Nel luglio 2003 Tony Rothman, fisico e scrittore candidato al premio Pulitzer, ricevette un’email dal suo editore con una brutta notizia. Il suo nuovo libro, che stava per essere pubblicato, sfatava alcuni degli episodi spesso fraintesi della storia della scienza. Il titolo era un rimando scherzoso alla teoria della relatività di Albert Einstein: Everything’s relative (Tutto è relativo). Rothman aveva chiesto al suo editore, Wiley, di mettere in copertina una foto dello scienziato più famoso della storia. “Abbiamo un problema”, c’era scritto nell’email. L’editore era stato avvertito che gli eredi di Einstein erano “estremamente aggressivi e litigiosi”. A meno di pagare una grossa somma per usare l’immagine dello scienziato, spiegava, rischiavano di essere denunciati. Rothman era furioso. “Ma è ridicolo”, scrisse nella risposta. “Se andassero dietro a tutti quelli che hanno usato l’immagine di Einstein, non avrebbero tempo di fare altro. Sei sicuro che abbiano l’esclusiva?”. L’editore non era disposto a indagare sui tecnicismi legali. Non era la prima volta che incontrava eredi ostili, disse.

Albert Einstein morì nel 1955. Nell’articolo 13 del suo testamento fece scrivere che i suoi “manoscritti, i diritti d’autore, i diritti di pubblicazione, i ricavi derivanti da questi diritti… e ogni altra proprietà letteraria”, alla morte della sua segretaria Helen Dukas e della figlia Margot Einstein sarebbero passati all’Università ebraica di Gerusalemme, che lui stesso aveva contribuito a fondare nel 1918. Nel testamento Einstein non menzionava l’uso del suo nome o della sua immagine su libri, prodotti o pubblicità. Oggi sono noti come diritti di pubblicità, ma all’epoca questo concetto legale non esisteva. Quando l’Università ebraica assunse il controllo del patrimonio di Einstein nel 1982, tuttavia, i diritti pubblicitari erano diventati un feroce campo di battaglia legale, del valore di milioni di dollari all’anno.

A metà degli anni ottanta l’università cominciò a decidere chi poteva usare il nome e l’immagine di Einstein e a quale prezzo. Chi voleva fare richiesta doveva presentare una proposta, che sarebbe poi stata valutata da arbitri anonimi a porte chiuse. Un pannolino a marchio Einstein? No. Una calcolatrice a marchio Einstein? Sì. Chi non seguiva questa procedura o contestava la decisione dell’università, poteva essere denunciato. Venditori di magliette, costumi di Halloween, caffè in chicchi, suv e cosmetici a tema Einstein si ritrovarono in tribunale. I bersagli dell’università andavano dai venditori ambulanti a multinazionali come la Coca-Cola, l’Apple e la Walt Disney, che nel 2005 pagò 2,66 milioni di dollari una licenza di cinquant’anni per poter chiamare “Baby Einstein” una linea di giocattoli.

Cacciatori di teste

Einstein era stato un uomo ben pagato. Lo stipendio di 10mila dollari dell’Institute for advanced study di Princeton – equivalente a 180mila dollari di oggi – superava quello di qualsiasi scienziato statunitense (“Non è troppo?”, aveva chiesto Einstein all’epoca). Ma i suoi guadagni in vita sono insignificanti rispetto a quelli da morto. Dal 2006 al 2017 è apparso ogni anno nell’elenco di Forbes delle dieci figure storiche più redditizie – le “celebrità defunte”, per usare l’espressione piuttosto sminuente della rivista – raggiungendo una media di 12,5 milioni di dollari all’anno in diritti di licenza per l’Università ebraica, che è la più importante d’Israele. Secondo una stima prudente, fino a oggi i guadagni garantiti post mortem da Einstein all’ateneo si aggirano sui 250 milioni di dollari.

Nonostante i ripetuti successi dell’università nei confronti dei presunti trasgressori, quelli che la contestano non sono convinti che Einstein avrebbe voluto tutto questo. In vita lo scienziato si era sempre opposto ai tentativi di commercializzare la sua immagine. Perché avrebbe dovuto cambiare idea da morto? In un articolo uscito sul New York Times, un professore di diritto statunitense ha descritto l’istituto ebraico e simili come “i nuovi profanatori di tombe”. Un avvocato di Time ha definito gli agenti dell’università un “gruppo di cacciatori di teste tribali”. Un’azienda che produce un costume di Einstein per bambini è tra le decine che hanno protestato contro l’università, dicendo a un giornalista: “Non può ‘ereditare’ da Albert Einstein diritti che non esistevano al momento della sua morte”.

Einstein presta giuramento come cittadino statunitense insieme alla figlia Margot (alla sua destra) e alla segretaria Helen Dukas (a sinistra). Trenton, in New Jersey, il 1 novembre 1940 (John Treslian, NY Daily News Archive/Getty Images)

Da parte sua, l’università afferma di avere non solo il diritto legale, ma anche il dovere morale di proteggere Einstein da chi infangherebbe il suo nome con associazioni dubbie. Al di là di questo, non è disposta a discutere la questione. Ha rifiutato la mia richiesta di un’intervista, ma ha accettato di rispondere alle domande via email tramite un intermediario. Le risposte sono state concise. Quelle alle domande concrete erano soprattutto: “Non sappiamo”. Alle altre, si ribadiva la facoltà di far valere i propri diritti legali e di non voler divulgare ulteriori dettagli.

Ma la questione è tutt’altro che risolta. Roger Schechter, che insegna legge all’università George Washington, ha definito la legislazione sui diritti di pubblicità post mortem “un vero pasticcio”. Mentre Brasile, Canada, Francia, Germania e Messico hanno leggi nazionali che danno una definizione e una durata ai diritti pubblicitari postumi, negli Stati Uniti le norme variano da stato a stato. Solo ventiquattro stati hanno adottato una legge su questi diritti, che possono durare da venti (in Virginia) a cento anni (in Oklahoma e Indiana). Una celebrità che muore in California ha quindi diritti diversi rispetto a una che muore a New York. Il New Jersey, dove morì Einstein, è uno dei diciassette stati che non hanno posto limiti alla facoltà di un erede di trarre profitto dai diritti di pubblicità, il che potrebbe consentire all’Università ebraica d’intentare azioni legali contro presunti trasgressori a tempo indeterminato. “Se volessi mettere in difficoltà i miei studenti all’esame finale di giurisprudenza”, mi ha detto Schechter, “sceglierei il caso Einstein”.

Mentre gli avvocati discutono i punti oscuri del diritto, l’Università ebraica continua a trarre profitto dal nome, dall’immagine di Einstein e perfino dalla sua silhouette. Nel 2021 il governo britannico ha pagato una somma non precisata per usare Einstein come testimonial in una campagna televisiva e online per pubblicizzare i contatori di energia intelligenti. L’università è attualmente coinvolta in una causa intentata contro cento presunti trasgressori nello stato dell’Illinois, dove una legge protegge tutto, dall’immagine di una celebrità ai suoi “gesti e manierismi” per cent’anni.

Nel 2003 Rothman non poteva credere, come aveva affermato il suo editore, che l’università avesse il potere di vietare l’uso dell’immagine di Einstein sulla copertina del suo libro. Come poteva un’organizzazione, per non parlare di un’istituzione dedicata all’apprendimento, rivendicare la proprietà dell’immagine di un personaggio pubblico? Il suo editore, tuttavia, non era disposto a rischiare una costosa battaglia legale e mandò a Rothman un facsimile della copertina. Einstein era scomparso, sostituito da Thomas Edison. “Fa schifo”, scrisse Rothman all’editore, prima di chiedere in un’altra email di “tornare all’originale”. La posizione dell’editore non cambiò. La reputazione dell’università bastava a dissuaderlo. Quando Everything’s relative uscì finalmente in libreria, sulla copertina c’erano delle nuvole che riportavano la formula più famosa del mondo, E=mc. L’autore dell’equazione non compariva da nessuna parte.

Einstein aveva impiegato così tanto tempo per imparare a parlare che i genitori avevano fissato un appuntamento con un medico

Fiumi di lettere

Einstein conosceva bene la forza delle immagini. Per tutta la vita evocò scene semplici per illustrare idee complesse: un ascensore che precipita, un treno che sfreccia attraverso un temporale, uno scarabeo cieco che striscia lungo una superficie curva. Per spiegare la sua teoria della relatività ristretta scherzava: “Se siamo seduti su una stufa calda, un minuto sembra un’ora, ma se siamo seduti con una bella ragazza un’ora diventa un minuto”. Con il tempo anche lui sarebbe diventato un simbolo, l’incarnazione più pura di quella qualità enigmatica che è il genio.

Da bambino, tuttavia, Einstein non era stato molto promettente. Nel 1879, vedendo per la prima volta il suo testone, la nonna materna aveva esclamato: “Troppo grasso!”. La cameriera di famiglia lo aveva soprannominato “der Depperte”, l’idiota. Einstein aveva impiegato così tanto tempo per imparare a parlare che i genitori avevano fissato un appuntamento con un medico per scoprire se c’era qualcosa che non andava. Un maestro di scuola aveva dichiarato che il suo allievo più distratto non avrebbe mai combinato nulla.

Dopo essersi laureato in matematica al politecnico di Zurigo, Einstein fu respinto per diversi incarichi accademici. Mentre lavorava all’ufficio brevetti di Berna come impiegato – o per usare le sue parole, come “rispettabile pisciatore d’inchiostro federale” – sviluppò alcune teorie scientifiche e nel 1905, a 26 anni, cominciò a pubblicare una serie di articoli che avrebbero rivoluzionato la fisica, tra cui la teoria della relatività ristretta. Altri scienziati colsero rapidamente l’importanza delle sue idee e nel 1909 Einstein fu assunto come professore di fisica teorica all’università di Zurigo. Fu solo nel 1919, tuttavia, che diventò famoso in tutto il mondo.

Quell’anno, durante un’eclissi solare, l’astronomo britannico Arthur Eddington condusse un esperimento fotografico per verificare una delle teorie di Einstein: che sulla distanza la gravità piega la luce. Era un’affermazione semplice che però implicava una riorganizzazione delle galassie. Se fosse stata vera, la posizione di ogni stella, satellite e pianeta avrebbe dovuto essere ricalcolata. Einstein non era molto conosciuto nel Regno Unito, dove gli scienziati si divertivano a ignorare o denigrare i loro colleghi tedeschi. Tuttavia il 6 novembre 1919 i migliori tra loro andarono alla Royal society di Londra per ascoltare i risultati degli esperimenti di Edding­ton. L’edizione del mattino successivo del Times consegnò al mondo la notizia: “Rivoluzione nella scienza. Nuova teoria dell’universo che contraddice le idee di Newton”. Il New York Times scrisse che quella di Einstein era “forse la più grande scoperta nella storia del pensiero umano”. Un titolo diceva: “Nel cielo la luce si piega”. L’idiota aveva fatto uscire il mondo dal suo asse.

Rinato come personaggio pubblico anche grazie allo sviluppo dei mezzi d’informazione di massa, Einstein cominciò a ricevere fiumi di lettere da parte dei suoi sostenitori. “Sto bruciando all’inferno e il postino è il diavolo”, scrisse quattro settimane dopo la presentazione di Eddington, lamentandosi di essere così perseguitato dalla stampa da riuscire “a malapena a respirare”. Tuttavia continuò a rilasciare interviste, e il suo senso dell’umorismo e il suo talento per gli aforismi spinsero le vendite. Scriveva editoriali per giornali nazionali ed era sempre brillante in compagnia. Aveva una specie di carisma indefinibile. “La personalità di Einstein, senza un chiaro motivo, provoca una sorta d’isteria di massa”, scriveva uno sbigottito console tedesco a New York nel 1931.

La linguaccia

La sua mente rese Einstein famoso, ma fu il suo aspetto a farne un’icona. Pochi comprendevano le implicazioni del suo lavoro – “quattromila persone sono frastornate mentre parla Einstein”, scriveva il New York Times – ma la sua immagine, diffusa attraverso la stampa e la televisione, era assolutamente accessibile. I capelli arruffati, il maglione sdrucito, i baffi folti, l’espressione da cane bastonato e quegli occhi tristi e galattici. “Era trasandato”, mi ha detto Robert Schulmann, un ex curatore dei Collected papers of Einstein. “Ma a un certo punto, questo cominciò a giocare a suo favore”. L’immagine di Einstein lo rendeva simpatico al mondo, lasciando intendere che era troppo occupato a riflettere su questioni importanti per perdere tempo a pettinarsi.

L’attività di Einstein come filantropo, filosofo, pacifista e antirazzista continuò per tutta la vita. Quando Adolf Hitler andò al potere, Einstein rinunciò alla cittadinanza tedesca e non tornò mai più in patria. Aiutò molte persone a fuggire dall’oppressione nazista, lanciò una campagna per i diritti civili dei neri americani e, dopo che le sue teorie avevano contribuito alla costruzione della bomba atomica, diventò un fervente pacifista. Oggi ritroviamo l’impronta di Einstein in molte tecnologie che fanno funzionare il mondo, dai laser ai semiconduttori che alimentano gli smartphone. Ma, almeno agli occhi dell’opinione pubblica, quello che di Einstein è rimasto più impresso è la sua immagine.

Il 14 marzo 1951, mentre lasciava il Princeton Club, il locale nel New Jersey dove aveva festeggiato il suo settantaduesimo compleanno, Einstein vide la macchina fotografica del fotoreporter statunitense Arthur Sasse, guardò l’obiettivo e tirò fuori la lingua. Quando Sasse inviò la foto al giornale, in redazione si discusse a lungo se pubblicarla o meno, temendo che l’immagine catturasse un soggetto illustre in un atteggiamento inopportuno. In realtà, una volta pubblicata quella foto offrì l’immagine più famosa e duratura dello scienziato: un adorabile burlone ma anche un genio che aveva definito un’epoca. Einstein ordinò nove copie del giornale.

Quella foto divenne l’immagine più famosa e duratura dello scienziato: un adorabile burlone ma anche un genio che aveva definito un’era

Morì quattro anni dopo, il 18 aprile 1955, a 76 anni. Aveva pianificato tutto in modo da evitare l’idolatria postuma, lasciando istruzioni precise al suo amico fidato ed esecutore testamentario, l’economista Otto Nathan. Einstein voleva che il suo corpo fosse cremato e le ceneri sparse nel fiume Delaware; non dovevano esserci monumenti, avrebbe lasciato al mondo solo il suo lavoro. Questo non impedì il furto del suo cervello, che fu estratto e conservato da Thomas Harvey, il capo patologo dell’ospedale dove morì. Il medico sperava di continuare a studiare l’organo più impressionante che l’umanità avesse mai prodotto. In termini di dividendi futuri, tuttavia, aveva scelto la reliquia sbagliata. Non era il cervello di Einstein che il mondo voleva, era la sua faccia.

Clienti deceduti

Ogni volta che entrava nel soggiorno della casa dei suoi genitori a Washington, nello stato di New York, Roger Richman vedeva una fotografia incorniciata di Albert Einstein con suo padre. Il padre di Richman, Paul, era diventato amico di Einstein negli anni trenta mentre lavoravano insieme per aiutare gli ebrei tedeschi a trasferirsi in Alaska, Paraguay e Messico (a quei tempi, la maggior parte degli Stati Uniti era chiusa a chi fuggiva dall’oppressione nazista). Paul Richman morì nel 1955, tre mesi dopo Einstein, ma la famiglia rimase vicina a chi custodiva l’eredità di Einstein.

Roger Richman diventò avvocato e nel 1978 fondò un’agenzia specializzata nell’inserimento di prodotti in film e programmi tv. L’anno successivo, gli eredi del defunto comico statunitense WC Fields contattarono il suo ufficio. Volevano che Richman diventasse il suo agente, una richiesta sorprendente, dato che Fields era morto da trentadue anni. Gli eredi speravano che Richman potesse impedire la vendita di un poster che mostrava la testa del comico sovrapposta a un corpo coperto solo da un pannolino. Sembrava che ci fossero poche possibilità per fare ricorso: i diritti di pubblicità di un personaggio famoso non si estendevano per legge ai suoi eredi. Mentre studiava la legge, Richman s’imbatté nel caso di Bela Lugosi, l’attore ungherese-statunitense famoso per l’interpretazione di Dracula. Nel 1966 suo figlio aveva fatto causa alla Universal Pictures, sostenendo che lui e la sua matrigna, non la casa di produzione, possedevano i diritti d’immagine del padre. Lugosi vinse la causa, ma in appello la sentenza fu ribaltata con la motivazione che l’attore non aveva venduto la sua immagine a scopi commerciali quando era in vita. Richman dedusse che gli eredi di una celebrità che avesse venduto la sua immagine mentre era in vita potevano rivendicare i diritti di pubblicità.

L’occasione di testare questa teoria arrivò pochi mesi dopo, quando Richman venne a sapere che il servizio postale degli Stati Uniti voleva produrre un francobollo commemorativo in onore del centenario della nascita di WC Fields. Sporse denuncia, citando la sentenza Lugosi. Dopo le proteste iniziali, il servizio postale pagò per la prima volta i diritti agli eredi di una celebrità defunta.

Richman creò ben presto un invidiabile elenco di clienti deceduti, che comprendeva Marilyn Monroe e Sigmund Freud. I discendenti delle celebrità erano felici di sentire Richman, che gli offriva un modo per proteggere i loro cari da possibili danni all’immagine e fare un po’ di soldi. Anche i pubblicitari erano ansiosi di lavorare con i morti che, a differenza dei vivi, non sarebbero stati coinvolti in nuovi scandali, non avrebbero mancato gli appuntamenti per costosi servizi fotografici né chiesto dispendiose rinegoziazioni contrattuali. I destinatari delle lettere di Richman, tuttavia, erano scettici. Le aziende abituate a rispettare le leggi sulla diffamazione, sul diritto d’autore e sui marchi registrati si sentivano “colte in un’imboscata da pretese legali imprecise e instabili”, come ha detto Will Clark, tra i fondatori di Baby Einstein. “Era chiaro che Richman aveva ‘inventato’ un concetto legale che piaceva a Hollywood. Ma era altrettanto chiaro che stava spingendo un grosso masso su per una ripida collina”.

Di cattivo gusto

Richman si considerava svantaggiato. “Spesso il potere e l’influenza della controparte mi scoraggiava”, scrisse in un libro di memorie inedito. “Stavo combattendo contro i principali produttori, editori, agenzie pubblicitarie, emittenti radiotelevisive e studi cinematografici, tutta gente combattiva”. Ma era anche eccitato da quella che considerava una causa morale. Come poteva qualcuno, annotava, “non voler rimuovere dal mercato un dildo con l’immagine del presidente?”.

Per aggiungere peso legale alle sue minacce, il nipote di WC Fields, Everett, gli suggerì di redigere una proposta di legge sui diritti delle celebrità defunte. All’inizio Richman pensò che l’idea fosse assurda. Ma quando il senatore della California William Campbell espresse il suo interesse per la proposta, Richman scrisse più di ottanta lettere a “vedove e orfani di personaggi famosi” e mise insieme un gruppo di potenti sostenitori, tra cui Elizabeth Taylor, l’ex moglie di Elvis Presley, Priscilla, e la vedova di Bing Crosby, Kathryn. Dopo due rifiuti, il 1 gennaio 1985 la legge sui diritti delle celebrità della California fu approvata. Almeno in quello stato, gli eredi ora potevano ottenere legalmente i diritti di pubblicità dei loro parenti famosi morti lì. Con il precedente legale della California, Richman si sentiva forte. Era arrivato il momento di andare in soccorso del vecchio amico di suo padre, Albert Einstein.

Quando era in vita, Einstein aveva respinto qualsiasi tentativo di usare il suo nome e la sua immagine come espediente promozionale. Aveva perfino rifiutato offerte di associazioni apparentemente innocue, come quella della Brandeis university di chiamare l’ateneo con il suo nome. Dopo che era morto, tuttavia, a nessuno sembrò importare quello che Einstein avrebbe voluto. Negli anni ottanta del novecento, la sua immagine fu collegata a ogni tipo di beni e servizi, perché aggiungeva a qualsiasi cosa, dai frisbee alle palle di vetro con la neve, una patina di glamour intellettuale. Ora che Einstein non poteva più protestare, quasi tutte le aziende del mondo sembravano pronte a trarne profitto.

Einstein festeggia i suoi settant’anni insieme ad alcuni bambini fuggiti ai campi di concentramento nazisti e a William Rosenwald, presidente dell’organizzazione United Jewish appeal. Princeton, 14 marzo 1949 (Gamma-Keystone/Getty Images)

Dopo l’approvazione della legge in California, Richman cominciò a raccogliere ritagli di pubblicità in cui compariva Einstein. Inviò una cartella del materiale – dagli annunci per le macchine a quelli per i parrucchieri – all’esecutore testamentario di Einstein, Otto Nathan, con una lettera in cui chiedeva chi avrebbe dovuto contattare “per evitare questo tipo di abusi”. Nathan inoltrò i ritagli all’Università ebraica di Gerusalemme. Intravedendo l’opportunità per esercitare una certa influenza sull’uso dell’immagine di Einstein, il 1 luglio 1985 l’università nominò Richman “agente mondiale esclusivo” di Einstein. Il quotidiano US1, di Princeton, inventò un altro nome per la funzione di Richman, definendolo “il custode-gorgone nominato dall’Università ebraica”.

L’accordo favoriva l’università, che incassava il 65 per cento su ogni contratto di licenza, e la metà dei proventi delle azioni legali vinte contro i trasgressori. Mentre alcuni lo percepivano come un opportunista, Richman considerava il suo lavoro una missione morale per proteggere l’eredità dell’icona che aveva definito il novecento. Richman aveva elaborato una serie di linee guida, che l’università aveva accettato: Einstein non doveva essere associato a tabacco, alcol o gioco d’azzardo. Non dovevano essere inventate citazioni o formule. Nessuno poteva disegnare un fumetto su un’immagine di Einstein e riempirlo con proprie parole o idee. “Quelle erano le basi”, scrisse Richman, aggiungendo che il legame personale con Einstein rafforzava la sua determinazione a consentire solo affiliazioni “degne di un fisico, filantropo, filosofo e pacifista”.

Richman era un instancabile cacciatore di contrabbando einsteiniano, quindi l’università affidò la responsabilità di gestire il diluvio di richieste a un volontario, Ehud Benamy dell’American friends of the Hebrew university di New York, un’organizzazione affiliata istituita per raccogliere fondi e sensibilizzare le università degli Stati Uniti. Richman inviava ogni proposta di licenza a Benamy, che ne rifiutava molte. Benamy era d’accordo con Richman che la famosa fotografia di Einstein con la lingua di fuori fosse “di cattivo gusto” e i due decisero che avrebbero rifiutato le frequenti richieste inviate dai pubblicitari per usarla (diversi anni dopo l’Università ebraica ammise che non avrebbe dovuto mettere il veto su una posa che Einstein aveva “consapevolmente presentato al mondo”). Benamy e Richman rifiutarono anche di concedere la licenza a un produttore italiano di forni, perché l’associazione secondo Richman avrebbe potuto turbare gli ebrei sopravvissuti all’olocausto.

Nonostante l’impegno di Richman, alcuni prodotti “gravemente offensivi”, come li considerava lui, raggiunsero comunque il mercato

Le aziende tecnologiche erano particolarmente ansiose di associare i loro prodotti a Einstein. Nel 1989 la Sony pagò con riluttanza 63mila dollari per inserire l’immagine dello scienziato in una pubblicità. Nel 1997 Richman venne a sapere che la Apple voleva usare la foto di Einstein per pubblicizzare i suoi computer Mac accompagnata dallo slogan “Think different”, pensa in modo diverso. Dopo aver negoziato quella che credeva essere una somma onesta, 600mila dollari, Richman ricevette una telefonata dal cofondatore della Apple, Steve Jobs, che gli chiedeva uno sconto. “Gli spiegai che esisteva un solo Albert Einstein”, scrisse Richman nelle sue memorie. Se quella tariffa era troppo alta, gli rispose, avrebbe potuto concedergli in licenza una foto di Mae West: “Anche lei pensava in modo diverso”. Jobs pagò la somma richiesta.

Dagli antibiotici ai computer

Nonostante l’impegno di Richman, alcuni prodotti “gravemente offensivi”, come li considerava lui, raggiunsero comunque il mercato. Quando scoprì che una catena di negozi di proprietà degli Universal City Studios aveva prodotto una felpa con lo slogan “E=mc: le sfighe capitano”, Richman riuscì a vietarne la vendita costringendo l’azienda a pagare 25 mila dollari di danni. In seguito fu offeso da Command & Conquer, la serie di videogiochi lanciata nel 1995 dalla Electronic Arts (Ea), in cui i giocatori potevano, per usare le sue parole, “cliccare su alcuni tasti che portavano Adolf Hitler a uccidere Einstein”. Richman voleva che l’Ea aggiungesse un adesivo a ogni scatola per avvertire della presenza di contenuti antisemiti. L’Ea rispose che scrivere storie di fantasia su personaggi storici era un diritto garantito dal primo emendamento, che prevaleva sulla legge sulla pubblicità postuma. Le parti si accordarono in via extragiudiziale.

Richman non sopportava il fatto di essere spesso descritto in tribunale e dalla stampa come un “vampiro del marketing”. Era un ritratto offensivo, scrisse, “soprattutto dato che avevo redatto leggi che impedivano alle serpi di intrufolarsi nella vita di tutti”. Richman considerava preoccupante anche che in quanto imprenditore ebreo fosse abitualmente descritto come un opportunista avido di denaro. Era indiscutibile, tuttavia, che fosse riuscito a garantire all’Università ebraica – e a se stesso – le condizioni più favorevoli. Quando venne a sapere che la società Baby Einstein stava per essere venduta alla Walt Disney, chiese un aumento sul prezzo precedentemente concordato (Will Clark della Baby Einstein ritiene che l’università abbia reso pubblica la cifra finale della licenza per “ribadire l’importanza del diritto a usare il nome di Einstein e quindi di pagare per averlo”).

Incoraggiato dai successi, Richman cominciò a prendere di mira le aziende che usavano il nome di Einstein senza avere nessuna associazione con lui. La Einstein Bros Bagel cedette alle richieste dell’università, anche se il suo nome era preso dai suoi fondatori. Per un accademico dell’Università ebraica, questo atteggiamento aggressivo di Richman presentava un preoccupante dilemma etico.

Negli anni novanta Zeev Rosenkranz, curatore dell’archivio Einstein all’Università ebraica, riceveva fino a trenta fax al mese dall’ufficio di Richman a Beverley Hills. Ognuno conteneva la proposta di un’azienda che sperava di usare il nome o l’immagine di Einstein nei suoi prodotti o servizi: c’era di tutto, dagli antibiotici ai computer, dalle fotocamere alle bibite. Spettava a Rosenkranz, un giovane accademico che, grazie al suo lavoro sulle carte di Einstein, conosceva intimamente i pensieri e i valori dello scienziato, approvare o respingere ogni offerta. La responsabilità era “enorme”, mi ha detto di recente Rosenkranz. “Sono uno storico, non un uomo d’affari. Ma in qualche modo l’università aveva deciso che quello sarebbe stato il mio ruolo”.

Rosenkranz aveva ereditato questo compito dopo la morte di Ehud Benamy alla fine del 1990. Valutava ogni richiesta con il senso del dovere di uno studioso, bilanciando le sue ipotesi su quello che Einstein avrebbe voluto con la pressione che sentiva da parte di Richman di dare il via libera a tutto quello che non costituisse un’associazione palesemente dannosa. “Era fondamentalmente una questione di gusti”, ha ricordato. “A volte non pensavo che il prodotto in questione, il suo design o il testo di accompagnamento fossero sufficientemente all’altezza”.

I rifiuti erano spesso accolti con rabbia. “Le aziende dicevano: ‘Sono fesserie’”, ha raccontato Rosenkranz. “‘Queste persone sono morte. Non hanno diritti’”. Altri negavano che il loro prodotto avesse qualche legame con il fisico. “C’era un programma di videoscrittura chiamato ‘Einstein’, piuttosto famoso in Israele”, mi ha detto Rosenkranz. “L’azienda che lo aveva sviluppato aveva perfino usato la parola genio per pubblicizzarlo”. Ma affermava che il software prendeva il nome dal fondatore Stuart, e non dal fisico (secondo Rosenkranz la spiegazione era stata convincente e l’azienda non aveva mai pagato).

L’università sembrava felice di rimanere nell’ombra mentre Richman combatteva le sue redditizie battaglie. “Avevo l’impressione che le persone non fossero consapevoli del ruolo dell’università”, mi ha detto Rosenkranz. “Ma Richman aveva la reputazione di essere un osso duro nelle trattative, il che era nell’interesse dell’ateneo”.

Einstein nel suo studio di Princeton insieme al fisico Robert O​ppenheimer nel 1950 (Gertrud​e Samuels, The New York Times​/Contrasto)

Abuso di ruolo

Rosenkranz si sentiva a disagio nel suo ruolo. Pensava che Einstein non avrebbe approvato la maggior parte, se non tutte, quelle licenze. “Se si trattava di un’attività puramente commerciale, di solito era contrario”, ha spiegato. Ma Richman faceva pressione perché lui approvasse una gamma molto ampia di proposte. Rosenkranz ha ricordato la volta in cui aveva rifiutato un accordo con i produttori dei pannolini Huggies. Richman era particolarmente scontento: “Per lui non si trattava solo di profitto. Ma alla fine era sempre un affare. E io sono un accademico. Non era facile”.

Prima di vendere la sua agenzia e il suo elenco di “leggende defunte” all’agenzia fotografica Corbis nel 2005, Richman convinse l’Università ebraica a depositare una serie di marchi per prodotti legati a Einstein, così, secondo lui, sarebbe stato più facile difenderli in sede legale in base alle leggi in vigore. Presto l’università detenne il marchio “Albert Einstein” su quasi duecento articoli, compresi metal detector, ombrelli, giochi, decorazioni di Natale, reti per farfalle, pistole ad acqua e sagome di cartone a grandezza naturale.

Per Rosenkranz, che continuò a decidere sugli accordi di licenza fino a quando nel 2003 non si trasferì nel sud della California e si dimise dall’università, l’introduzione del simbolo di marchio depositato fu profondamente imbarazzante. “La prima volta che vidi quella piccola ‘TM’ sopra il suo nome ero infastidito”, ha detto. “Non c’è segno più evidente di mercificazione, non crede? Ma gli avvocati mi dissero che era importante per garantire i diritti”. Con il marchio internazionale, l’università ora poteva contestare presunte violazioni anche in paesi in cui non esistevano diritti sulla pubblicità postuma.

Rosenkranz non era l’unica persona a sentirsi a disagio. All’inizio del 2011, quando aveva settant’anni, la nipote adottiva di Einstein, Evelyn, annunciò l’intenzione di denunciare l’Università ebraica per abuso di ruolo. Quella che era cominciata come una misura protettiva era, a suo avviso, diventata una forma di sfruttamento. “Mi sono sentita offesa da alcune cose che erano state approvate”, dichiarò Evelyn al New York Post. Un suo amico, l’avvocato Allen Wilkinson, mi ha detto che Evelyn “non sopportava il fatto che stessero guadagnando grazie al pupazzo di Einstein e cose del genere, che non avevano nulla a che fare con i diritti letterari”. L’università, diceva Evelyn, aveva ignorato le sue richieste per arrivare a un accordo che le avrebbe permesso di usare una parte di quei profitti per pagare le spese mediche. Evelyn morì prima di arrivare in tribunale. Ma poco dopo la sua morte, nell’aprile 2011, in California fu discusso un caso che, a quanto pareva, avrebbe risolto definitivamente la questione della proprietà dei diritti di Albert Einstein.

Patrimonio culturale

Nel novembre 2009 la General motors (Gm) aveva pubblicato un annuncio sulla rivista People che raffigurava il viso di Einstein incollato su un corpo muscoloso, accompagnato dallo slogan “Anche le idee sono sexy”. L’Università ebraica aveva protestato: “Einstein in mutande danneggia i suoi diritti d’immagine, che l’università ha sempre accuratamente custodito”. Il 16 marzo 2012 l’università portò la Gm in tribunale per provare, in via definitiva, che “se avesse saputo che c’erano diritti di pubblicità post mortem, Albert Einstein avrebbe trasferito questi diritti in base alla legge del New Jersey”. La Gm respinse la tesi, sostenendo che, anche se l’università avesse potuto dimostrare sia l’intento di Einstein sia una violazione da parte della Gm, era trascorso troppo tempo dalla morte di Einstein per annullare il caso. Il processo ebbe diverse complicazioni. Anche se si svolgeva in un tribunale federale della California, il giudice in carica, Howard Matz, scelse di applicare la legge dello stato del New Jersey, dove era morto Einstein. Mentre la legge della California protegge i diritti di pubblicità di una persona per settant’anni dopo la sua morte, il New Jersey non stabilisce un termine. Ci vollero sette mesi per arrivare al verdetto. “La figura di Einstein fa ormai parte del nostro patrimonio culturale”, scrisse Matz nella sentenza. “Ora, a quasi sessant’anni dalla morte dello scienziato, dovrebbe essere liberamente a disposizione di chiunque voglia appropriarsene in quanto parte della propria espressione, anche per pubblicità di dubbio gusto”.

“L’Università ebraica perde la causa sull’immagine di Einstein”, scrisse il Times of Israel. Ma quel verdetto, che sembrava chiudere la questione, era tutt’altro che chiaro. “Fu uno strano caso, con una sentenza estremamente insoddisfacente”, mi ha detto Roger Schechter. “Un giudice della California si è basato su una legge del New Jersey che non esiste. Nessun tribunale dovrebbe dare peso a quella sentenza”. L’università impugnò la decisione e il caso fu affidato a un tribunale di grado inferiore per altri accertamenti. Poi le parti improvvisamente si accordarono. “Se qualcuno mi chiedesse qual è la legge dello stato del New Jersey sull’esistenza e la durata dei diritti di pubblicità postumi, non saprei rispondere. Abbiamo solo l’ipotesi di un giudice federale di un altro stato”, ha detto Schechter. “Non molto su cui basarsi.”

Negli anni successivi ci sono state ripetute richieste al congresso degli Stati Uniti per approvare una norma uguale per tutto il paese. “Finché non ci sarà questa legge, la situazione resterà molto variabile”, dice Schechter. Al di fuori degli Stati Uniti non è molto diverso. In Brasile i diritti postumi continuano a valere finché ci sono eredi in vita. In Germania fino a settant’anni. In Inghilterra e Galles, al contrario, non esiste alcun diritto. Gli avvocati che cercano di proteggere l’immagine e la personalità di un individuo deceduto devono ricorrere a quello che uno studio definisce “un mosaico di diritti legali”.

Dopo la morte di Richman nel 2013, l’agenzia fotografica Corbis a cui lui aveva venduto i diritti di pubblicità di Einstein ha cambiato nome in GreenLight Rights, e gestisce non solo i diritti di Einstein ma anche quelli di Elvis Presley, Charlie Chaplin e Marilyn Monroe. Da allora la gestione dell’immagine dello scienziato è più sofisticata. La GreenLight collabora con aziende che usano software speciali per identificare merce contraffatta o venduta illegalmente online.

Le richieste di licenza non sono più inviate in Israele a uno storico che lavora in solitudine, ma a un gruppo di esperti dell’Università ebraica di Gerusalemme che ha il potere di approvarle o respingerle (la commissione prende in considerazione solo le richieste commerciali. I mezzi d’informazione possono usare le fotografie di Einstein per illustrare articoli grazie ad accordi già esistenti che l’università aveva stretto con agenzie fotografiche come la Getty). Ogni domanda è valutata per i suoi meriti ma, seguendo le linee guida di Richman, i fumetti, che potrebbero consentire a un’azienda di attribuire frasi a Einstein, sono sempre rifiutati, mi ha detto in un’email Yishai Fraenkel, vicepresidente e amministratore delegato dell’Università ebraica, tramite un rappresentante della GreenLight. L’università ha rifiutato di precisare la frequenza con cui gli esperti si incontrano e i nomi di chi siede nella commissione, affermando che non le sembrava “corretto né lecito”.

Biografia

14 marzo 1879 Albert Einstein nasce a Ulma, in Germania.

1900 Si laurea in matematica al politecnico di Zurigo.

1905 All’eta di 26 anni pubblica alcuni articoli di fisica innovativi. In uno di questi formula la teoria della relatività ristretta.

1909 È assunto come professore di fisica all’università di Zurigo.

1919 Le sue teorie sono confermate e divulgate dall’astronomo britannico Arthur Eddington.

1921 Ottiene il premio Nobel per la fisica.

1933 Dopo l’arrivo al potere di Adolf Hitler in Germania, si trasferisce negli Stati Uniti. Insegna all’Institute for advanced study di Princeton, in New Jersey.

18 aprile 1955 Muore a 76 anni per un’emorragia causata dalla rottura di un aneurisma.


Una questione aperta

A sessant’anni dalla sua morte, Einstein non smette di far guadagnare. Il fatto che sia ancora così richiesto dipende non solo dalla sua genialità fuori dal comune e dal suo aspetto indimenticabile, ma anche dai valori che incarnava. È sempre stato facile per diversi gruppi di persone considerare Einstein – un uomo ipocondriaco basso e dislessico, proveniente da una minoranza perseguitata – uno di loro. Le sue posizioni apparentemente contraddittorie – si opponeva alla creazione di uno stato ebraico ma condannava la vittimizzazione dei palestinesi, mentre raccoglieva fondi per la causa sionista; disdegnava l’idea del popolo eletto, ma credeva in Dio – hanno permesso anche a gruppi opposti di adottarlo come simbolo.

Cosa avrebbe detto Einstein vedendosi sugli schermi televisivi, sui cartelloni pubblicitari, sui manifesti e sulle magliette? Sarebbe stato felice di come l’Università ebraica ha gestito la sua eredità? Quando era in vita si sentiva spesso guardato ma non ascoltato. “È strano essere così universalmente conosciuto e tuttavia così solo”, disse una volta. Rosenkranz, che ha passato dodici anni a cercare di stabilire cosa Einstein avrebbe pensato delle decorazioni di Natale a marchio Einstein, ha suggerito diverse risposte. “Forse sarebbe stato contento di vedere che l’università trae profitto dalla sua immagine”, dice. “Una parte di lui, il suo lato più duro e spavaldo, avrebbe reagito con un’alzata di spalle”. Ma, alla fine, “probabilmente gli avrebbe dato fastidio. No, non sono sicuro che sarebbe stato felice”.

Qualunque siano i desideri del morto, la questione di chi possiede Albert Einstein e per quanto tempo è ancora irrisolta. Alla fine del 2020 un collega di Washing­ton ha detto a Schechter che stava collaborando con il parlamento del New Jersey per redigere una legge che specificasse la durata dei diritti di pubblicità postumi delle persone decedute in quello stato. Schechter ha accettato di testimoniare davanti all’assemblea. Poi, tre mesi dopo, è scoppiata la pandemia e i lavori sono stati sospesi. Richman ha sempre legato la durata dei diritti di pubblicità postumi alla legge sul diritto d’autore, che fissa un termine di settant’anni dopo la morte. Se il New Jersey dovesse resuscitare la legge e adottare quel limite relativamente generoso, “potremmo ritrovarci a combattere una battaglia per quelli che potrebbero essere gli ultimi due anni di diritti di pubblicità associati a Einstein, prima che scadano nel 2025”, ha detto Schechter.

Nel frattempo i soldi di Einstein continuano a scorrere, e la reputazione dell’università continua ad avere un potente effetto deterrente. L’ex curatore di uno dei musei più famosi di Londra mi ha detto di aver rimosso l’immagine di Einstein dai materiali pubblicitari su consiglio di un collega. Prima della pubblicazione di questo articolo, una portavoce dell’ateneo mi ha avvertito: “Se interferirà con i nostri accordi commerciali, il nostro buon nome o quello di Albert Einstein, saremo pronti a difendere i nostri diritti”.

Non molto tempo fa, per semplificare il processo e placare le acque, la Green­Light Rights ha aperto un sito per chiedere il permesso di usare il nome, l’immagine e le citazioni di Einstein. Le domande sono filtrate e trasmesse alla misteriosa commissione dell’Università ebraica, che prende la decisione finale. Il nome del sito è inequivocabile: Einstein.biz. ◆ bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1470 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati