell’accoglienza verso chi soffre e delle ragioni puramente economiche, Anca crede che aiutare i profughi offra una grande opportunità: quella di conoscere l’altro. Quando ne abbiamo paura, dice, “perdiamo l’occasione di incontrare persone e storie affascinanti, dietro alle quali si nascondono culture diverse. E chi è interessato solo alla propria cultura rimane umanamente a uno stadio primitivo di sviluppo”.

Per Anca il lavoro a scuola e l’impiego al centro per i rifugiati sono complementari. In una piccola città come Șomcuta Mare la presenza di stranieri di paesi lontani incuriosisce le persone, soprattutto gli adolescenti. “A un certo punto a scuola gli studenti hanno cominciato a chiedermi cosa succedesse nelle aule del centro. In quel momento ho capito che c’era bisogno di più informazione: gli abitanti di Șomcuta dovevano sapere che al centro c’erano persone che avevano bisogno del loro aiuto, stranieri che volevano imparare il romeno e conoscere nuovi amici”.
Il risultato è che nel 2009 il centro di Șomcuta ha avviato un progetto di collaborazione con il liceo. L’insegnante ha portato i suoi studenti al centro e i rifugiati al liceo. “Ho messo gli uni davanti gli altri. Penso di aver fatto bene, perché in questo modo la comunità ha potuto sentire le storie nascoste dietro le porte chiuse del centro. Per questo penso che per la comunità di Șomcuta l’esistenza del centro rappresenti una storia di successo”.
Una nuova vita
Alla lezione con i giovani sudanesi Anca ha sentito fin dall’inizio che c’era qualcosa di diverso. Quando sono entrati in classe, le hanno portato dei fiori. Ha pensato fosse un gesto collegato alla festa per la fine del ramadan, ma poi ha capito che non era così. “Avevo sentito che avevano chiesto il trasferimento. Si stavano preparando per andar via, ma non avevo capito che sarebbe successo così rapidamente”, dice Anca. Quella sarebbe stata la loro ultima lezione. L’insegnante non sa mai se gli studenti stanno per andare via. Molti chiedono di continuare il processo di integrazione in una grande città, dov’è più facile trovare un lavoro o dei connazionali disposti ad aiutarli. Anca rimane in contatto con diversi di loro. Ma questo non rende la separazione più facile.
Dopo gli aggettivi numerali, Anca chiede agli allievi sudanesi i loro piani per il futuro e dove si stanno trasferendo. Due hanno scelto Timișoara, uno andrà a Suceava. In generale, chi lascia Șomcuta, che sia romeno o straniero, lo fa perché manca il lavoro. Anca gli chiede se ricordano come si compra un biglietto del treno e gli dice che, se avranno bisogno, a Șomcuta Mare saranno sempre i benvenuti. Alcuni le chiedono un selfie e di promettere che lo appenderà nella bacheca di classe. Anca si emoziona, poi li indirizza verso il funzionario che si occuperà del trasferimento.
Due giorni dopo arriva una giovane mamma della Somalia che parla solo qualche parola di inglese. Per comunicare, Anca usa dei cartoncini con immagini. Durante la festa per la “giornata del rifugiato” la cerca con lo sguardo per assicurarsi che stia bene e poi, a mensa, le offre la sua porzione di patate fritte perché non è sicura che abbia mangiato abbastanza.
Anca rimane in contatto con i ragazzi sudanesi. Alla fine si trasferiscono a Timișoara, dove uno di loro ha trovato lavoro in una fabbrica di cinture, un altro nell’edilizia e l’ultimo nella lavorazione del legno. “Sono persone così buone. Spero che la Romania li tratti come meritano”, dice Anca cercando di trattenere le lacrime. ◆ mt
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Questo articolo è uscito sul numero 1603 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati