“L’anno scorso un leopardo delle nevi è entrato nel recinto del bestiame e ha ucciso quaranta pecore in una sola notte. È stato un brutto danno per noi”. Dal cielo scende una neve leggera, ma Rigzin Chosdup, che è seduto all’aperto sotto un’incerata, sembra troppo impegnato nel suo lavoro per accorgersi del freddo. È l’ultimo ramaio tradizionale della valle e sta realizzando dei recipienti decorativi per una famiglia della zona.
Siamo nel villaggio di Rumbak, in Ladakh, una regione transhimalayana dell’India. Mentre Rigzin parla, le sue mani ruvide e rugose continuano a modellare, battere e tagliare il metallo per trasformarlo in arte. “Il mio villaggio è lontano e isolato, i turisti non ci arrivano, non è come qui. Quindi non guadagniamo nulla da quei felini. Per il mio allevamento sarebbe meglio che di leopardi delle nevi non ce ne fossero proprio”. Rigzin sospira e scuote la testa prima di continuare. “Ma ormai tutti sanno che, dal punto di vista ambientale, se ce ne sono è meglio”.
Il mio primo incontro con l’inafferrabile leopardo delle nevi risale a quindici anni fa. Superato da un bel pezzo l’ultimo villaggio della valle del Langtang, il nostro gruppetto aveva piantato le tende nell’alto versante innevato della valle. Era una notte fredda e silenziosa e, a parte noi, non c’erano altri segni di vita in quella valle d’alta quota tutta rocce, ghiaccio e neve. Eppure la mattina dopo, al nostro risveglio, scoprimmo che non eravamo stati completamente soli. Nella neve, tutt’intorno alle tende, c’erano le inconfondibili impronte di un leopardo delle nevi. A non più di tre metri di distanza aveva fatto due giri completi intorno al nostro piccolo accampamento per poi arrampicarsi con disinvoltura ancora più in alto. Sbigottiti dalla scoperta, ci mettemmo a seguirne le tracce, ma naturalmente il fantasma delle montagne si era già dileguato.
Anche se erano solo impronte, bastarono ad accendere in me una curiosità che non si è mai più spenta. Negli anni trascorsi da quando quell’ombra notturna attraversò i miei sogni, sono tornato molte volte sugli altipiani dell’Asia – dai canyon desertici dell’alto Mustang ai laghi ghiacciati dei monti Altaj in Russia fino al vasto altopiano del Tibet – alla sua ricerca. E più tempo passavo sull’Himalaya e sulle montagne dell’Asia centrale più mi rendevo conto di quanto poco sappiamo in realtà di questo iconico gattone. I leopardi delle nevi vivono su una sterminata distesa di territorio montuoso. Il loro habitat si estende dall’Hindu Kush afgano a ovest attraverso il Pamir, il Tian Shan e il Karakorum in Asia centrale, per l’intera catena dell’Himalaya e gran parte dell’altopiano tibetano fino a raggiungere la Mongolia e le montagne che si affacciano sulle sponde occidentali del lago Bajkal in Siberia. Ma quanti esemplari ci siano nel mondo rimane un mistero.
Grazie alla capacità di mimetizzarsi con il paesaggio e anche alle asperità del terreno su cui si muovono, sono state fatte solo vaghe ipotesi sul loro numero: il Programma globale per la protezione del leopardo delle nevi e del suo ecosistema stima che sulle montagne dell’Asia ci siano tra i quattromila e i 6.500 esemplari. Ma gli esperti ammettono che il calcolo si basa in parte su dati di trent’anni fa e che andrebbero aggiornati. Da qualche tempo l’India sta tentando seriamente di contare quanti leopardi vivono all’interno delle sue frontiere. All’inizio di febbraio, il Wildlife Institute of India ha annunciato che, secondo i suoi calcoli, ce ne sono 718, pari a circa il 10-15 per cento del totale mondiale (che quindi sarebbe in tutto di settemila-diecimila esemplari).
Sparito ogni timore di ipotermia, ho guardato nel cannocchiale ed ecco, a poche centinaia di metri, una femmina di leopardo
Vicino alla preda
Queste cifre si basano sullo studio di più di due milioni di immagini di fototrappole e sulle testimonianze di pastori, personale militare, portatori, guide turistiche e residenti. Circa duemila fototrappole sono state installate nel 70 per cento del territorio indiano in cui vive il leopardo delle nevi, dov’erano stati individuati segnali della sua presenza come tracce di graffi, deiezioni e schizzi di urina. Usando queste tecniche, i ricercatori sono anche riusciti a concludere che il Ladakh ha la più alta densità di leopardi di tutta l’India e forse del mondo. Così un paio di settimane dopo la pubblicazione dello studio mi sono ritrovato tra le vette del Ladakh a sei-settemila metri di altezza.
I mesi invernali nella regione sono tutt’altro che facili. Nelle zone montane dove vivono i leopardi, le temperature massime di giorno spesso scendono a 20 sotto zero o anche meno. Ma l’inverno è l’unico periodo dell’anno in cui si può realisticamente avere l’opportunità di avvistare un esemplare. Il motivo, secondo Lobzang Visuddha – uno dei fondatori del Wildlife Conservation and birds club del Ladakh, e titolare di Ancient Tracks, un’agenzia specializzata in viaggi naturalistici – è che “d’inverno le pecore azzurre di cui si nutrono i leopardi scendono più a valle e si avvicinano ai villaggi. I felini le seguono e per noi diventa più facile individuarli. Oggi in molti villaggi i residenti stanno di vedetta e poi ci indicano dove andare”.
Prima di dirigermi in montagna per tentare ancora una volta di vederne uno, ho trascorso qualche giorno nella principale città del Ladakh, Leh, per abituarmi alla carenza di ossigeno. Sapevo già che le cifre sulla popolazione mondiale di questi felini sono molto approssimative, ma volevo almeno scoprire qualcosa di più sulla loro conservazione nel paese che potrebbe esserne la roccaforte. Così sono andato a parlare con Rigzin Yangdol, che dirige un progetto dello Snow leopard conservancy India trust. Mi ha spiegato che la principale minaccia per la sopravvivenza dei leopardi è il bracconaggio, oggi raro in India ma ancora presente in altri paesi. Nella medicina tradizionale cinese e mongola, si pensa che la pelle di un leopardo delle nevi contribuisca a curare i reumatismi, e si calcola che in Cina (soprattutto in Tibet) ogni anno ne vengano uccisi fra i 103 e i 236, proprio per la loro pelle. Poi ci sono le uccisioni per ritorsione dovute all’ostilità degli esseri umani per gli animali selvatici, la caccia eccessiva di specie predatorie e potenzialmente il cambiamento climatico, anche se ancora non sappiamo esattamente quale sarà il suo impatto sui leopardi delle nevi.
Rigzin mi racconta che in India la minaccia più grave viene dal rapporto conflittuale tra esseri umani e animali selvatici. Uno degli obiettivi centrali della Snow leopard conservancy, dice, è attenuare questo conflitto, informare la popolazione rurale e fare in modo che gli abitanti dei villaggi vedano nella presenza dei leopardi un vantaggio economico. Nel Ladakh, come in gran parte dell’Himalaya e del Tibet, si pratica il buddismo tibetano e questo, mi spiega Rigzin, è al tempo stesso una benedizione e una maledizione per i leopardi. Una benedizione perché i buddisti tibetani credono nella sacralità di ogni forma di vita e cercano di non far del male a nessun essere vivente: possono dare la caccia ai leopardi per allontanarli, ma sono contrari a ucciderli e la Snow leopard conservancy punta proprio su questo. “Gli abitanti dei villaggi che vivono nelle zone più remote non sempre ci ascoltano quando diciamo che non bisogna far del male ai leopardi, perché noi siamo gente di città e abbiamo una vita diversa”, dice Rigzin. “Però qui la religione è importante e i monaci sono molto ascoltati. Per questo abbiamo deciso di andare nei monasteri e spiegare ai monaci il ruolo centrale dei leopardi per l’ambiente, in modo che poi siano loro a convincere la gente”.
Tuttavia questo rispetto per ogni forma di vita comporta un problema, sottolinea Ringzin: “Se qualcuno vede un leopardo che attacca una pecora azzurra o un altro animale – o anche la carcassa di un animale – cerca di impedirlo mandandolo via. Questo significa che i leopardi consumano molta energia per cacciare ma poi non riescono a nutrirsi. Noi cerchiamo di spiegare che se permettono al leopardo di raggiungere la sua preda l’animale rimarrà per qualche giorno intorno alla carcassa per mangiarla, e così i turisti arrivati per vedere i leopardi delle nevi rimarranno più a lungo nel villaggio e spenderanno di più”.
E questo ci porta al punto successivo. I soldi. Le buone intenzioni sono una cosa, ma è il denaro che fa girare il mondo, anche negli sperduti villaggi di montagna dell’Himalaya. “All’inizio del progetto”, racconta Rigzin, “abbiamo scoperto che molta gente nelle aree rurali era ostile ai leopardi delle nevi perché uccidono il bestiame. E se si perde il bestiame il reddito ne risente gravemente. Perciò il nostro primo compito è stato ridurre queste perdite. Quasi tutti gli attacchi avvengono di notte, quando gli animali sono nei ripari, ma si tratta di strutture molto semplici e senza tetto, perciò abbiamo messo a punto un progetto per fornire sia le competenze sia il materiale necessario per costruirne di nuovi a prova di leopardo. Il numero di attacchi al bestiame è subito diminuito, e l’atteggiamento nei confronti dei felini è migliorato”.
A cambiare davvero le cose, però, sono state la creazione di un programma di alloggio in famiglia nei villaggi e la nascita di un turismo legato ai leopardi, continua Ringzin. “L’alloggio in famiglia è stato una nostra idea per garantire una forma di reddito ai villaggi più isolati, con poche alternative per guadagnare qualcosa. All’inizio significava solo ospitare gli escursionisti di passaggio ma poi, quando il nostro personale addetto alle rilevazioni, le guide e gli accompagnatori hanno cominciato a raccontare di aver visto dei leopardi nelle valli d’inverno, ha preso piede l’idea del leopard watching”. E ha avuto un successo enorme. Fino a poco tempo fa, il Ladakh era considerato una destinazione esclusivamente estiva, ma ora, grazie alla maggiore notorietà del turismo legato al leopardo delle nevi, il periodo tra dicembre e marzo sta diventando più popolare sia tra gli indiani sia tra gli stranieri. Con i visitatori che alloggiano in famiglia, mangiano nei villaggi e comprano souvenir artigianali, c’è un nuovo flusso di denaro in un periodo dell’anno in cui tradizionalmente non ci sono altri modi di fare soldi.
In cerca di un indizio
Qualche giorno dopo la mia conversazione con Rigzin, mi sono ritrovato nel villaggio di Rumbak. Girava voce che una femmina di leopardo avesse ammazzato una pecora azzurra nelle vicinanze e probabilmente sarebbe rimasta vicino alla carcassa per qualche giorno. Con la mia guida, Tsering Namgyal, all’alba abbiamo cominciato a scrutare le pareti di roccia alla ricerca di un indizio, ma non abbiamo avuto fortuna. Alla fine, quando il freddo mi stava divorando, ho proposto di tornare dalla famiglia che ci ospitava per scaldarci. “Altri due minuti”, ha detto Tsering. “So che è qui. Ci sta osservando. Lo so e basta”
Battendo i piedi per resistere al freddo, ho accettato di aspettare qualche altro minuto. Tsering ha cominciato a muovere il cannocchiale su e giù lungo i pendii della montagna per l’ennesima volta, poi improvvisamente si è fermato trattenendo il respiro. “È qui”, ha bisbigliato indicando la parete rocciosa. Sparito ogni timore di ipotermia, ho guardato nel cannocchiale ed ecco, a poche centinaia di metri, una femmina di leopardo dalla pelliccia color avorio che mi puntava gli occhi addosso. Mentre la osservavo incantato, qualcosa si è mosso dietro di lei e due minuscoli batuffoli di pelliccia hanno sporto la testa. Il fantasma delle montagne aveva dei cuccioli. ◆ gc
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Questo articolo è uscito sul numero 1569 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati