La crisi che la Francia sta attraversando rivela qualcosa d’inedito nella sua storia: lo scollamento tra il dibattito pubblico, le tensioni sociali e la vita politica. Il dibattito pubblico, che da anni monopolizza giornali e programmi tv, alimenta Twitter e i sondaggi, nutre la letteratura e divide gli intellettuali, si concentra sui temi identitari: razza, genere, religione e cultura.

La violenza delle discussioni sull’immigrazione, l’islam e l’ideologia woke (cioè attenta alle rivendicazioni delle minoranze) risulta tanto più forte se ci rendiamo conto che, in fondo, si tratta della stessa cosa: dal maschio bianco alla vittima di razzismo, tutti si considerano parte di una minoranza oppressa e minacciata. Da Il campo dei santi di Jean Raspail a Sottomissione di Michel Houellebecq, la letteratura di destra ha messo in scena quest’immaginaria guerra civile, vista come orizzonte inevitabile delle tensioni interne alla società.

La rivolta sociale non ricalca né riprende la protesta identitaria. Invece, dal 1995 milioni di francesi scendono in piazza per denunciare i problemi della società

Ci si aspetterebbe che il campo politico e quello sociale riflettessero queste divisioni. E invece no. Dall’inizio del secolo nessuna manifestazione di stampo identitario ha raccolto più di qualche migliaio di partecipanti. La rivolta sociale non ricalca né riprende la protesta identitaria. Invece, dal 1995 in Francia milioni di persone scendono periodicamente in piazza per denunciare i problemi della società.

Nell’arena politica il tema dell’identità è stato ripreso da un ampio numero di formazioni, che vanno dall’estrema destra al centrosinistra. Ma, a differenza di quanto succede negli Stati Uniti, il dibattito sull’identità e sui valori non ha mai definito due campi distinti, e la religione ha un ruolo marginale. C’è un relativo consenso sui valori: la difesa della laicità accomuna tutti i partiti, che si differenziano per le critiche più o meno forti all’islam. Le voci che rompono questo consenso vengono, all’interno della sinistra, da una parte dei militanti di Europa ecologia-I verdi (Eelv) e di La France insoumise (Lfi). A destra arrivano invece da La Manif pour tous (la mobilitazione nata in Francia contro i matrimoni omosessuali), che non è riuscita a entrare in politica, e dal politico e opinionista di estrema destra Éric Zemmour, il quale si è reso conto che gli elettori non si mobilitano per le questioni identitarie. A differenza degli Stati Uniti, questi temi non hanno un peso elettorale, anche se hanno successo nei sondaggi. Dalle grandi manifestazioni del 1995 contro le riforme previdenziali dell’allora primo ministro Alain Juppé all’attuale mobilitazione contro il presidente Emmanuel Macron, passando per i gilet gialli, al centro ci sono sempre state le questioni sociali, con un ovvio corollario: la richiesta di democrazia. Quando l’attuale governo ha fatto passare la riforma delle pensioni senza farla votare dall’assemblea nazionale, ma ricorrendo alla procedura prevista dall’articolo 49.3 della costituzione, sono scesi in piazza a protestare anche gli studenti, mentre finora era sembrato che le università si mobilitassero di più sulle questioni di genere, contro le discriminazioni e in difesa dell’ambiente.

Se l’illusione identitaria non è la base di una vera politica, le mobilitazioni sociali possono segnare un ritorno della politica? Dipenderà da molte cose, ma in particolare da due condizioni: l’impegno di ragazzi e ragazze, e la capacità delle élite di rispondere alle richieste di democrazia. Da un lato, i giovani devono evitare di cercare solo conferme nelle loro bolle protette; dall’altro, i partiti devono aprirsi a nuove forme di militanza. Ma qui emerge un problema: i tre movimenti che controllano la maggior parte dei seggi all’assemblea nazionale – Renaissance (il partito di Macron), Lfi e il Rassemblement national di Marine Le Pen – hanno un impianto squisitamente populista. Un leader, più o meno carismatico, guida una formazione più o meno strutturata, circondandosi di una squadra di giovani che dipendono solo da lei o da lui. Il capo fa di tutto per evitare che il movimento diventi un partito vero, con un organigramma che funzioni dal basso verso l’alto, invece del contrario.

Gli umori del leader sono considerati un barometro politico. Questi movimenti, a differenza dei partiti tradizionali, non sono radicati nella società attraverso sindacati, rappresentanti locali eletti o associazioni, disprezzano le istituzioni e i corpi intermedi, pensano al popolo una volta ogni cinque anni e non si sentono vincolati a una pratica politica quotidiana. Né il Rassemblement national né Lfi sono protagonisti del movimento sociale contro Macron, perché agiscono secondo il modello appena descritto. Sono perciò i sindacati a condurre il gioco, ma si rifiutano, giustamente, di prendere il posto della politica. Questo stallo favorisce gli eccessi. Non esiste una ricetta miracolosa per uscirne, ma il dibattito intellettuale e le appartenenze politiche dovrebbero concentrarsi sui problemi reali della società, invece di crogiolarsi in bolle identitarie. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1507 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati