Una massima sulla guerra dice d’immaginare quello che il nemico vuole che tu faccia e non farlo. L’invasione dell’Ucraina voluta dal presidente russo Vladimir Putin fa i conti con molte difficoltà. Per giustificarla, Putin ha mentito ai russi, affermando che a volere la sconfitta di Mosca e la sua cacciata non è l’Ucraina, ma la Nato. Per questo devono sostenerlo. E in larga misura l’hanno fatto.
Finora la Nato ha evitato di fare il gioco di Putin. Si è tenuta alla larga da un intervento militare in sostegno del presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj e lo stesso hanno fatto i singoli paesi. Nelle capitali europee non sono mancati impeti guerreschi, slanci emotivi e un consistente aumento del bilancio per la difesa, ma in generale la Nato ha mantenuto la posizione. Questo è un conflitto tra la Russia e un suo vicino, le cui radici affondano nella storia e nelle instabilità dell’Europa orientale. Niente sarebbe più pericoloso che accettare la retorica di Putin sulla ripresa della guerra fredda tra Russia e occidente. Una cosa è sostenere moralmente e logisticamente Kiev, un’altra è far decollare gli aerei della Nato e inviare i soldati al fronte. Poi è entrato in scena il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Il 23 marzo Biden è arrivato in Europa sull’onda di una retorica belligerante. A gennaio aveva dichiarato che un avanzamento della Russia in Ucraina avrebbe costituito solo “un’incursione minore”. A marzo ha detto ai soldati statunitensi in Polonia che presto avrebbero visto i coraggiosi ucraini sfidare la Russia, “quando sarete lì”. Ha sostenuto che gli Stati Uniti “risponderanno adeguatamente” a un attacco chimico in Ucraina, che però non è stato minacciato.
Punto di svolta
Biden si è spinto oltre, definendo Putin un “macellaio” che “non può restare al potere”. Così ha infranto il protocollo di lunga data secondo cui l’occidente non chiede cambi di regime (a parte quelli istigati dagli Stati Uniti). La Casa Bianca e il dipartimento di stato hanno ridimensionato le parole di Biden. Ma il danno ormai era fatto. Il video del discorso è inquietante. Quella che all’inizio può sembrare un’improvvisazione genuina mostra un uomo che non è del tutto padrone della sua lingua, tantomeno delle direttive da seguire. Mosca ha trasmesso al popolo russo la tirata aggressiva di Biden. Francia e Regno Unito hanno ribadito l’intenzione di non intervenire, con l’inevitabile rammarico degli ucraini. La delicata unità della Nato è stata compromessa. Putin si è aggrappato a questa conferma delle sue tesi.
L’esperto diplomatico statunitense Richard Haass ha reagito con durezza al discorso di Biden: “Il fatto che sia stato improvvisato peggiora le cose” perché rivela cosa pensa davvero. Inoltre, evidenzia una spaccatura sul conflitto all’interno dell’amministrazione statunitense, con il presidente già impegnato in una guerra più grande. La prospettiva è quella dei due blocchi di potere principali del mondo guidati da due uomini che hanno il dito poggiato sul pulsante nucleare e apparentemente una scarsa consapevolezza della realtà. Questo è lo scenario della “pazzia” temuto dagli strateghi allarmisti della lotta per il potere del ventesimo secolo.
La guerra in Ucraina è a un punto di svolta: alla fine del suo inizio, ma forse anche all’inizio della sua fine. È un momento di enorme incertezza. I combattimenti sul campo sono per lo più in stallo. Gli alleati dell’Ucraina hanno dato quasi tutto il sostegno logistico che potevano, evitando il rischio di un contatto diretto con i russi. Sanno che la prospettiva dei soldati della Nato in territorio ucraino confermerebbe la retorica di Putin, rischiando di provocare un’escalation di obiettivi militari e armamenti. L’Ucraina diventerebbe un bagno di sangue mentre l’Europa si troverebbe di fronte allo scatenarsi degli obblighi previsti dalle alleanze, come nel 1914.
Zelenskyj è stato abile nel mobilitare le forze a difesa del suo paese. Ha mostrato quello che gli analisti militari non hanno mai capito, ma che è emerso nelle ultime guerre: le armi tecnologiche e la superiorità aerea possono non bastare davanti a semplici combattenti, in alcuni casi dilettanti, che hanno una causa e una patria da difendere. Ma ora Zelenskyj dovrà essere ancora più abile. Deve negoziare i compromessi inevitabili per scongiurare la completa distruzione delle città ucraine e convincere Putin a ritirare le forze armate.
Il 29 marzo 2022 a Istanbul i delegati di Russia e Ucraina sono tornati a incontrarsi dopo oltre due settimane per discutere di una soluzione al conflitto. La delegazione ucraina ha presentato una proposta di accordo in base alla quale il paese diventerebbe neutrale, rinunciando a entrare in qualunque alleanza militare e a dotarsi di armi nucleari. La sua sicurezza sarebbe garantita da un trattato che obbligherebbe i paesi firmatari – i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, più Turchia, Italia, Polonia e Israele – a difenderlo in caso di aggressione. L’obiettivo sarebbe arrivare a un cessate il fuoco anche senza affrontare la questione dell’integrità territoriale: il futuro delle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk e quello della Crimea, annessa dalla Russia nel 2014, sarebbero oggetto di trattative separate.
La Russia ha invece annunciato che “per contribuire alla fiducia reciproca” ridurrà gli attacchi nelle aree di Kiev e di Černihiv. In precedenza Mosca aveva dichiarato la fine delle operazioni militari nel nord del paese, sostenendo che si sarebbe concentrata sui fronti meridionali e orientali. Il 30 aprile però le autorità ucraine hanno denunciato nuovi attacchi a Černihiv e intorno alla capitale. Lo stesso giorno il presidente russo Vladimir Putin ha respinto la richiesta di un cessate il fuoco a Mariupol, sotto assedio da più di un mese, dichiarando che i bombardamenti avranno fine solo quando la città si sarà arresa. Bbc
Le dichiarazioni di Kiev alla vigilia dei colloqui di pace di Istanbul sembrano consapevoli di questa realpolitik. In sostanza Zelenskyj suggerisce un ritorno al protocollo Minsk II del 2015. L’accordo riconosceva la contrarietà della Russia – ora più forte – nei confronti di qualsiasi avanzamento della Nato verso il confine con l’Ucraina, e accettava la virtuale “finlandizzazione” del paese. Ma prevedeva anche una sostanziale e mai realizzata autonomia per la regione del Donbass, il cui rifiuto sembrerebbe condannare la guerra a un inferno senza fine. Questa autonomia sarà un punto cruciale. Negli ultimi anni i vecchi distretti industriali del Donbass hanno alimentato l’anarchia in Ucraina. Per decenni questo genere di dissenso regionale ha rovinato la stabilità di metà dei paesi europei, tra cui Francia, Spagna e Regno Unito. I regimi centralisti possono condannarlo e trattare il separatismo come una maledizione arcaica. Non c’è niente di unico nel caso dell’Ucraina, ma oggi dimostra i danni del veleno del centralismo quando lo si lascia marcire.
Un nuovo futuro
Trovare un percorso costituzionale verso l’autonomia del Donbass e della Crimea dev’essere la chiave per la pace. Da qualche parte nelle acque oscure del decentramento, del confederalismo e della “sovranità leggera” esiste un nuovo futuro per questo disperato angolo d’Europa. Gran parte del Donbass è autonoma dal 2014 e una forma di riconoscimento di questa situazione sarà il prezzo da pagare per la pace. Definire i suoi confini e assicurarsi che siano accettati sarà difficile. L’ultima cosa di cui questo rompicapo diplomatico ha bisogno è diventare lo strumento delle lotte politiche interne dell’occidente.
Due leader della Nato, Biden e il britannico Boris Johnson, sono populisti che non conoscono l’arte della diplomazia. Entrambi affrontano l’ostilità degli elettori in patria. E si agitano lungo la frontiera ucraina gonfiando il petto e mettendo in scena parodie del machismo churchilliano. Ma queste sceneggiate non scoraggiano Putin. Al contrario, rafforzano la sua retorica e rilanciano il rilievo mondiale della guerra. Questo renderà il presidente russo più riluttante ad accettare il costo di qualunque concessione dovrà fare in una eventuale sconfitta.
Un’altra massima sulla guerra è di lasciare al nemico un ponte per ritirarsi. Quel ponte è rappresentato dal compromesso costituzionale nel Donbass e dall’accettazione del fatto che la disputa è tra l’Ucraina e Putin, non tra l’occidente e la Russia. Per il bene di una pace generale le cose devono restare così. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1454 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati