Quando il 6 febbraio 1952 Elisabetta scese da una casa sull’albero in Kenya e scoprì che suo padre era morto e che sarebbe stata presto regina, diventò il volto di un impero che si stava sfasciando e al tempo stesso quello di un paese che si stava riprendendo dalla guerra. Il Regno Unito stava reinventando se stesso ed Elisabetta e la sua famiglia sarebbero stati fondamentali in questo processo. Quello che le mancò in termini di potere nei successivi settant’anni di regno, Elisabetta II – morta l’8 settembre all’età di 96 anni – lo compensò ampiamente in termini di ammirazione internazionale. Eppure nel 1952 lei e suo marito, il principe Filippo, stavano quasi per escludere la tappa keniana dal loro tour imperiale. La colonia viveva le prime fasi di una ribellione armata. Dall’inizio dell’anno l’Esercito della terra e della libertà (meglio noto come mau mau) di Dedan Kimathi era impegnato in una campagna di sabotaggi e omicidi. La situazione aveva spaventato la coppia e fu, in realtà, il timore di una brutta figura a spingerli a confermare la visita. La rivolta keniana scatenò una reazione brutale da parte del governo britannico, in contrasto con l’immagine signorile che Elisabetta cercava di mostrare e che avrebbe coltivato negli anni successivi.
Nel 1917 il nonno di Elisabetta, il re Giorgio V, aveva rimodellato la monarchia facendone un’istituzione britannica, ribattezzandola “casa reale di Windsor” e abbandonando la precedente definizione di “casa di Sassonia-Coburgo-Gotha”, che metteva troppa enfasi sulle radici tedesche. Il segretario privato del re, barone di Stamfordham, a cui si deve il nuovo nome, trovò anche una ragione d’essere per l’istituzione, scrivendo: “Dobbiamo sforzarci d’indurre le classi lavoratrici, socialiste e non, a considerare la corona non come una semplice figura di rappresentanza, ma come un potere vivo che opera per il bene e che riguarda il benessere sociale di tutte le classi”.
Il ritiro del Regno Unito dai suoi possedimenti in Africa fu accompagnato dall’occultamento di documenti compromettenti, come quelli sulla rivolta in Kenya
Trent’anni dopo, mentre accompagnava il padre Giorgio VI, ormai malato, in un tour imperiale in Sudafrica e Rhodesia (oggi Zimbabwe), l’allora principessa Elisabetta cercò di consolidare il suo tentativo di rifondare l’impero, trasformandolo in una libera associazione di nazioni autogovernate, un Commonwealth mondiale, con a capo la monarchia britannica. Nel famoso discorso per il suo ventunesimo compleanno, pronunciato a Città del Capo nel 1947, descrisse i suoi sudditi come membri della “nostra grande famiglia imperiale” al cui servizio avrebbe dedicato la sua vita. “Se andremo avanti tutti insieme saremo in grado di trasformare questo antico common wealth, che tutti amiamo così tanto, in qualcosa di ancora più grande: più libero, più prospero, più felice e con un impegno maggiore per il bene nel mondo”, dichiarò.
Come dimostrarono le azioni del governo britannico nel corso dei decenni successivi, la nuova realtà fu costruita su un tentativo sistematico di cancellare la verità dei saccheggi coloniali. Il ritiro del Regno Unito dai suoi possedimenti in Africa fu accompagnato dalla distruzione e dall’occultamento di enormi quantità di documenti compromettenti, inclusi i dettagli degli abusi e degli omicidi ai danni dei detenuti durante la rivolta degli anni cinquanta in Kenya.
È possibile che la regina non fosse a conoscenza di tutto quello che fu fatto in suo nome e che non avesse il potere di cambiare le cose. Ma il fatto di non aver affrontato apertamente la questione rimane comunque una macchia sulla sua eredità. Questo è evidente alla luce del tentativo di ottenere la verità storica sull’impero britannico fatto dal movimento Black lives matter e delle accuse d’intrinseco razzismo rivolte alla famiglia reale.
Alla fine, durante il regno di Elisabetta II la monarchia è riuscita a diventare quello che Giorgio V aveva sperato che fosse: l’istituzione britannica per eccellenza. Ma questo comporta la zavorra di un’identificazione con la storia imperiale britannica e i suoi misfatti nel mondo. L’aria di fascino, semplicità e devozione non proteggerà l’istituzione da domande scomode sul passato e sul presente e su una mancata assunzione di responsabilità per i propri torti.
Forse non era questo che Elisabetta si aspettava a ventun anni. Dev’essere stato doloroso, durante la vecchiaia, vedere l’istituzione a cui ha dedicato la sua vita accusata di razzismo, senza contare le presunte preoccupazioni che pare abbia espresso per la carnagione del pronipote Archie, la cui madre, Meghan Markle, è figlia di una donna afroamericana e di un uomo bianco.
La regina ha tenuto fede al suo impegno, nonostante il tremendo tributo che la monarchia ha imposto alla sua famiglia. Non era un fardello che aveva richiesto né si sarebbe aspettata di vederselo imporre da giovane. Ma l’ha sopportato con grazia e stoicismo. Probabilmente ha fatto del suo meglio con le carte che il destino le ha riservato. ◆ ff
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Questo articolo è uscito sul numero 1478 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati