Dopo una notte passata a vendere rose in Toscana, Mohammed (il nome è stato cambiato) fu colpito alla schiena con un bastone da qualcuno che passava di lì in auto mentre lui stava pedalando lungo una strada costiera. Cadde a terra. Era l’agosto del 2013 e Mohammed aveva ventidue anni. È convinto che fu un’aggressione intenzionale e razzista.

“Ero già abbattuto”, racconta, “ma da quel momento sono andato in pezzi”. Emotivamente per lui fu uno shock, e ancora oggi soffre di mal di schiena a causa del colpo ricevuto.

Era arrivato in Italia poco tempo prima, dopo un estenuante viaggio di sette mesi via terra e via mare. Non aveva né documenti né soldi ed era in debito di novemila euro con chi in Bangladesh aveva organizzato il viaggio. Dopo ogni tappa doveva affidarsi a persone diverse per proseguire.

Quando arrivò in Toscana fu avvicinato da alcuni bangladesi che lo misero a vendere rose nei centri storici delle città, racconta, così da poter pagare l’affitto per abitare in una casa con altri nove lavoratori stranieri: “Non era una bella cosa cercare di vendere rose a chi stava mangiando, ma non avevo scelta”. I venditori ambulanti di rose sono tanti in città come Roma, Milano o Torino.

Ogni notte i venditori, tutti uomini provenienti dall’Asia meridionale, girano con grandi mazzi di rose per farle comprare ai turisti. In estate possono essercene anche più di venti sparsi nei centri storici delle città, e durante il weekend che precede San Valentino se ne aggiungono altre decine. Ma nascosta dietro a un fiore simbolo dell’amore c’è una squallida storia di fatica, sfruttamento e traffico di esseri umani.

Dodici ore tra i ristoranti

In una notte i venditori di rose di tutte le età possono arrivare a camminare anche per chilometri dovendo affrontare i rifiuti dei potenziali compratori, i controlli delle forze dell’ordine e perfino la violenze. “Sono una rottura di palle”, dice un turista gallese mentre in una notte di febbraio si trova in cima alla scalinata di piazza di Spagna, a Roma.

Nonostante la loro presenza abituale e i rischi che corrono, esistono pochissimi dati ufficiali su questa categoria di venditori di strada. Negli ultimi anni i mezzi di informazione hanno riportato varie notizie di attacchi che hanno subìto, spesso compiuti da ragazzi italiani. A novembre un venditore di rose bangladese di cinquant’anni, descritto come un “volto noto” a Ivrea, vicino a Torino, è stato picchiato da tre uomini. Nel 2020 un altro venditore bangladese è stato spinto da due uomini in un naviglio a Milano. Nel 2019 a Nettuno, vicino a Roma, due ragazzi hanno picchiato e derubato un venditore le cui origini sono sconosciute. Non è chiaro quali conseguenze penali, se ce ne sono state, abbiano dovuto affrontare gli autori di questi reati.

“Sono visibili a tutti, ma su questa categoria di venditori non ci sono dati”, dice Marina Mazzini, che ha condotto una delle poche ricerche sui venditori di rose in Italia per conto dell’Istituto interregionale delle Nazioni Unite per la ricerca sul crimine e la giustizia (Unicri).

È deluso dai suoi connazionali: “Un marocchino mi ha aiutato a imparare la lingua e gli italiani mi hanno aiutato ad avere i documenti”

Per questo articolo, oltre a Mohammed, Al Jazeera ha intervistato altri due venditori di rose, tre ex ambulanti e i rappresentanti di quattro ong che aiutano decine di venditori ad avere i documenti. Gli immigrati dell’Asia meridionale che finiscono a vendere rose in Italia arrivano per lo più dal Bangladesh, sono quasi tutti indebitati e per cominciare una nuova vita fanno affidamento su persone delle loro comunità. Mohammed è stato ospitato in Toscana da un bangladese e da un pachistano. Il primo giorno ha ricevuto trenta euro da uno dei due che gli ha detto di andare da un fioraio a comprare delle rose.

Chi dà l’alloggio conosce i fiorai dai quali si fa dire quante rose acquista ogni venditore, spiega Mohammed, che ogni notte passava almeno dodici ore a setacciare ristoranti, bar e altri punti frequentati dai turisti fino a che non aveva venduto tutti i fiori. Poi tornava a casa e dormiva in una stanza con altre cinque persone.

Non c’è un prezzo fisso per una rosa, in genere i venditori chiedono pochi euro, tra i due e i cinque, a volte anche di meno. Più di dieci anni fa, se la notte andava bene Mohammed incassava 120 euro vendendo duecento rose, 60 euro andavano al fioraio e 50 per la stanza, il vitto e la promessa di un buon avvocato che gli avrebbe procurato i documenti. I dieci euro rimasti li spendeva in caffè e sigarette. Ma era raro vendere così tante rose: nella maggior parte dei giorni ne vendeva a malapena dieci. E gli accordi con chi ospita, e sfrutta, possono variare molto.

In trappola

Presto Mohammed cominciò ad avere problemi di insonnia, attacchi di panico e incubi legati al suo viaggio, fatto in parte su una nave, con altre duecento persone, partita dall’Egitto e arrivata in Sicilia.

Se lo fermavano i vigili, chi gli procacciava il lavoro lo trasferiva in un’altra zona. Oltre a vendere fiori, Mohammed ha lavorato in un negozio di alimentari bangladese a Genova dove, racconta, non l’hanno mai pagato. Ha venduto carciofi al mercato di Milano e rose al sud. Saltuariamente ha fatto anche il giardiniere, il lavapiatti e l’aiuto cuoco. Nel 2018, sette anni dopo il suo arrivo in Italia, Mohammed ha ottenuto lo status di richiedente asilo, grazie all’aiuto della ong Comunità progetto sud, in quanto vittima di tratta di esseri umani.

Mohammed è deluso dai suoi connazionali: “Un marocchino mi ha aiutato a imparare la lingua e gli italiani mi hanno aiutato ad avere i documenti. Sono stato sfruttato solo dalla mia gente. Ai giovani che adesso stanno venendo in Italia dico di non fidarsi dei connazionali”.

Uddin Md Mofiz, 55 anni, è arrivato a Roma nel 1987 e racconta di essere stato tra i primi venditori di rose a lavorare in Italia. Descrive i suoi primi anni come molto duri: “Ho dormito in treno, in auto, alla stazione Termini. All’inizio spendevo tutto per mangiare e pagare l’affitto”, racconta.

Siddique Nure Alam, presidente di Dhuumcatu, un’associazione di bangladesi a Roma, racconta di aver lavorato 35 anni fa con Mofiz e con altri come venditore di rose. Ogni venditore ambulante che arriva in Italia è indebitato, spiega Alam. Ma Mofiz e Alam non considerano la loro vicenda, per quanto complicata, una storia di sfruttamento. “Se ho braccia e gambe forti posso lavorare. Le cose richiedono tempo. Devi costruirti la tua vita lentamente, a poco a poco”, dice Mofiz.

Secondo gli esperti è difficile individuare lo sfruttamento tra i venditori ambulanti dell’Asia del sud, perché spesso loro non si considerano sfruttati. Raramente chiedono aiuto e pensano che le loro sofferenze siano un passaggio obbligato verso un futuro migliore. “Quando un bangladese descrive il suo sfruttamento non pensa di essere sfruttato, ma attribuisce la colpa delle sue difficoltà al costo insostenibile della vita”, dice Luca Scopetti, che per Parsec, una cooperativa sociale di Roma, coordina l’area di intervento su migrazioni, tratta e sfruttamento.

Per le persone sotto pressione che devono pagare i debiti e dare i soldi a chi li ospita “il lavoro in nero è l’unico mezzo di sopravvivenza”, dice Mazzini, dell’Unicri.

Secondo Alessandro Arrighetti, professore di economia dei settori produttivi dell’Università di Parma, vendere rose è un’attività senza prospettive: “L’esperienza fatta con questo tipo di vendita non aumenta le capacità professionali”. I venditori si affannano per imparare l’italiano o per trovare un lavoro migliore, ma spesso restano in trappola. “Puoi essere costretto a fare questo lavoro per un anno, due o anche dieci”, dice Arrighetti. Le autorità italiane hanno le competenze e i mezzi per identificare le tipiche vittime della tratta – come le donne straniere costrette a prostituirsi – mentre chi subisce lo sfruttamento lavorativo è meno visibile, sostiene l’avvocata Francesca Nicodemi. “Tra le vittime della tratta, il numero di donne riconosciute come rifugiate è superiore a quello degli uomini sfruttati sul lavoro”, afferma Nicodemi.

I lavoratori senza documenti, come Mohammed, possono ricevere assistenza solo se si denunciano come vittime della tratta presso le autorità italiane, continua Nicodemi. A quel punto il caso viene esaminato per capire se esiste un “fondato timore di persecuzione”, come stabilito dalla convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati. “Nella maggior parte dei casi, queste persone sono riconosciute come migranti economici perché hanno scelto di arrivare in Italia volontariamente”, dice l’avvocata.

Trecento alveari

Anche se un venditore di rose dovesse sporgere denuncia alle forze dell’ordine, i funzionari potrebbero “avere poca esperienza” nel riconoscere questo tipo di sfruttamento lavorativo, afferma Carla Quinto, responsabile legale di BeFree, una cooperativa di Roma impegnata contro la tratta. Inoltre alcuni venditori di rose forse pensano che guadagnare dieci euro al giorno sia meglio che non guadagnare nulla, dice Quinto.

Per aiutarli in modo efficace devono avere la possibilità di lavorare e un posto dove vivere. Le ong come quelle in cui lavorano Liotti e Scopetti si rivolgono ai lavoratori senza documenti per aiutarli a riconoscere il proprio sfruttamento e a chiedere asilo.

“I migranti non si limitano a prendere, ma offrono pure e condividono la loro cultura”, spiega Mohammed. “Quando arrivano bisogna dargli il giusto status e un’opportunità. Vediamo cosa portano e cosa possiamo offrirgli”.

Alla fine Mohammed ha vinto la paura e la depressione. Oggi parla correntemente italiano e lavora come apicoltore, prendendosi cura di trecento alveari. ◆ nv

Questa inchiesta è stata realizzata con il sostegno del Journalism fund Europe.

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Questo articolo è uscito sul numero 1554 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati