S ono passati sei anni dall’accordo sul clima di Parigi e cosa è cambiato? I quattro giocatori del nostro futuro climatico – caos climatico, attivismo climatico, soluzioni climatiche e finanza climatica – sono ancora sul campo da gioco insieme a inondazioni, incendi e false soluzioni. Il cambiamento climatico è peggiorato: assistiamo a distruzioni, allo scioglimento dei ghiacciai e ai primi segni di un collasso sistemico delle correnti oceaniche e a molto altro. Sia il movimento per il clima sia le soluzioni proposte sono diventati molto più forti e ambiziosi. La finanza climatica si è spinta in avanti: si investono ancora troppi soldi nel settore dei combustibili fossili, ma ci sono stati dei successi nel convincere governi, banche per lo sviluppo e investitori privati a ridurre i finanziamenti e a sancire il carattere criminale di questo settore.
Oggi il 2015 appare lontanissimo: un’era prima che Donald Trump e Jair Bolsonaro diventassero capi di stato, prima delle proteste di Greta Thunberg, di Extinction rebellion, prima di inondazioni, incendi e caldo record. Abbiamo smesso di parlare del cambiamento climatico come se fosse il futuro, riconoscendo che si tratta del presente. Eppure da allora è successo pochissimo, se si pensa che l’accordo di Parigi è un impegno a limitare l’aumento di temperatura al di sotto dei 2 gradi rispetto ai livelli preindustriali, sforzandosi di mantenerlo entro 1,5 gradi, e a “rendere i flussi finanziari coerenti con un cammino verso minori emissioni di gas serra e con uno sviluppo resiliente ai cambiamenti climatici”.
Abbiamo smesso di parlare della crisi climatica come se fosse il futuro, riconoscendo che si tratta del presente. Eppure dall’accordo di Parigi del 2015 è successo pochissimo
I governi non stanno rispettando i loro impegni, anche se ne stanno prendendo di nuovi, e il vertice Cop26 di Glasgow, in programma fino al 12 novembre, dovrebbe essere un’occasione per fissare obiettivi più ambiziosi, stavolta da rispettare veramente. Stiamo andando a tutta velocità oltre il limite dei 2 gradi centigradi.
Ultimamente però ci sono state un sacco di piccole vittorie. A settembre la Cina si è impegnata a smettere di costruire centrali a carbone all’estero. Nello stesso mese Stati Uniti, Unione europea e altri otto paesi hanno approvato un trattato per la riduzione dell’uso di metano che probabilmente sarà firmato da altri governi durante il vertice di Glasgow. Molti progetti legati ai combustibili fossili sono stati cancellati e tutto il settore è in subbuglio, con le aziende produttrici di carbone che falliscono, grandi compagnie petrolifere che perdono valore azionario e reputazione, e l’industria dei combustibili fossili considerata complessivamente in declino.
A maggio l’Agenzia internazionale dell’energia, di solito poco propositiva, ha chiesto “una completa trasformazione del modo in cui produciamo, trasportiamo e consumiamo energia”. Il suo rapporto World energy outlook 2021, appena pubblicato, ha promosso questi obiettivi, chiedendo un piano in cui “non sia approvato lo sfruttamento di alcun nuovo giacimento di petrolio e gas, e non sia necessaria alcuna nuova miniera di carbone o l’ampliamento di quelle esistenti”. La versione ottimista è che la transizione deve migliorare. Quella pessimista è che deve ancora cominciare sul serio.
Qualche giorno fa ho parlato con Steve Kretzmann, esperto di politica dei combustibili fossili e fondatore dell’organizzazione Oil change international, che ha ribadito: “Dobbiamo ridurre l’uso dei combustibili fossili e non lo stiamo ancora facendo. Anche se c’è più consapevolezza del problema, non stiamo intaccando la quota dei combustibili fossili sul totale delle fonti di energia”. Le rinnovabili, sottolinea Kretzmann, sono cresciute, ma l’aggiunta di una nuova fonte di energia non determina automaticamente la scomparsa di quella vecchia.
Ho parlato anche con la cofondatrice e direttrice dell’organizzazione non profit 350.org, May Boeve, che mi ha offerto una visione più ottimistica. Secondo lei il fatto che “gli attivisti mantengano sempre viva la speranza è importante, perché misurare il nostro successo è molto difficile in questi vertici. La Cop è il tabellone segnapunti e non il gioco vero e proprio; è il momento in cui l’attenzione collettiva è rivolta al clima e serve a fare il punto della situazione”. Archiviata la battaglia per far riconoscere che il cambiamento climatico è una realtà, Boeve ora teme il rischio di “impegni di facciata, che non fermeranno l’uso dei combustibili fossili”.
Il vertice Cop26 di Glasgow dev’essere una svolta, un punto in cui le nazioni ingranano la marcia alta (una metafora che funziona anche con i veicoli elettrici). Bisogna cambiare il mondo, e il compito è possibile. Ma più aspettiamo, più diventa difficile, più porte si chiudono, più la devastazione ci sovrasta, più diventa troppo tardi per alcuni luoghi, specie e sistemi. Guardando indietro al 2015, è sconcertante vedere quanto poco ci siamo mossi dal punto di partenza di questa corsa. ◆ ff
Rebecca solnit
è una scrittrice e saggista statunitense. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Ricordi della mia inesistenza (Ponte alle Grazie 2021). Questo articolo è uscito sul Guardian.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1434 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati