Benjamin Liambila è diventato adulto in una notte. “Era il 7 settembre 2019. Stavo per andare a dormire quando ho sentito delle urla”, racconta questo ragazzo dallo sguardo vivace, che all’epoca aveva sedici anni. Pochi minuti dopo ha visto il cielo illuminarsi a giorno, le fiamme alzarsi dalle abitazioni circostanti e un gruppo di uomini con passamontagna e kalashnikov nella radura di fronte a casa sua, nel nord del Mozambico. “Sparavano all’impazzata e gridavano. Hanno ucciso mio padre davanti ai miei occhi”, dice, ricostruendo quello che è successo quella notte. Liambila ha avuto la prontezza di fuggire insieme alla madre, a uno zio e ai quattro fratelli più piccoli. Con il cuore in gola e il terrore di essere scoperti, sono rimasti nascosti per alcuni giorni nella boscaglia. Poi hanno proseguito verso sud e hanno trovato riparo nel villaggio di Marupa, dove oggi vivono in un quartiere di baracche costruite per accogliere gli sfollati.
Man mano che gli tornano in mente gli eventi che hanno cambiato per sempre la sua vita, Liambila si fa scuro in volto: “Spesso mi sveglio di soprassalto nel cuore della notte e non riesco più a chiudere occhio”. Nella casupola di fango e paglia in cui vive da solo, poco lontano da un’altra che ospita la madre e i fratelli, ci sono un letto con una zanzariera e pochi vestiti appesi a una trave sul soffitto. In terra un po’ di legna per cucinare e, in un’intercapedine tra un muro e il tetto, quattro diverse zappe “per lavorare nella machamba”, il piccolo appezzamento di terra che gli è stato assegnato per coltivare riso, mais e un po’ di miglio.
Benjamin Liambila è uno dei tanti deslocados (sfollati) della guerra nel Cabo Delgado, la provincia più settentrionale del Mozambico, dove dal 2017 i ribelli del gruppo Ansar al sunna wa jammah, meglio noti come Al Shabab (“i giovani”, in arabo), seminano morte e distruzione. Attaccano i villaggi, saccheggiano le case, rapiscono donne e bambini, e uccidono civili in modo brutale. Il conflitto ha già causato più di quattromila morti e più di un milione di sfollati, secondo i dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr).
A Marupa vivono tremila persone fuggite dalle violenze, che hanno fatto raddoppiare la popolazione locale. Abitano in un nuovo quartiere chiamato Esperança e cercano di dimenticare gli orrori a cui hanno assistito. Adencia Henriques racconta che, quando gli insurgentes (gli insorti) sono arrivati nel suo villaggio, con un megafono hanno avvertito gli abitanti che avrebbero bruciato le loro case. Lei è scappata insieme al marito e alla figlia di due anni, ma era preoccupata perché aveva lasciato indietro la nonna, che ha difficoltà a muoversi. “Quando sono tornata, ho trovato il suo corpo davanti a casa, fatto a pezzi con il machete. Perché uccidere in quel modo una persona anziana?”, si domanda con lo sguardo offuscato dalle lacrime. Henriques vuole rifarsi una vita. Ogni volta che la figlia le chiede di tornare a casa, lei risponde che la loro casa ormai è lì e devono guardare avanti. In questo è stata aiutata dall’accoglienza degli abitanti di Marupa, fin dall’inizio molto solidali con “questi figli del Mozambico, che ora sono parte della nostra comunità”, come sottolinea il leader del villaggio.
Il caso di Marupa è tutt’altro che unico. Intere aree della provincia del Cabo Delgado sono considerate pericolose e si sono svuotate. Le persone si sono trasferite a Pemba, il capoluogo provinciale, o nei campi che il governo ha allestito nei distretti più periferici o nelle province limitrofe. Inizialmente il governo mozambicano negava che nel nord del paese fosse in corso un conflitto. Poi i ribelli hanno compiuto attacchi via via più clamorosi, non solo nei villaggi dell’interno ma anche nelle città sulla costa. Nell’agosto 2020 hanno occupato Mocímboa da Praia, uno dei porti più importanti della zona, facendone la loro roccaforte. Nel marzo 2021 hanno lanciato un blitz poco più a nord, a Palma, una cittadina strategica perché ospita le sedi delle multinazionali che dal 2017 sono arrivate in Mozambico per sfruttare i giacimenti di gas naturale.
“Possiamo distinguere due fasi del conflitto: la prima ha visto un movimento disorganizzato compiere scorrerie con armi di fortuna, spesso machete. La seconda, ancora in corso, ha per protagonista un gruppo dotato di mezzi più avanzati e di indubbie capacità militari”, osserva il sociologo João Feijó, direttore tecnico dell’Observatório do meio rural, un istituto di ricerca indipendente nella capitale mozambicana Maputo.
La seconda fase citata da Feijó ha causato l’interruzione dei progetti di sfruttamento del gas e coinvolto altri paesi nel conflitto. Dopo l’attacco a Palma, che ha fatto decine di morti, l’azienda francese Total ha sospeso tutte le attività per cause di “forza maggiore”. I suoi dipendenti sono stati ritirati dalla zona, in attesa del ritorno di condizioni di sicurezza accettabili. Da quel momento, il governo mozambicano ha accettato di ricevere assistenza dall’estero: oggi nella provincia del Cabo Delgado ci sono 2.500 soldati del Ruanda e duemila militari, per lo più sudafricani, inviati dalla Southern african development community (Sadc), l’organizzazione regionale dell’Africa australe. Il loro intervento ha permesso di riprendere il controllo e riportare la calma nelle città costiere, ma la situazione resta tesa nei distretti dell’interno, dove i ribelli continuano a lanciare attacchi.
“Il governo sembra interessato a garantire la sicurezza alle multinazionali, inseguendo l’illusione che sia possibile tornare alle condizioni precedenti al conflitto con una strategia puramente militare, senza preoccuparsi del malcontento sociale che è all’origine della guerra”, sottolinea Feijó.
La maledizione delle risorse
Il conflitto nel Cabo Delgado riunisce tutti gli elementi tipici della cosiddetta maledizione delle risorse. Il miraggio della ricchezza prodotta dal gas ha fatto esplodere tutte le contraddizioni di una regione tradizionalmente marginalizzata, in preda a tensioni etniche, all’interno di un paese fortemente indebitato. I progetti di sfruttamento del gas naturale liquefatto (gnl) sono imponenti e potrebbero far diventare il Mozambico uno dei primi produttori mondiali. Si stima che al largo delle sue coste ci siano almeno tremila miliardi di metri cubi di gas, la nona riserva mondiale.
Dal 2010, quando sono stati individuati i giacimenti, le principali aziende internazionali si sono riversate nel paese. Tra le multinazionali presenti ci sono la francese Total, la statunitense ExxonMobil e l’italiana Eni. Il Mozambico è spesso citato dal governo italiano tra i protagonisti della strategia di diversificazione delle fonti energetiche, inaugurata dopo lo scoppio della guerra in Ucraina per sganciarsi dalle forniture russe. Nel paese africano si sono susseguite visite di alto livello: il 19 marzo 2022 l’allora ministro degli esteri Luigi Di Maio era andato a Maputo, seguito pochi mesi dopo, il 5 luglio, dal presidente Sergio Mattarella. Di Maio era accompagnato da Claudio Descalzi, l’amministratore delegato dell’Eni, attiva nel paese dal 2006. Nel 2011 l’azienda italiana ha annunciato la scoperta di un enorme giacimento di gas naturale nell’area ottenuta in concessione per l’esplorazione. Insieme alla texana Anadarko, autrice di un annuncio simile pochi mesi prima, l’Eni ha fatto da apripista a un’evoluzione che tutti immaginavano avrebbe trasformato il Mozambico nel nuovo eldorado del gas africano.
Più di dieci anni dopo, il sogno sembra diventato un incubo: il nord del paese è intrappolato in una guerra di cui non si vede la fine. Fatta eccezione per un progetto offshore della stessa Eni, tutte le altre attività sono sospese o non sono mai partite. Il Mozambico è sull’orlo del collasso economico, anche perché la sola prospettiva delle ricchezze prodotte dagli idrocarburi aveva spinto le élite al potere ad accaparrarsi i guadagni dello sfruttamento, prima ancora che cominciasse.
Nel 2013 il governo aveva contratto in segreto prestiti per 2,2 miliardi di dollari, teoricamente per comprare una flotta di navi per la pesca del tonno e di fregate per la sicurezza marittima. In realtà, quel denaro era al centro di un monumentale giro di corruzione, in cui erano coinvolte la banca svizzera Credit Suisse e la russa Vtb, oltre a importanti leader del Frelimo, il partito che guida ininterrottamente il Mozambico dall’indipendenza dal Portogallo, nel 1975. Quando è apparso evidente che sarebbe stato impossibile ripagare quei debiti, perché il valore del gas sui mercati mondiali era calato e i progetti di sfruttamento andavano a rilento, è esploso lo scandalo: il Fondo monetario internazionale ha ritirato il suo pacchetto di aiuti e il metical, la moneta mozambicana, ha perso più della metà del suo valore. La truffa dei tuna bonds (le obbligazioni del tonno) ha travolto alcuni alti dirigenti del Frelimo, tra cui l’ex ministro delle finanze Manuel Chang (arrestato in Sudafrica nel 2018) e Ndambi Guebuza, figlio dell’ex presidente Armando Guebuza, condannato a dodici anni di carcere nel dicembre 2022.
Subito dopo i rubini, sono venuti il gas e lo scandalo dei tuna bonds
Investimenti record
Nonostante lo scandalo, i progetti di sfruttamento sono andati avanti. Il Mozambico si è ritrovato in un circolo vizioso: il miraggio del gas e la rapacità delle élite avevano prodotto un debito che solo le entrate del gas avrebbero potuto ripagare. Le multinazionali hanno messo in campo progetti faraonici. Nella penisola di Afungi, poco distante da Palma, la francese Total ha fatto il più grande investimento privato in Africa, del valore di venti miliardi di dollari, con la prospettiva di ottenere 13,1 milioni di metri cubi di gas all’anno. Il progetto Mozambique Lng prevede la costruzione di un impianto di liquefazione del gas e di tutte le infrastrutture legate allo sfruttamento e all’esportazione: terminal, depositi e pontili, collegati attraverso gasdotti ai giacimenti sottomarini situati a diversi chilometri dalla costa.
Un progetto simile, guidato dall’Eni insieme alla ExxonMobil, prevede l’estrazione e il trasporto a terra di quindici milioni di metri cubi di gas all’anno dall’area 4 nel bacino di Rovuma. Ma non ci sono ancora tutti i finanziamenti necessari per realizzarlo.
Nel novembre 2022 l’Eni ha invece inaugurato l’impianto Coral South Lng, sempre nell’area 4, ma completamente offshore: una piattaforma galleggiante, dotata di infrastrutture di liquefazione, a ottanta chilometri dalla costa, quindi al riparo dagli attacchi dei ribelli. Costato circa sette miliardi di dollari, al momento è l’unico impianto che estrae gas in Mozambico.
Alcuni segnali sembrano indicare che anche la Total dovrebbe riprendere presto le sue attività. A marzo l’amministratore delegato della Saipem, Alessandro Puliti, ha dichiarato che la sua azienda, incaricata dal colosso francese di costruire parte delle infrastrutture, si “aspetta una graduale ripresa delle operazioni da luglio”. La Total non ha indicato delle date precise, ma ha chiesto al diplomatico ed esperto di questioni umanitarie Jean-Christophe Rufin di guidare una missione indipendente di valutazione della situazione nel Cabo Delgado. La pubblicazione del rapporto, preliminare alla ripresa delle operazioni, è stata rimandata più volte.
Intere aree del Cabo Delgado sono considerate pericolose e si sono svuotate
Definizioni divergenti
Qual è la relazione tra questi progetti miliardari e la ribellione dei miliziani di Al Shabab? “Diciamo che c’è stata una coincidenza tra la firma dei contratti per il gas, nell’estate 2017, e il primo attacco del gruppo a Mocímboa da Praia nell’ottobre dello stesso anno”, sottolinea Armando John, attivista sociale e funzionario dell’amministrazione municipale di Pemba. È seduto in un bar ristorante di questa cittadina che si estende lungo spiagge di sabbia bianchissima, già destinazione di turisti amanti delle immersioni e oggi sede delle organizzazioni non governative che aiutano gli sfollati. John ricostruisce le radici del conflitto: “La guerra nasce dalla radicalizzazione di alcuni ragazzi che si sono formati in Arabia Saudita e che, dietro una parvenza religiosa, reclutano gli esclusi, quelli rimasti ai margini che hanno poco o nulla da perdere”. Il fatto è che ai margini è rimasta la maggioranza della popolazione della provincia. Il Cabo Delgado vive questo paradosso: è la parte del paese più ricca di risorse e, allo stesso tempo, la più trascurata dal governo di Maputo, tanto da aver ottenuto il soprannome di “Cabo Esquecido”, capo dimenticato.
“Gran parte degli abitanti non ha accesso all’educazione, alle cure mediche e non ha da mangiare, mentre vede i grandi gruppi stranieri accaparrarsi i proventi delle ricche risorse naturali”, sottolinea John. “Così è successo che persone senza prospettive si sono unite a una ribellione che non è religiosa, ma sociale”.
Il governo non sembra condividere questa lettura. Prima ha definito gli insorti dei delinquenti comuni, poi ha avanzato la tesi che quella in corso nel Cabo Delgado sia un’aggressione terroristica alimentata da gruppi jihadisti esterni al paese. Per questo ha preso in considerazione solo l’uso della forza: nei primi due anni ha assoldato compagnie di mercenari, come la russa Wagner, che si è ritirata dall’area dopo aver perso dieci uomini in un’operazione, e la sudafricana Dyck advisory group, che in un rapporto di Amnesty international è stata accusata di aver colpito indiscriminatamente i civili nelle sue operazioni contro Al Shabab. Dopo l’occupazione di Palma, Maputo ha cambiato strategia: ha lasciato perdere i mercenari e ha richiesto l’intervento di eserciti stranieri. Sono stati coinvolti i ruandesi, i militari della Sadc e anche l’Unione europea, che ha mandato 140 istruttori in Mozambico, lontano dal Cabo Delgado, per addestrare le forze locali.
Ma quanto c’è di vero nelle affermazioni del governo di Maputo, che lega il conflitto al jihadismo internazionale? “Al Shabab riceve addestramento, supporto logistico e probabilmente anche fondi dall’estero”, afferma João Feijó. “Ma l’adesione all’islamismo internazionale è arrivata dopo l’inizio della guerra. Il conflitto ha radici nella rabbia giovanile e nella totale assenza dello stato, che non garantisce i diritti basilari, ma riserva i lavori e le opportunità migliori alle persone che vengono dal sud del paese, spesso togliendo terre e risorse alle comunità locali”. L’esclusione riflette le divisioni etniche che da tempo creano tensioni nel Cabo Delgado: i beneficiari delle ricchezze sono soprattutto cristiani di etnia makonde – la stessa del presidente della repubblica Filipe Nyusi, originario della provincia – mentre le popolazioni musulmane di etnia mwani e makua restano tagliate fuori. “La demarcazione non è netta”, puntualizza Feijó. “Sono soprattutto gli alti dirigenti del Frelimo a essersi accaparrati le risorse. Non è un caso se una minoranza degli Al Shabab appartiene all’etnia makonde”.
I nuovi colonialisti
“Io penso che la definizione più appropriata per il conflitto sia quella di guerra civile”, gli fa eco Joseph Hanlon, professore di politiche dello sviluppo alla Open university britannica ed esperto di Mozambico. “Quella nel Cabo Delgado è una rivolta contro il governo e in particolare contro gli oligarchi del partito al potere, che si stanno spartendo le ricchezze della provincia. Per ironia della sorte il Frelimo, che ha guidato la guerra d’indipendenza contro il Portogallo, oggi si è trasformato in una potenza coloniale. I liberatori di ieri sono i nuovi potenti da abbattere”. Secondo Hanlon, l’origine del conflitto risale a quasi quindici anni fa, quando nel distretto di Montepuez, nel sud della provincia, fu scoperto uno dei più grandi giacimenti di rubini del mondo. “All’inizio il sito era sfruttato da minatori artigianali. Poi si decise di darlo in concessione alla multinazionale britannica Gemfields, che collaborava con alcuni esponenti di primo piano del Frelimo. I minatori che ci lavoravano furono allontanati con la forza. Non a caso, tra gli Al Shabab ci sono alcuni ex minatori di Montepuez”.
Subito dopo i rubini, sono venuti il gas e lo scandalo dei tuna bonds. È aumentato il risentimento verso leader che si arricchivano in maniera oscena, senza dare nulla alle popolazioni locali. “Nel Cabo Delgado e in tutto il nord del paese, lo stato centrale è detestato in tutte le sue manifestazioni, dai politici corrotti ai militari, guardati con terrore perché spesso commettono abusi e violenze”, aggiunge Hanlon. Un rapporto di Amnesty international del 2021 descrive nel dettaglio le esecuzioni extragiudiziali e le violazioni dei diritti umani compiute dalle forze governative.
Schiacciati tra i ribelli, che conducono operazioni lampo in cui bruciano villaggi e uccidono indiscriminatamente, e le forze armate mozambicane, note anche loro per i metodi brutali, ci sono migliaia di sfollati, che assistono a una guerra di cui intuiscono a malapena le motivazioni.
Il grande paradosso è che l’estrazione del gas danneggerà le popolazioni locali
“Perché il conflitto è qui, e non nel centro o nel sud del paese? Forse perché ci sono le risorse naturali come il gas?”. Seduto all’ombra della sua nuova abitazione nel campo di Marocane, Abel Valente fa domande che suonano come affermazioni. “Qui nessuno dice nulla. Sappiamo solo che abbiamo dovuto lasciare le nostre case perché sono arrivati gli insorti e le hanno bruciate. E ora siamo qui, senza prospettive”. Quattro anni fa Valente, 32 anni, è fuggito dal suo villaggio nel distretto di Macomia. Quando ha visto che i ribelli si stavano avvicinando, è andato a Pemba, dove vive la madre. Poi è stato trasferito dal governo in questo nuovo campo, fatto di case in muratura in una distesa assolata. Sono più nuove e più grandi di quelle di altri campi, ma sono isolate. Le 955 famiglie di sfollati che ci vivono tirano avanti con gli aiuti dello stato: ogni due mesi un nucleo familiare riceve cinquanta chili di riso, dieci chili di fagioli e cinque litri di olio. Valente dice di farcela: ha un figlio, ma vive a Nampula con la sua compagna, in “una zona sicura”. “Ma qui ci sono famiglie che fanno fatica. Viviamo isolati”.
L’arrivo degli sfollati ha creato immancabilmente tensioni. Se nel villaggio di Marupa l’interazione tra i residenti e i deslocados è buona, la situazione a Marocane è molto diversa. Il campo è stato costruito in una zona dove c’erano i terreni della comunità. Nel vicino villaggio di Nanjua il fastidio per gli sfollati è palpabile e si somma alla paura di nuovi attacchi. L’insicurezza ha spinto alcuni ragazzi ad aderire alla milizia dei namparama, i cui aderenti, dopo essersi sottoposti a un rituale, pensano di essere invulnerabili alle armi da fuoco. A Nanjua, le reclute della milizia sono una ventina e stanno guadagnando terreno e autorità, facendosi carico di compiti che spetterebbero alla polizia. Hanno imposto un coprifuoco alle dieci di sera, sono chiamati a risolvere le controversie e all’ingresso del villaggio hanno preso in gestione un piccolo locale in cui c’è anche un carcere.
Carlos Dos Santos, 29 anni, che fa parte del comitato di gestione della comunità, dice di avere fiducia in loro. “Abbiamo bisogno di sicurezza”, spiega, indicando con un cenno il quartier generale della milizia. Il governo sembra tollerarla, forse con l’intenzione di servirsene per contrastare gli attacchi di Al Shabab, senza preoccuparsi delle conseguenze che potrà avere, in un contesto già fortemente compromesso, la formazione di una nuova milizia.
Da queste parti il sospetto nei confronti del potere centrale, percepito come assente, è unanime. “Molti sono convinti che si cerchi di cacciare le persone dalle terre per estrarre le risorse: oro, rubini e gas. E che questa sia la vera ragione del conflitto”, dice Dos Santos. “Questo spiega perché ogni volta che abbiamo provato a sfruttare noi le ricchezze siamo stati mandati via”, aggiunge riferendosi ai rubini di Montepuez.
Oggi le miniere di rubini, insieme a quelle di grafite e alle infrastrutture legate al gas nella penisola di Afungi sono protette dai soldati di Kigali. “I ruandesi mettono in sicurezza le aree in cui devono operare le multinazionali e non si curano delle aree economicamente meno rilevanti”, sottolinea Armando John. “Il governo conferma di voler favorire l’industria estrattiva in modo selvaggio, senza la minima trasparenza”.
Le truppe ruandesi, nel paese da quasi due anni, sembrano perseguire principalmente questo obiettivo. Le loro aree d’intervento si sovrappongono a quelle dove sono concentrate le risorse minerarie. La loro missione è circondata da un alone di mistero: a differenza del contingente della missione della Sadc, il cui mandato è pubblico, l’accordo tra il Ruanda e il Mozambico non è stato divulgato, né sono chiari i poteri e i limiti che i soldati di Kigali devono rispettare. È poco chiaro anche chi finanzia l’operazione: fin dall’inizio il governo ruandese ha sostenuto che il dispiegamento dei soldati era fatto a sue spese. Ma alcuni segnali indicano una sorta di scambio: secondo un’inchiesta pubblicata dal magazine panafricano Jeune Afrique, alcune aziende ruandesi hanno ottenuto vantaggiosi contratti nel settore minerario e nella sicurezza.
Inoltre, nel maggio 2021, durante una visita in Ruanda, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato un aumento dei fondi per la cooperazione stanziati da Parigi per il paese africano dell’ordine di 370 milioni di euro. Nel dicembre 2022 l’Unione europea ha messo sul piatto venti milioni di euro per finanziare in parte la missione ruandese. In una nota inviata dal Servizio europeo per l’azione esterna alle sue delegazioni – ottenuta dall’organizzazione di ricerca non profit Aria, che ha fatto richiesta di accedere a documenti d’interesse pubblico attraverso la procedura prevista dal Freedom of information act – i fondi sono giustificati in questo modo: “Contenendo l’espansione dell’insurrezione, creando stabilità e generando le condizioni per lo sviluppo socioeconomico, contribuiranno anche a proteggere gli interessi politici, di sicurezza ed economici dell’Unione europea”.
Assente da tutte le comunicazioni ufficiali dell’Unione europea sul Mozambico, la formula “interessi economici” può essere letta come un riferimento alla partecipazione di aziende europee nei progetti di sviluppo del gas naturale in Mozambico. “In un certo senso, possiamo dire che i ruandesi funzionano da esercito per procura, anche in difesa degli interessi privati delle multinazionali che operano nel settore del gas, soprattutto la Total”, conferma una fonte diplomatica del ministero degli esteri italiano.
Secondo Hanlon gli interessi delle aziende straniere hanno promosso un racconto, a suo avviso, fuorviante della guerra: “Presentando il conflitto come un’aggressione jihadista, è possibile giustificare un intervento esterno. Nessuno darebbe il via libera a una forza internazionale per sparare sui contadini mozambicani”.
Al di là dei soldi dei contribuenti usati per finanziare una missione di peacekeeping che avrebbe tra i suoi obiettivi non dichiarati quello di proteggere gli interessi delle multinazionali del gas, le aziende attive nel Cabo Delgado cercano di ovviare all’assenza dello stato versando soldi agli apparati di sicurezza e dando lavoro alle comunità. “Può sembrare un paradosso ma la Total in questo momento è un fattore di stabilità nel Cabo Delgado, perché sta creando occupazione, facilitando il commercio e stimolando un indotto. Di fatto sta svolgendo le funzioni dello stato, prendendo il suo posto e trasformando l’area in cui opera in una specie di Total-landia”, osserva ancora Feijó. “Non lo fa per ragioni umanitarie, ma perché vuole trarne benefici economici. E il problema è proprio questo: le multinazionali non devono sostituirsi allo stato, ma essere sottoposte a un’imposizione fiscale che consenta allo stato di finanziare i servizi di base”.
Anche se non ha ancora fornito una data per la possibile ripresa delle operazioni, l’amministratore delegato della Total, Patrick Pouyanné, ha lasciato intendere che i lavori del Mozambique Lng ripartiranno a breve, come ha confermato il 27 aprile in una riunione con gli azionisti.
“Probabilmente accadrà che la Total creerà una zona di sicurezza in cui potrà agire liberamente, protetta dai militari ruandesi e creando posti di lavoro e benefici economici anche per una parte della popolazione locale”, sottolinea Hanlon. “Una sorta di green zone sul modello di quella realizzata a Baghdad o a Kabul, ma più grande”. Il modello di cui parla lo studioso è basato su una sorta di bunkerizzazione delle aree dove si trovano le risorse, lasciando il resto del territorio in mano a milizie e signori della guerra.
Se questa strategia funziona, potrà essere replicata nell’altro grande investimento sulla terraferma, il Rovuma Lng, guidato dalla ExxonMobil e dall’Eni. Il progetto è fermo, anche se l’azienda statunitense ha lanciato a marzo una manifestazione d’interesse per la costruzione delle infrastrutture che lascia intendere un cambio di strategia. Invece di costruire, come inizialmente previsto, un enorme impianto capace di estrarre e liquefare 15,2 milioni di tonnellate di gas all’anno, la ExxonMobil sembra intenzionata a realizzare unità più piccole, per raggiungere una produzione complessiva di diciotto milioni di tonnellate di gas. Dal canto suo l’Eni negli ultimi tempi ha ventilato la possibilità di costruire una seconda piattaforma galleggiante simile alla Coral South, per essere al riparo da eventuali attacchi. Non è chiaro se si tratta di una modifica del piano iniziale di Rovuma Lng o di un progetto che amplierebbe lo stesso Coral South. Un portavoce dell’azienda risponde che “l’Eni, insieme alle istituzioni mozambicane e i partner, sta valutando tutte le possibili soluzioni per la valorizzazione delle ingenti risorse di gas del Mozambico. Tali soluzioni includono sia sviluppi onshore che una replica del progetto offshore Coral South Flng. In tal caso si tratterà di una nuova installazione galleggiante del tutto simile a quella esistente”. L’Eni conferma quindi di essere interessata ad aumentare il suo coinvolgimento nel paese.
Le incognite del piano italiano
Il Mozambico è spesso indicato come uno dei pilastri del cosiddetto piano Mattei annunciato dal governo di Giorgia Meloni, che vorrebbe trasformare l’Italia in un centro nevralgico per la rigassificazione del gnl (il procedimento per riportare il gas liquefatto allo stato gassoso) proveniente dai nuovi fornitori, soprattutto africani. Ma le cifre sembrano indicare una realtà diversa. L’Eni è responsabile dell’estrazione e della liquefazione del gas. Le operazioni downstream, cioè la vendita sul mercato, sono affidate alla British petroleum (Bp) con un contratto ventennale. E non sono dirette prioritariamente all’Italia, almeno per ora. Secondo i dati forniti dal servizio Bloomberg Terminal, dal novembre 2022 alla fine di marzo, sono arrivate in Italia 148.350 tonnellate di gas dal Mozambico sulle 740.425 estratte in totale dall’impianto Coral South, cioè il 20 per cento. Il resto è andato in Spagna, Croazia, Turchia, Corea del Sud. Gli investimenti dell’Eni nel Coral South, così come quelli relativi al progetto guidato dalla Total nella penisola di Afungi, di cui la Saipem cura la parte infrastrutturale, sono stati sostenuti da prestiti bancari che hanno avuto tra gli altri la garanzia della Sace, una società per azioni controllata dal ministero dell’economia e delle finanze, rispettivamente per 700 milioni e per 950 milioni di dollari.
“Abbiamo chiesto le valutazioni di impatto ambientale e sociale di questi investimenti a garanzia, che sono finanziati con soldi pubblici”, osserva Simone Ogno, ricercatore dell’associazione per la giustizia ambientale ReCommon. “Ma non ci sono ancora stati forniti, anche se il tribunale amministrativo del Lazio ci ha dato ragione”. Secondo le informazioni in mano all’organizzazione, l’Eni e la ExxonMobil avrebbero intenzione di raccogliere i fondi per il progetto Rovuma Lng entro il 2023, attraverso prestiti bancari e garanzie sui prestiti fornite dalle agenzie di credito all’esportazione, necessari per costruire l’opera. “Si delinea un quadro in cui la finanza privata e pubblica italiana sono pronte a supportare l’ennesimo progetto fossile che causerà conseguenze ambientali, economiche e sociali irreversibili”, sottolinea Ogno.
Ricapitolando: si stanno finanziando con fondi pubblici progetti di estrazione del gas definiti cruciali per la sicurezza energetica italiana, ma che alla fine dei conti non vanno a beneficio del sistema energetico nazionale.
L’altro grande paradosso è che l’estrazione di questa risorsa non solo ha fatto esplodere le tensioni presenti nel Cabo Delgado, ma finirà per danneggiare le popolazioni locali. Secondo l’ong Friends of the Earth, questi piani per lo sfruttamento del gas produrranno emissioni di gas serra pari a quelle che il Mozambico di oggi produrrebbe in 49 anni.
Anche sotto questo aspetto i mozambicani finiscono per essere vittime collaterali. Tutti loro fanno fronte agli effetti sempre più devastanti della crisi climatica, a cui il paese è particolarmente esposto. Negli ultimi anni ci sono state tempeste tropicali estremamente violente. Nel 2019 i cicloni Idai e Kenneth hanno ucciso più di 1.500 persone e causato danni per più di tre miliardi di dollari. Tra febbraio e marzo del 2023, il ciclone Freddy è rimbalzato per più di cinque settimane da una parte all’altra del canale del Mozambico, provocando più di 1.200 morti tra Malawi, Mozambico e Madagascar.
Nella periferia di Pemba, gli effetti di Kenneth sono ancora evidenti. In quei giorni dell’aprile 2019, tutta la regione è stata sferzata da raffiche di vento a duecento chilometri orari accompagnate da piogge intensissime. Costruito su una collina che declina verso il mare, il quartiere di Metula è in parte collassato su se stesso: sotto l’impeto dell’acqua che scorreva a fiumi, si è aperta una voragine che ha inghiottito le case. “Per fortuna non è morto nessuno”, dice Isac Abudo, 50 anni, vicepresidente del comitato di gestione del rischio. “Ma di piogge così non ne avevo mai viste in vita mia”.
Quattro anni dopo il buraco (“buco”, in portoghese) segna ancora il quartiere come una cicatrice. Sul ciglio della voragine c’è la scuola elementare Samora Machel, intitolata al padre dell’indipendenza e primo presidente del Mozambico. Una parte del muro di cinta è già finita nella voragine e altri pezzi sembrano reggersi per miracolo, pronti a staccarsi al primo soffio di vento. I bagni, a una decina di metri dal muro, sono stati dichiarati inagibili.
In questo edificio, come in tutte le scuole di Pemba, studiano molti bambini deslocados, provenienti dalle aree rese insicure delle incursioni di Al Shabab. Cacciati dalle loro terre, vedono la scuola che li ospita inabissarsi lentamente. Ai traumi delle violenze viste e subite sommano la paura di finire risucchiati dalla terra, in un gioco a somma zero di cui faticano a capire le regole e di cui non possono essere che spettatori inconsapevoli. ◆
Stefano Liberti è un giornalista italiano. Il suo ultimo libro è Terra bruciata (Rizzoli 2020). Francesco Bellina è un fotografo italiano che collabora con vari giornali e riviste internazionali.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1511 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati