Indiana Jones e il quadrante del destino ha ottenuto diverse recensioni negative, e le critiche più feroci si sono concentrate su Phoebe Waller-Bridge, che interpreta la figlioccia di Indy, Helena Shaw. La funzione narrativa di Helena è chiara: non esiste tensione sessuale tra lei e Indy, anzi, tra le altre cose, lei interviene per riavvicinarlo alla moglie Marion e, verso la fine, quando il vero desiderio di Indy è esplicitato, è lei a riportarlo alla realtà.
Il problema vero di Helena è che ha un ruolo da protagonista, mentre nell’universo standard di Hollywood dovrebbe essere secondario. Una figura destinata allo sfondo si sposta sul proscenio, alterando l’equilibrio tra i ruoli. Personalmente apprezzo molto questa sovversione. Alcuni critici vicini alla comunità trans hanno notato la stranezza di Phoebe (rispetto agli standard hollywoodiani), ma in un certo senso la rinormalizzano presentandola come una progressista che ignora i cliché patriarcali del fascino femminile. Questi critici cadono nella stessa trappola dei conservatori che nel fallimento commerciale del film vedono una reazione alla cultura woke (cioè l’attivismo consapevole secondo loro dominante a Hollywood).
Un tocco di vita vera
Ma Helena non è né un sex symbol idealizzato né un personaggio trans (altrettanto idealizzato). Semplicemente porta al film un tocco di quella che qualcuno potrebbe definire “vita vera”. Il nuovo Indiana Jones, in questo senso, è l’opposto di Barbie. Non è l’eroina a essere catapultata nel mondo reale, ma la persona reale a ritrovarsi per caso nelle avventure di Indy. Da questa prospettiva, il nuovo Indiana Jones dev’essere messo a confronto con una serie di titoli recenti in cui gli eroi si avventurano nel nostro mondo.
Nel film di Greta Gerwig, Barbie e Ken sono espulsi da Barbie Land e intraprendono un viaggio di auto-scoperta nel mondo reale. Si accorgeranno che la realtà è invasa da cliché soffocanti più del loro mondo di fantasia. Si racconta che, saputo delle lamentele sull’eccesso di vecchi cliché nei suoi film, Samuel Goldwyn scrisse ai suoi sceneggiatori: “Abbiamo urgente bisogno di nuovi cliché!”. Aveva ragione. Creare nuovi cliché per la vita quotidiana è il compito più difficile e forse la più affidabile misura del progresso. È qui che Barbie e Ken falliscono, perché capiscono che non solo esiste una realtà brutale fuori da Barbie Land, ma la loro terra utopica ne fa parte e serve a legittimarne gli aspetti peggiori.
Oppenheimer di Christopher Nolan complica ulteriormente l’avventura nel mondo reale. Il tema di fondo del film non è solo il passaggio dal rifugio accademico alla dura realtà della guerra, ma l’emergere nel mondo reale di una nuova dimensione: le armi nucleari (effetto della scienza) distruggono la nostra percezione della realtà. Robert Oppenheimer era il capo del progetto Manhattan, che sviluppò la bomba atomica durante la seconda guerra mondiale. Poi nel 1954 fu bollato come comunista per il suo legame con i gruppi che volevano rallentare la corsa agli armamenti atomici. Tuttavia, anche se l’impegno pubblico di Oppenheimer ne rivelò il coraggio e l’integrità etica, l’uomo rimase invischiato in un meccanismo perverso quando cercò di affrontare le implicazioni esistenziali delle sue azioni.
Nel saggio Apocalisse senza regno, il filosofo Günther Anders ha introdotto il concetto di “apocalisse nuda”: sulla scia di una catastrofe nucleare non sarebbe nato alcun regno. Come la maggior parte di noi, Oppenheimer non era pronto ad accettare questa nudità, così si rifugiò nell’orientalismo, imparando il sanscrito per leggere le Upanisad in lingua originale. Per descrivere i suoi sentimenti dopo la prima esplosione atomica, in New Mexico, Oppenheimer usò una citazione dalla Bhagavadgītā in cui Krsna dice ad Arjuna: “Ora sono diventato Morte, il distruttore di mondi”.
L’attrazione di Oppenheimer per la Bhagavadgītā s’inserisce nel lungo elenco di tentativi di collegare alla tradizione orientale le implicazioni metafisiche della fisica quantistica. Il film di Nolan (peraltro splendido) non riesce a far capire che l’evocazione di qualsiasi genere di profondità spirituale offusca l’orrore della nuova realtà introdotta dalla scienza. Per affrontare in modo adeguato l’apocalisse nuda che spazza via le coordinate basilari della nostra realtà, c’è bisogno dell’esatto contrario: uno spirito comico e irriverente. Non possiamo dimenticare che i film migliori sull’olocausto sono commedie, perché ammettono implicitamente che si tratta di un crimine troppo folle per diventare una tragedia.
Un gigante catalizzatore
Esiste un film che osa fare lo stesso con la drammatica realtà attuale? Nella miniserie di Boots Riley Sono vergine, Cootie, un nero di diciannove anni alto quattro metri, cresce con gli zii, che lo tengono ben nascosto. Tuttavia, allevato con una dieta abbondante di pubblicità, fumetti e cultura pop, Cootie irrompe nel mondo già indottrinato dall’ideologia dominante. Si fa degli amici, trova lavoro e riesce perfino a innamorarsi, ma si accorge che il mondo è molto più inquietante di quanto sembri. E, come un catalizzatore, il suo ingresso nella realtà sociale ne scatena gli antagonismi e le tensioni (razzismo, consumismo, sessualità).
In questo sta il genio di Riley: la combinazione di due fatti tragici (un gigante scaraventato nel nostro mondo e gli antagonismi basilari del capitalismo globale moderno) produce una commedia elettrizzante. Questo effetto comico è basato sul fatto che le fantasie ideologiche e la realtà non sono due estremi. Nel cuore della realtà più oscura troviamo le nostre fantasie. Gli autori dei crimini più orrendi non sono mostri, ma individui che agiscono per mantenere l’illusione che li anima. Gli stalinisti uccisero milioni di persone per creare una nuova società, e poi altri milioni per nascondere la verità su un progetto destinato a fallire.
Nel momento culminante di Codice d’onore di Rob Reiner, Tom Cruise urla a Jack Nicholson: “Voglio la verità!”. Nicholson risponde: “Tu non puoi reggere la verità!”. Frase più ambigua di quanto sembri. A un livello profondo, per esempio, quelli che non sono stati capaci di reggere la verità sono stati i nazisti: non hanno saputo accettare il fatto che la loro società era attraversata da un antagonismo onnipresente, e per evitare di ammetterlo hanno dato vita a una follia omicida, come se uccidere gli ebrei potesse ristabilire un’armonia sociale. È in questo che risiede la lezione finale delle avventure nella realtà: non solo ci rifugiamo in una fantasia per evitare di affrontare la realtà, ma fuggiamo nella realtà (degli atti brutali) per non ammettere la totale futilità delle nostre fantasie. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1521 di Internazionale, a pagina 71. Compra questo numero | Abbonati