Ogni volta che, disegnando nel cielo una curva elegante, l’aereo decolla dall’aeroporto di Beirut e si allontana dalla costa libanese, mi chiedo come troverò questo paese quando tornerò a visitarlo. Mi sembra di salutare una parente ammalata, le cui condizioni potrebbero precipitare da un momento all’altro. In quei momenti penso che forse sarebbe meglio rimanere al suo capezzale.
La prima volta che sono stata in Libano, il paese di mia madre, era il 1997. Avevo tre anni. Di quel viaggio conservo solo ricordi indistinti: le gigantesche piscine degli stabilimenti balneari e un millepiedi da qualche parte in montagna. Nel 2004, a dieci anni, ho vissuto invece un’esperienza più consapevole. Abbiamo passato le vacanze estive a casa di mio zio Michel, il fratello di mia madre, e di sua moglie Raya. Andavamo a trovare il nonno, che noi nipoti chiamavamo Pepe. Prozie e cugine lontane davano affettuosi buffetti sulle guance a me e a mia sorella. A Baalbek abbiamo visitato i templi romani, nella valle della Beqaa abbiamo toccato la neve, abbiamo piantato le tende tra i cedri e dormito sotto le stelle. A Batroun abbiamo esplorato una grotta nel mare color inchiostro, a Zahle abbiamo bevuto succo di carota dolce in un caffè pieno di uomini che fumavano il narghilè e di pile di scatole di backgammon appoggiate alle pareti.
Sull’aereo che ci riportava in Germania a un tratto sulle guance di mia madre erano spuntate le lacrime. Sotto di noi Beirut si faceva sempre più piccola, mentre le montagne che si levavano dolcemente dal mare scomparivano alla nostra vista. Per me fu un momento sconvolgente: era la prima volta che vedevo mia madre piangere e la sua improvvisa tristezza mi colse impreparata. Non avevamo forse appena passato una bellissima vacanza nel suo paese?
Quando aveva dovuto lasciare il Libano, mia madre aveva tredici anni. All’inizio degli anni settanta del novecento nel paese erano cominciati gli scontri tra l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, che aveva il suo quartier generale a Beirut, e gli israeliani. Il conflitto aveva diviso la popolazione libanese e quando scoppiò la guerra civile, nel 1975, i genitori di mia madre con i due figli più piccoli cercarono rifugio in Renania, dalla famiglia della mia nonna tedesca. Mia madre, la figlia maggiore, fu l’unica ad andare in Francia, dallo zio paterno, probabilmente per non pesare troppo sui parenti tedeschi.
La famiglia tornò in Libano nel 1977, un’epoca che mia madre non associa alle bombe ma piuttosto ai Bee Gees, colonna sonora della sua breve giovinezza a Beirut. Il cessate il fuoco non durò molto. Un anno dopo la mandarono via di nuovo, questa volta a Bad Honnef, in Germania, da una zia con cui rimase finché non finì la scuola. Poi andò a fare un corso di formazione ad Amburgo e lì incontrò mio padre, un tedesco. Non è mai più tornata a vivere in Libano.
Ad Amburgo, però, dove all’inizio degli anni novanta siamo nate io e mia sorella, il ricordo del Libano è rimasto sempre vivo. Con noi mia madre parlava francese, sull’uscio di casa aveva appeso un amuleto blu che rappresenta l’occhio di Allah per proteggerci dalla sfortuna e quando non riuscivo a dormire per tranquillizzarmi mi preparava un bicchiere d’acqua calda con qualche goccia di mazaher, l’acqua di fiori d’arancio. Mi ha insegnato che quando la macchina davanti va troppo lenta bisogna gridare “Yalla!” e che albicocca in arabo si dice mishmush. Cucinava piatti tradizionali come kibbeh e loubya bi zayt, e sul viale Steindamm di Amburgo chiacchierava in arabo con i verdurai libanesi. Adoravo guardare con lei vecchi album di fotografie: lei neonata in braccio al padre, un uomo forte dallo sguardo fiero, con il suo stesso naso aquilino e gli stessi occhi scuri e profondi. Oppure lei bambina sulla spiaggia di Beirut con la madre bionda.
Percorrevo le strade di una città che in verità mi era sconosciuta e riconoscevo ogni cosa, come chi torna a casa dopo una lunga assenza
I bei tempi
La storia della mia famiglia si svolge tra il Libano e la Germania. Mia nonna, tedesca, conobbe mio nonno, libanese, negli anni cinquanta, nell’albergo svizzero dove lavoravano entrambi. Nel 1960 si sposarono e si trasferirono a Beirut, dove lui diventò manager di un grande albergo. Allora il Libano, con la sua costa mediterranea rivolta a ovest, piena di palme e gelsomini, era una meta turistica ambita e Beirut un ritrovo del jet-set. La chiamavano la Parigi del Medio Oriente o anche la Svizzera d’Oriente, perché molte banche avevano una sede lì.
Nonostante i conflitti latenti tra cristiani e musulmani, negli anni sessanta – dopo quattrocento anni di dominazione ottomana e quasi venticinque di mandato francese – il Libano visse un breve periodo di fioritura economica e culturale.
Mia nonna rimase subito affascinata da Beirut. Veniva da una famiglia di parrucchieri della provincia renana, ma suo padre amava molto viaggiare e sembra proprio che le avesse trasmesso la sua curiosità. Entrò a far parte della comunità protestante di Beirut e diventò presidente dell’associazione delle donne tedesche. Nella vita di tutti i giorni, avrebbe ricordato poi, nessuno faceva distinzioni tra cristiani e musulmani. “Tornando in Germania al confronto tutto mi sembrava così piccoloborghese”, mi ha raccontato una volta. “A Beirut avevamo ospiti tutti i giorni. In Germania questa cosa non si usava, non capitava che i vicini venissero a suonare il campanello senza annunciarsi o t’invitassero a casa loro all’ultimo momento. Per me questo tipo di ospitalità era una novità”. Con i figli parlava francese e imparò anche l’arabo. A parte una breve permanenza in Germania all’inizio della guerra civile, rimase sempre a Beirut, tornando in Germania solo nel 1988, poco prima della fine della guerra e del divorzio dal nonno. Ricordo che spesso definiva il periodo passato in Libano come gli anni migliori della sua vita.
Più crescevo, più provavo anche io questo sentimento d’amore per il Libano, in effetti piuttosto sorprendente, visto che il paese si era lasciato alle spalle ormai da parecchio i bei tempi andati, per diventare caotico, pieno di blindati dell’esercito, con continue interruzioni dell’elettricità e il mare di Beirut troppo pieno di rifiuti per poterci fare il bagno. A ogni viaggio mi veniva la diarrea a causa dell’acqua del rubinetto inquinata. Una volta, a Tripoli, una bomba è scoppiata davanti a una moschea dov’ero passata il giorno prima.
Eppure, andando in Libano, avevo la sensazione di tornare a casa, di essere nel posto giusto. Lì ho provato personalmente quello che mia madre e mia nonna avevano vissuto prima di me e che mi avevano raccontato in Germania: il francese strascicato e punteggiato di termini arabi parlato dai libanesi; le buste di plastica con il pane pita poggiate sul tavolo da pranzo; Fairuz e le sue canzoni nostalgiche; l’aperitivo con carote al limone; il sapone di Aleppo; l’acqua di rose; il backgammon; kibbeh, mishmush, amuleti blu sull’uscio delle case. Quando dalla spiaggia vedevo passare i motoscafi, immaginavo mia madre, adolescente innamorata, prendere il largo sulla barca del fidanzato, una storia che a mia nonna piaceva sempre ricordare. Percorrevo le strade di una città che in verità mi era sconosciuta e riconoscevo ogni cosa, come chi torna a casa dei genitori dopo una lunga assenza. E alla fine del viaggio, salutando i parenti, mi veniva sempre un groppo in gola.
Oggi il paese è in condizioni pessime, simili a quelle in cui si trovava dopo sedici anni di guerra civile. La drammatica crisi economica in corso dalla metà del 2019 ha fatto precipitare nella povertà gran parte della popolazione, mentre cresce l’influenza di Hezbollah, la milizia sciita sostenuta dall’Iran e dalla Siria che ha costruito uno stato nello stato. Il 4 agosto 2020 un’esplosione nel porto di Beirut ha distrutto interi quartieri, uccidendo più di duecento persone e traumatizzandone molte altre. I responsabili non sono ancora stati assicurati alla giustizia. Con tutte queste brutte notizie, a volte ho la sensazione che il Libano stia lentamente sparendo.
Grande esodo
Cos’è che mi lega tanto a questo paese? A sparire non è mica casa mia: io sono nata e cresciuta in Germania. Sul mio passaporto compare la foto di una donna bionda dal naso dritto. Eppure, questa nostalgia mi accompagna sempre.
L’ultima volta che sono stata in Libano era l’ottobre 2021. Facendo le valigie, in un cassetto ho trovato settemila lire libanesi, avanzate da un viaggio del 2019. Allora ci si pagava una corsa in taxi; due anni dopo valgono appena trenta centesimi di euro e non bastano neanche per comprare una bottiglietta d’acqua. Nell’autunno del 2019, poco dopo la mia partenza, in Libano è cominciata la thawra, la cosiddetta rivoluzione: per settimane centinaia di migliaia di libanesi sono scesi in piazza per protestare contro l’aumento del costo della vita e per chiedere riforme politiche. Temendo che potesse scoppiare una guerra, molti libanesi hanno cercato di prelevare i loro risparmi e di conseguenza il governo ha bloccato i conti bancari dei piccoli risparmiatori, limitando i prelievi a somme minime. I motivi del crollo sono stati gli anni di malgoverno e la corruzione imperante e a rimetterci sono i cittadini. Possono accedere solo a una minima parte dei loro risparmi, mentre il prezzo dei generi alimentari è in continuo aumento.
La moneta ha ormai perso il 90 per cento del suo valore e molti libanesi possono a stento permettersi pane e benzina. Chi può vive dei risparmi o con l’aiuto di parenti all’estero. L’80 per cento della popolazione libanese vive al di sotto della soglia di povertà. Lo stato fornisce elettricità solo per due ore al giorno.
È cominciato un movimento migratorio come probabilmente non si vedeva dai tempi della guerra civile. Dal gennaio 2021 le autorità hanno rinnovato 32mila passaporti ogni mese, quasi il doppio rispetto all’anno precedente. Secondo le stime dell’Oganizzazione mondiale della sanità (Oms), ha lasciato il paese il 40 per cento dei medici libanesi. Molti di quelli che ne avevano la possibilità negli ultimi mesi hanno preso la strada di Dubai, Riyadh o Parigi. Quando sono partita da Beirut, il funzionario dell’aeroporto mi ha chiesto se volessimo scambiarci i documenti, il mio passaporto tedesco contro il suo libanese. Era una battuta, ma non rideva. Molti libanesi farebbero di tutto per uscire dal paese.
Ci hanno pensato anche mio zio Michel e sua moglie Raya. Michel lavora nella ristorazione, ma ora che i soldi non valgono praticamente più niente i suoi due ristoranti fatturano pochissimo. Lui e Raya restano comunque dei privilegiati: hanno una seconda casa in montagna, con un impianto a energia solare. Michel ha un appartamento a Berlino e, soprattutto, un passaporto tedesco. Qualche settimana dopo l’esplosione al porto di Beirut, Raya ha preparato un’email da mandare a un liceo francese di Berlino per chiedere se avessero posto per le sue due figlie. Mi ha raccontato che scrivendola piangeva. Alla fine non l’ha inviata: lei e Michel hanno deciso di non partire. Fanno parte di quel piccolo gruppo di libanesi che, pur avendo la possibilità di andarsene, rimane.
Nell’ottobre del 2021, salendo sull’aereo per Beirut, mi chiedo se quello che nonostante tutto li trattiene in Libano non sia forse anche uno dei motivi che mi spingono a volerci sempre tornare.
Senza filtri
Beirut è grande più o meno quanto una cittadina dell’entroterra tedesco ma, con i suoi 2,5 milioni di abitanti, ha l’atmosfera di una metropoli cosmopolita. La sera sui tetti piatti si sente il richiamo del muezzin e il suono del basso dai bar dove si suona il jazz. Sulle facciate delle vecchie ville ottomane si arrampicano le buganvillee rosa. Poi però ci sono i quartieri con le torri di vetro e i cartelloni lungo la superstrada con la pubblicità della depilazione permanente. Motorini con a bordo tutta la famiglia sfrecciano per la città, gli anziani troneggiano sulle loro sedie di plastica piazzate sul ciglio della strada discutendo di dio sa cosa e nelle piscine degli stabilimenti balneari donne con indosso occhiali da sole fanno le vasche con la testa fuori dall’acqua. Sul lungomare c’è chi fa jogging, nel quartiere di Achrafieh domestiche in uniforme a righe rosa portano a spasso i cani, gatti scheletrici attraversano gli androni con porte di vetro fumé.
A Beirut molte cose ricordano la vita delle generazioni precedenti. Vecchie lavanderie, pasticcerie e saloni di parrucchiere sono uguali a cinquant’anni fa: pareti rivestite in legno, poltrone di cuoio ingiallite, bignè al cioccolato nelle vetrine tirate a lucido. Nei condomini ci sono i portieri, alcune famiglie hanno perfino la cuoca. Nelle strade c’è odore di benzina, di polvere, di narghilè; è un odore insieme dolce e greve che sembra provenire dai gelsomini come dai cumuli di spazzatura che marciscono ai bordi delle strade. I balconi sono ornati da tende di plastica e i viali portano i nomi di quelli che per alcuni sono eroi e per altri nemici. In giro si vedono vecchi maggiolini Volkswagen degli anni sessanta, ovviamente senza cinture di sicurezza. Con i suoi muri imbiancati e le cabine dalle porte rosse, anche lo stabilimento balneare Sporting, dove un tempo andavano a prendere il sole i miei nonni, è ancora attivo.
Percorrendo la città, nuove immagini si aggiungono a quelle che già si conoscono. Scheletri di edifici con i vetri esplosi, saracinesche divelte, negozi devastati con all’interno mobili sepolti da una spessa coltre di polvere. Dopo l’esplosione del 4 agosto 2020, solo alcuni hanno avviato la ricostruzione degli edifici danneggiati: la maggior parte delle persone non ha abbastanza soldi. Lungo una strada animata di Mar Mikhael, il quartiere della movida, c’è una pompa di benzina abbandonata, accartocciata dall’onda d’urto come fosse di cartapesta.
Anche se in questi giorni la città ha qualcosa di opprimente, ne percepisco comunque la vitalità. “Beirut è piena di contraddizioni”, osserva Nada Debs, una mia conoscente. “Povertà e ricchezza, bellezza e brutture. Si vedono generosità e gentilezza, ma anche amarezza e rabbia. Tutto insieme. È come tutto un mondo racchiuso in un microcosmo. Beirut è senza filtri. Ma è proprio questo suo essere così cruda che la rende estremamente umana”. Debs è cresciuta in Giappone, in una cultura che è all’estremo opposto di quella libanese. “Il Giappone è silenzioso”, dice, “il Libano rumoroso”.
Seduta in un bar con Raya e Michel, mi cade l’occhio sui nomi dei cocktail: The government is the mafia (Il governo è la mafia) e They think we’re stupid (Pensano che siamo stupidi). La musica è a tutto volume e chiacchierare è quasi impossibile. Hanno messo Maniac, la canzone su una donna di una città siderurgica degli Stati Uniti che per sentirsi viva ha bisogno di essere matta: “She’s a maniac”, canta Michael Sembello, “she has danced into the danger zone”. È matta e ballando finisce in una zona pericolosa. È come se Beirut fosse questa donna, mi viene da pensare. “Beirut ha qualcosa di misteriosamente seducente”, dico a Raya. “Cos’è?”.
Lei ride spalancando le braccia con aria teatrale, come un drago che sta per sputare fuoco: “Beirut non ti nasconde niente, non si vergogna di mostrarti il suo lato sporco”.
Il sapore del ferro
La prima volta che ho visto Raya avevo dieci anni e lei e Michel si erano appena sposati. Già allora la ammiravo, con quei suoi fazzoletti colorati avvolti intorno alla testa, i ricci selvaggi e le unghie dei piedi sempre perfettamente smaltate. Raya è grafica e insegna arte al liceo.
L’appartamento in cui vive con Michel e le loro due figlie adolescenti è pieno di libri d’arte e lampade vintage, sul pavimento sono sparsi ovunque cuscinoni colorati su cui sedersi, in un angolo è appoggiata una chitarra e il cane ha il permesso di salire sul divano. Raya sembra circondata da una serenità che nulla riesce mai a scalfire, e lo spiega raccontando che una volta, vent’anni fa, prese dei funghi allucinogeni che “hanno risolto tutti i miei problemi”.
Quando scoppiò la guerra civile Raya aveva due anni e quando la pace tornò era già adulta. “Cosa ti viene in mente quando pensi alla guerra?”, le chiedo una mattina che siamo sedute insieme in salotto.
“Mi ricordo il sapore del ferro”, risponde Raya poggiando i piedi sul tavolino davanti al divano. Ci sono persone che in condizioni di forte stress fisico dovuto alla paura sentono in bocca un sapore metallico.
Una volta, all’inizio degli anni ottanta, quando le milizie si combattevano nelle strade di Beirut, un lanciarazzi fece fuoco sulla casa della sua famiglia. Fino a un attimo prima Raya era accanto alla finestra e solo perché la sorella l’aveva chiamata era corsa via da quel vetro che, un momento dopo, si sarebbe schiantato sul pavimento. Allora sentì sulla lingua uno strano sapore ferroso. Quando la città era sotto attacco, la sua famiglia fu costretta a dormire nella dispensa, la stanza più sicura della casa, per una settimana intera. “Dovevamo strisciare sul pavimento per andare in bagno”, racconta Raya, con il tono di voce con cui altri raccontano le marachelle della gioventù. Quando pensa alla guerra, pensa al calore e alla solidarietà tra parenti e vicini.
Ricette e superstizione
Un’instabilità che costituisce una minaccia per la vita può anche dare maggior valore alla vita stessa: proprio perché minacciati, ci sentiamo particolarmente vivi. Che sia anche per questo che, quando a Beirut succede qualcosa di brutto, io sento l’impellente desiderio di essere lì? La sera del 4 agosto 2020 mi ci sarei voluta precipitare. Oscillavo tra la vergogna e la disperazione: da un lato mi sembrava sbagliato voler andare in un posto che, con l’esplosione, per molti era diventato un inferno, ma dall’altro era proprio in quel momento che sentivo di voler stare vicina ai miei parenti e amici di Beirut. Per quanto insensate e crudeli, guerre e catastrofi uniscono le persone. Quanto meno possiamo fare affidamento sulla sicurezza pubblica e sullo stato, tanto più forti diventano le reti sociali.
Il calore di Beirut mi ha sempre attratta e ne sento il richiamo anche nell’autunno del 2021, quando la città ferita sembra un malato grave attaccato a una flebo. Seduto in un caffè, il mio amico Oliver mi racconta che gli basta passare pochi giorni lontano per sentire la mancanza di Beirut. “Qui è tutto così vero”, prosegue, “il calore delle persone è vero. Le feste sono vere. Le esplosioni”, e scoppia in una risata isterica, “sono vere. Perfino la guerra, quando c’è, è vera. Qui le cose sono più intense che altrove, dieci volte tanto. Quando siamo felici siamo dieci volte più felici. E quando facciamo una festa spacchiamo tutto. Abbiamo imparato a vivere come se non ci fosse un domani”.
Quasi tutti i libanesi con cui parlo dicono che, se fossero costretti ad andarsene, più di ogni altra cosa gli mancherebbero le persone. Per questo non mi sorprende che mia madre, che ha lasciato il paese quarant’anni fa, ad Amburgo abbia molte amiche libanesi. È evidente che i libanesi si riconoscono tra loro da lontano. Ancora ricordo quando anni fa mia madre cominciò a parlare con una sconosciuta in un negozio di scarpe di Amburgo perché aveva capito che era una sua connazionale. Quando vede la sua amica Marie-Thérèse, che come lei ha dovuto lasciare il paese da bambina, in pochi secondi cominciano a parlare un miscuglio caotico di arabo, francese e tedesco. Insieme preparano piatti libanesi e mangiano i dolcetti lokum alla rosa tra due biscotti, come facevano da bambine in Libano.
In Germania mia madre non si sente certo un pesce fuor d’acqua, anche perché è qui che ha trascorso la maggior parte della sua vita. A volte, parlando del Libano sembra mostrarsi volutamente indifferente: il Libano di oggi, dice, non ha più molto a che fare con il paese in cui è cresciuta. Eppure ad Amburgo si è creata una sorta di surrogato del Libano. L’appartamento dei miei genitori è pieno di cianfrusaglie libanesi: bicchierini da tè, vassoi, perle blu, fodere per scatole di fazzoletti di stoffa riccamente decorati e fermaporta.
Anche sull’uscio di casa mia a Berlino è appesa un amuleto blu. Cucino piatti libanesi, trito prezzemolo per il tabouleh finché non mi si addormenta il braccio. Quando mi manca il Libano, e succede spesso, verso lo yogurt greco in uno strofinaccio e lo lascio tutta la notte a scolare: è così che si fa in casa il labneh, un formaggio cremoso che in Germania è difficile da trovare. A un certo punto ho capito di aver bisogno di tutto questo per sentirmi a casa. E, tutte le volte che lascio Beirut con un groppo in gola, mi chiedo se mia madre non mi abbia trasmesso anche altro oltre alla superstizione e alle ricette.
“Capita spesso di ereditare i misteri insoluti dei nostri genitori. Le cose che sono state tolte a loro, in fondo, sono state tolte anche a noi”
Prendere le distanze
Cos’ha a che fare la mia nostalgia per il paese di mia madre con il fatto che lei sia stata costretta a lasciarlo? Una sera di ottobre a Beirut, sul divano del salotto di mia cugina immerso nel buio (non c’è corrente), cerco su Google esperti che possano aiutarmi a trovare una risposta. M’imbatto nella dottoressa Olivia Shabb, psicologa dell’università americana di Beirut specializzata in traumi. Qualche giorno dopo entro nel campus. Davanti all’ingresso principale c’è un fitto viavai di anziane in sedia a rotelle e di famiglie che vengono a trovare i parenti ricoverati nel centro medico dell’università.
Shabb ha 37 anni ed è una donna alta con un sorriso accogliente e riccioli scuri tenuti fermi da una fascia sulla fronte. Mi aspetta vicino all’ascensore. Dietro alla sua scrivania sono appesi i diplomi delle università di Harvard e Stanford, negli Stati Uniti, e accanto al divano c’è una scatola di fazzoletti. Prende un gran numero di scatoline e bustine con vari tè da uno scaffale e mi dice: “Ne scelga uno”.
Dall’esplosione del 4 agosto Shabb ha molti pazienti che soffrono di disturbi da stress post-traumatico. Dice di aver constatato soprattutto la presenza di due complessi di sintomi: c’è chi sente nervosismo e irrequietezza, e chi invece evita qualsiasi cosa possa rievocare anche solo lontanamente la catastrofe.
Le chiedo cosa succede quando le persone non parlano della loro esperienza: rimangono traumatizzate per sempre? “Sì”, risponde Shabb, “perché significa che quello che ci è successo è talmente orribile che non vogliamo parlarne e di conseguenza non possiamo elaborarlo. È come se prendessimo le distanze da noi stessi. E la rimozione si trasforma in una forma di alienazione”. Mi viene in mente quanto è difficile parlare con mio zio Michel di quando era giovane durante la guerra o di qualsiasi altro argomento personale. Spesso svicola e si rifugia in una battuta. Mia madre è simile. Lei della sua giovinezza si ricorda ma, quando parliamo delle sensazioni che provò lasciando il Libano, ha un’aria stranamente disorientata.
Chiedo a Shabb com’è possibile che io sia così attaccata a un paese che non è il mio, un paese scosso, oltretutto, dal dolore. “Be’”, risponde, “a chi ci vive, il Libano non riserva solo traumi”. Guarda lo scorcio di mare azzurro che s’intravede dalla finestra, circondato dai palazzi. “Stranamente l’anniversario dell’esplosione per me è stato uno dei giorni più belli di tutto l’anno scorso. Decine di migliaia di persone si sono riunite giù al porto per commemorare le vittime e per chiedere che i colpevoli fossero puniti. Il padre di una bambina di tre anni morta nell’esplosione”, le si spezza la voce, “ha tenuto un discorso e alla fine ha ringraziato la gente per avergli regalato il suo tempo. All’improvviso dalla folla qualcuno ha gridato: ‘È un onore poterti ascoltare’”. Shabb comincia a piangere. “Ci si chiede spesso se di questo paese sia rimasto qualcosa. In quel momento mi sono resa conto che sì, qualcosa è rimasto”.
Olivia Shabb è nata negli Stati Uniti nel 1985. I suoi genitori lasciarono il Libano quando le truppe israeliane entrarono a Beirut e tornarono quando lei aveva cinque anni. “I miei genitori se ne sono dovuti andare, ma sono tornati”, racconta. “Io ho studiato all’estero, ma sono tornata anch’io. Voglio che i miei figli crescano qui, ma dentro di me c’è una voce che dice: questo posto non è sicuro. So bene che forse un giorno anch’io li dovrò mettere su un aereo”. Entrambe restiamo in silenzio. Shabb si asciuga le lacrime. A volte, mi dice, le sembra che ogni nuova generazione di libanesi coltivi una speranza per il paese, anche se ogni volta questo ottimismo viene deluso.
“Mia madre se n’è andata da qui a tredici anni”, racconto, “e non è mai più tornata davvero. Ogni volta che le chiedo come ha vissuto quest’esperienza, dice che quasi non se la ricorda”.
“Non mi sorprende affatto”, replica Shabb. “Quando a un bambino succedono eventi inaspettati su cui non ha alcun controllo, ricordarsene può riuscirgli molto difficile: non capisce esattamente cosa è successo e perché. S’immagini una stanza con dei vestiti sparsi a terra ma senza un armadio in cui appenderli e metterli in ordine”.
Ho un attimo di esitazione: “Se mia madre non è mai riuscita a elaborare la perdita di casa sua, se, insomma, non è mai riuscita ad appendere quei vestiti in un armadio, può darsi che abbia trasmesso a me il suo dolore per quella perdita?”.
“Habibti”, esclama Shabb all’improvviso. È un nomignolo che in genere usano i genitori per i figli, e nella sua voce risuona qualcosa di materno e una sapienza, un’empatia che mi sopraffà. “Capita spesso di ereditare i misteri insoluti dei nostri genitori. Le cose che sono state tolte a loro, in fondo, sono state tolte anche a noi. Perciò è del tutto comprensibile che la frattura che attraversa l’esistenza di sua madre faccia parte anche della sua vita”.
Come un’armatura
A ottobre mia madre, che è venuta anche lei a Beirut, riparte qualche giorno prima di me. Con sé ha due valigie e una è piena di ricordini: buste di zaatar e sumach, due spezie, grandi pacchi di biscotti e lokum alla rosa da mangiare con la sua amica Marie-Thérèse. L’accompagno all’aeroporto. Per il viaggio si è messa una giacca elegante, come una specie di armatura. Intuisco quanto sia difficile per lei partire e quanto, probabilmente, si stia sforzando di darsi un tono. Ma poi, alle partenze, quando scendiamo dal taxi, sono io che fatico a mantenere il controllo. Me la immagino seduta sull’aereo a guardare Beirut dall’alto. Si dovrà separare ancora una volta dal luogo che l’ha resa quella che è.
Casa è il posto da cui vieni. Casa sono le persone che ami e quello che associ a loro. “Mia madre è stata il mio primo paese, il primo posto che abbia mai abitato”, scriveva la poeta Nayyirah Waheed. Mia madre ha lasciato il Libano ma il Libano non ha mai lasciato lei. E così il suo paese è diventato anche il mio paese.
Ci abbracciamo senza guardarci. Poi mia madre si allontana velocemente, con le sue due grandi valigie. Una è piena di casa. ◆ sk
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Questo articolo è uscito sul numero 1471 di Internazionale, a pagina 104. Compra questo numero | Abbonati