Le aziende di almeno tredici paesi hanno permesso all’esercito della Birmania di “produrre molte delle armi che usa per compiere atrocità contro i civili”, afferma un gruppo di esperti internazionali che ha chiesto ai governi stranieri di agire per bloccare l’industria militare nel paese.
Il 16 gennaio lo Special advisory council for Myanmar (Sac-M) ha pubblicato un rapporto in cui analizza la produzione di armi finanziata dall’esercito birmano e le filiere globali che la rendono possibile. Il documento sostiene che 45 aziende con sede in Austria, Cina, Corea del Sud , Francia, Germania, Giappone, India, Israele, Russia, Singapore, Stati Uniti, Taiwan, Ucraina e altri paesi hanno garantito le forniture che hanno permesso alla giunta di sviluppare un “polo industriale avanzato per la produzione di armamenti”.
“Le aziende straniere e i loro paesi di origine hanno la responsabilità morale e legale di assicurarsi che i loro prodotti non facilitino le violazioni dei diritti umani commesse ai danni del popolo birmano. Se non lo fanno sono complici”, ha affermato il cofondatore del Sac-M, Yanghee Lee, nella dichiarazione che ha accompagnato la pubblicazione del rapporto.
Dopo il colpo di stato del febbraio 2021 gli attivisti hanno ricostruito i canali attraverso cui l’esercito si procura le armi e gli equipaggiamenti che usa per reprimere, con ferocia, la resistenza al suo regime. Ancora non si era prestata troppa attenzione alla produzione interna, ma è quella che ha consentito alla giunta di compensare le carenze causate dall’embargo sugli armamenti.
La struttura
Secondo il Sac-M, la produzione è coordinata dal Direttorato delle industrie della difesa (Ddi), noto con la sigla KaPaSa. Le strutture del KaPaSa si trovano in una decina di località e svolgono molti compiti, tra cui la lavorazione delle materie prime, la fabbricazione di armi, le riparazioni e l’assemblaggio di componenti provenienti dall’estero. Secondo il rapporto, costituiscono “un vasto complesso industriale, capace di intervenire in diverse fasi del processo, che si è evoluto nel corso degli anni ed è ancora in espansione”.
La produzione è cominciata negli anni cinquanta. Molte delle fabbriche del KaPaSa sono nate grazie al sostegno della Repubblica Federale di Germania e dell’Italia. Ma la costruzione del complesso industriale attivo oggi nel paese risale alla fine degli anni ottanta, quando molti governi stranieri decisero l’embargo sulle armi in risposta alla dura repressione del regime nei confronti delle manifestazioni per la democrazia del 1988.
Nei successivi 35 anni, grazie a enormi investimenti, l’esercito birmano è “diventato autosufficiente” nella produzione di alcuni tipi di armi, come le mine anti-persona M14 e i fucili MA-3 MKI e l’Heckler & Koch G3, gli stessi “ripetutamente usati in numerosi attacchi che hanno colpito obiettivi civili prima, durante e dopo il colpo di stato militare del 2021”.
Nel rapporto è stata pubblicata una fotografia inquietante scattata il 2 settembre 2017 nel villaggio di Inn Din. Ritrae dieci uomini rohingya accovacciati sull’erba pochi istanti prima di essere uccisi, sullo sfondo si vedono due soldati armati con fucili di produzione birmana. Probabilmente sono quelli che sono stati usati per le esecuzioni.
Possibili risposte
Gli esperti del Sac-M chiedono ai governi stranieri di “indagare e, se necessario, avviare procedimenti amministrativi e penali” contro le aziende coinvolte nella filiera dell’industria bellica birmana, aggiungendo che il KaPaSa, i suoi dirigenti e la sua rete di intermediari dovrebbero essere oggetto di nuove sanzioni.
Il rapporto sottolinea il ruolo di Singapore. La città-stato è “uno snodo strategico per quantità potenzialmente significative di prodotti – comprese alcune materie prime – che alimentano l’industria militare della Birmania”.
Se fino a oggi si è parlato molto del coinvolgimento di Cina e Russia, responsabili di aver sostenuto la giunta di Naypyitaw e di avergli venduto direttamente armi, il ruolo di Singapore, che per l’esercito birmano è uno snodo commerciale e un centro finanziario fondamentale, è stato quasi del tutto ignorato.
In un’analisi pubblicata a ottobre del 2022, il gruppo di attivisti locali Justice for Myanmar (JfM), aveva individuato le 116 aziende che negli ultimi anni hanno fornito armi, equipaggiamenti e pezzi di ricambio alla giunta militare birmana. Tra loro, 38 avevano sede a Singapore.
Il rapporto del Sac-M spiega quanto il commercio di armi sia ormai globalizzato, al punto che perfino un paese come la Birmania, da tempo impegnato a rendersi il più possibile autonomo e sottoposto a pesanti sanzioni, sia rimasto integrato in modo significativo nell’economia mondiale. Inoltre, a causa della complessità delle filiere e del gran numero di ordinamenti giuridici nazionali coinvolti, è difficile usare l’interdipendenza economica come un’arma per ridurre la capacità produttiva dell’esercito birmano. ◆ gim
◆ Il 1 febbraio 2021 l’esercito birmano ha preso il potere con un colpo di stato, arrestando molti parlamentari eletti democraticamente. Tra questi c’era la premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, che a dicembre del 2022 ha subìto l’ultimo processo di una lunga serie ed è stata condannata a 33 anni di carcere. Il numero di detenuti politici ha superato i 13mila: 1.700 sono stati processati senza essere assistiti da un avvocato e 139 sono stati condannati a morte da tribunali militari in dibattimenti a porte chiuse. Nessuno è stato assolto. In quasi due anni la giunta militare ha raso al suolo villaggi e bombardato ospedali, scuole e perfino un concerto. Le organizzazioni per i diritti umani denunciano uccisioni extragiudiziali commesse da soldati e milizie. Si stima che gli sfollati siano 1,3 milioni. A novembre il regime ha concesso un’amnistia a 5.774 detenuti, tra cui l’ex ambasciatrice britannica Vicky Bowman e l’australiano Sean Turnell, ex consigliere economico di Suu Kyi. Il paese dovrebbe tornare al voto nella prima metà del 2023. In questi anni le forze che si battono per la democrazia si sono organizzate: il governo ombra di unità nazionale ha dichiarato di aver raccolto più di cento milioni di dollari per finanziare la resistenza, attraverso l’emissione di buoni del tesoro e vendendo all’asta le proprietà della giunta militare, beni che i donatori potrebbero usare solo in caso di vittoria della rivoluzione. Hrw, The Guardian, Bloomberg
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Questo articolo è uscito sul numero 1495 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati