Per il Libano è stata la giornata più sanguinosa dall’8 ottobre 2023. Il 17 settembre dodici persone sono morte e quasi tremila sono rimaste ferite (duecento in modo grave) a causa dell’esplosione simultanea di migliaia di cercapersone sparsi in tutto il territorio libanese e anche oltre i confini del paese (il giorno dopo altre nove persone sono morte e cento sono state ferite in una nuova serie di esplosioni, che questa volta ha colpito i walkie-talkie usati da Hezbollah nel sud del Libano e alla periferia meridionale di Beirut). È il risultato di una vasta operazione israeliana che ha preso di mira gli apparecchi usati dagli esponenti di Hezbollah. Dopo questo attacco inedito, che Israele non ha ancora rivendicato, appare molto incerto il futuro del “fronte del sostegno” a Hamas aperto dal movimento sciita nel Libano del sud.

Oltre al bilancio pesantissimo, l’operazione ha avuto una portata geografica mai vista finora. Per la prima volta, infatti, è stata colpita Beirut, e non solo le sue periferie, il Libano del sud e la valle della Beqaa. Inoltre è arrivata in un momento in cui Israele sembra insistere per un “cambiamento radicale” alla frontiera libanese anche ricorrendo alla forza, come aveva ammesso il giorno precedente il primo ministro Benjamin Netanyahu durante un incontro a Tel Aviv con l’inviato statunitense Amos Hochstein.

L’operazione del 17 settembre sembra dunque legata a considerazioni di sicurezza degli israeliani, che agitano la minaccia di un allargamento del conflitto sul fronte libanese con un’invasione di terra. Potrebbe quindi trattarsi solo di una nuova tappa nella guerra di logoramento in corso tra Israele e Hezbollah, senza comportare un passaggio allo scontro aperto, a cui gli statunitensi continuano a opporsi. Con questo attacco, lo stato ebraico potrebbe aver voluto colpire un gran numero di combattenti minimizzando i “danni collaterali”. Si tratterebbe di un modo per aumentare la pressione sul partito sciita, indebolendolo e spingendolo ad accettare un cessate il fuoco che permetta il ritorno di decine di migliaia di israeliani allontanati dalla zona di confine, indipendentemente dalla fine dei combattimenti a Gaza.

In ogni caso Israele ha privato Hezbollah di una parte importante della sua rete di comunicazione. “Certo, i cercapersone non sono l’unico strumento di cui dispone Hezbollah”, sottolinea una fonte che conosce bene il Libano del sud. “Il partito ha una propria linea che gli permette di collegare regioni e unità diverse, ma il cercapersone era un mezzo essenziale di cui ora dovrà fare a meno”.

Dimostrazione di forza

In questo quadro emerge un’ipotesi alternativa: è possibile che Israele abbia voluto neutralizzare i mezzi di comunicazione del nemico per preparare un’operazione più vasta, magari con un’invasione terrestre? Solo poche ore prima il governo di Netanyahu aveva annunciato di aver ampliato gli obiettivi della guerra a Gaza includendo il fronte con Hezbollah nel Libano del sud, dove Israele vorrebbe creare una zona cuscinetto. “Per ora niente lascia pensare che Israele stia preparando un’azione eclatante, anche perché l’esercito non si è ammassato alla frontiera”, sottolinea la fonte, che però aggiunge: “Tuttavia non possiamo escludere che si tratti della prima di una serie di iniziative che potrebbero comprendere bombardamenti e perfino incursioni terrestri. Israele può approfittare della confusione causata da questi attacchi e di un sistema sanitario al momento sovraccarico”.

La dimostrazione di forza israeliana sembra rientrare nel quadro della guerra psicologica condotta da Tel Aviv per fiaccare il morale dei combattenti di Hezbollah e mettergli contro la popolazione, in particolare la sua base. L’esplosione simultanea (e completamente imprevista) di migliaia di apparecchi sparsi su tutto il territorio alimenterà le preoccupazioni che molti libanesi provano dall’inizio della guerra. Sui social network diversi utenti si chiedono se Israele possa far esplodere anche i loro smartphone, mentre i combattenti di Hezbollah che si credevano al sicuro a Sidone o a Beirut hanno scoperto di essere vulnerabili. Inoltre è stata rivelata l’identità di molti militanti e questo potrebbe isolare gli individui coinvolti, considerati una fonte di pericolo e un bersaglio facile per Israele.

Il movimento sciita si trova di nuovo nella difficile posizione di dover reagire a un’offensiva su vasta scala, soprattutto considerando che tra le vittime ci sono civili, combattenti, due figli di esponenti del partito e l’ambasciatore iraniano a Beirut, Mojtaba Amani. Per Hezbollah sarà difficile rispondere in modo altrettanto spettacolare, perché è evidente che lo stato ebraico ha un netto vantaggio tecnologico e militare. Una risposta militare aggressiva, inoltre, potrebbe dare a Israele un pretesto per scatenare una guerra totale con l’avallo della comunità internazionale. Hezbollah, a quel punto, cadrebbe nella “trappola” che Tel Aviv continua a tendergli dal 7 ottobre.

Dunque, alla fine, forse i vertici del movimento sceglieranno una risposta timida, come quella arrivata dopo la morte di Fuad Shukr, capo militare ucciso ad agosto alla periferia sud di Beirut. In quel caso, nonostante i tentativi di parlare di “un duro colpo” per l’avversario e di presentare le settimane di attesa come “guerra psicologica”, tutto sembra indicare che la vendetta di Hezbollah non abbia lasciato tracce. Semmai questo “invito alla de-escalation” ha compromesso il prestigio del movimento filoiraniano e la sua forza di dissuasione. E questa immagine potrebbe peggiorare se Hezbollah darà un’altra risposta simbolica.

I comunicati diffusi dal partito dopo l’attacco la dicono lunga. In un primo momento affermavano che l’esplosione si era verificata in “circostanze oscure”, senza citare Israele. Ci è voluta un’ora – in cui le accuse rivolte a Israele sono arrivate dal governo libanese e da quasi tutti i politici – prima che arrivasse un secondo documento, che punta il dito contro Tel Aviv: “I martiri e i feriti rappresentano il simbolo della nostra lotta e dei nostri sacrifici per Gerusalemme. Il nemico perfido e criminale riceverà la giusta punizione per questa aggressione”. Intervistato a proposito della risposta all’attacco, Hussein Khalil, consigliere politico di Hassan Nasrallah, si è limitato a dire: “Abbiamo tutto il tempo”. Non è detto che sia così. ◆ as

Da Israele
Teorie e retroscena

Il quotidiano israeliano Haaretz spiega le due teorie principali dietro all’esplosione dei cercapersone dei miliziani di Hezbollah: “I responsabili dell’attacco si sarebbero infiltrati nella catena di produzione dell’azienda che ha fornito gli apparecchi a Hezbollah, piazzando piccoli ordigni esplosivi in migliaia di unità, o in alternativa, un attacco informatico avrebbe causato il surriscaldamento delle batterie dei dispositivi e la loro esplosione”. Un altro punto da chiarire è l’origine degli strumenti: “Inizialmente è stato riferito che Hezbollah aveva ordinato di recente cinquemila ultimi modelli di cercapersone dalla Gold Apollo, un’azienda taiwanese, che ha smentito”. L’amministratore delegato Hsu Ching-Kuang ha precisato che i dispositivi avevano il logo della Gold Apollo, ma erano stati progettati e prodotti dalla Bac, un’azienda con sede in Ungheria.
In un altro articolo Haaretz sottolinea che l’attacco “contrasta con i tentativi dell’amministrazione statunitense di privilegiare gli sforzi diplomatici all’escalation militare”. Qualche ora prima l’inviato statunitense Amos Hochstein si era rivolto al premier israeliano Benjamin Netanyahu e al ministro della difesa Yoav Gallant per chiedere una soluzione diplomatica al confine israelo-libanese. Netanyahu stava pianificando di licenziare Gallant e sostituirlo con Gideon Saar, rivale del premier ma sostenitore della linea dura militare. Dato l’aumento delle tensioni, però, al momento la decisione sembra sospesa. L’ipotesi aveva innervosito i funzionari statunitensi sia per il fatto di rimuovere il ministro della difesa nel mezzo di una guerra regionale, sia perché considerano Gallant come “l’unica voce della ragione rimasta nel gabinetto israeliano”.
Il 18 settembre il segretario di stato Antony Blinken è arrivato in Egitto per discutere degli sforzi per raggiungere un cessate il fuoco a Gaza e garantire la liberazione degli ostaggi di Hamas. Resta da vedere, conclude Haaretz, se la sua visita eviterà ulteriori attacchi. ◆


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Questo articolo è uscito sul numero 1581 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati