Al di sotto del campus dell’università di Trondheim, il più importante politecnico norvegese, un pozzo si allunga nelle profondità della terra per 92 metri. Sigbjørn Sangesland ha il badge che permette di visitarlo: ci porge un caschetto e attraverso un tunnel sotterraneo ci porta fino a un grande slargo dove, nel pavimento di cemento, troviamo un’apertura. Alcune sbarre sporgono dal terreno e al di sopra dell’apertura troneggia una struttura in acciaio rosso. “Qui sotto ci sono sedimenti marini di ogni tipo e tanto fango”, dice il professore di tecnologia del petrolio.
Si vede. Qualche anno fa c’è stato un blowout, un’eruzione improvvisa dal foro di trivellazione, e ancora si vede il fango appiccicato sulle pareti. “I nostri studenti e ricercatori stanno imparando a usare le varie componenti”, spiega Sangesland, un tipo sportivo con i capelli corti che ci riceve indossando una maglia da ciclista. Tiene un corso sulla regolazione della pressione nel foro di trivellazione: chi impara ad azionare questi macchinari sogna di andare per mare, a perforare i fondali alla ricerca di gas e petrolio.
In fin dei conti la tecnologia che Sangesland spiega agli studenti è una vecchia gloria dell’economia fossile. Oggi la transizione energetica fa passi avanti in tutto il mondo: sole, vento e acqua stanno soppiantando gas e petrolio. Ma da quando è scoppiata la crisi energetica, nei corsi di laurea del dipartimento di geoscienze e petrolio, in cui per anni sono calate le iscrizioni, i numeri sono tornati a crescere. “Credo che la gente si stia rendendo conto che petrolio e gas saranno indispensabili ancora per decenni”, commenta il professor Sangesland.
Sul mercato globale dell’energia questo paese di 5,5 milioni di abitanti che si affaccia sul mare del Nord svolge un insolito doppio ruolo. Da un lato i norvegesi si ritengono ambientalisti, in sintonia con la natura come nessun altro in Europa e procedono a passo speditissimo nell’introduzione delle auto elettriche (il 90 per cento delle nuove immatricolazioni), dell’energia idroelettrica (il 90 per cento della produzione di elettricità) e delle pompe di calore (due terzi delle abitazioni). Dall’altro, però, negli ultimi anni la Norvegia è diventata uno dei soggetti più aggressivi sul fronte delle trivellazioni offshore per l’estrazione di petrolio, gas e altre redditizie materie prime. Anno dopo anno, ha assegnato nuove concessioni per l’estrazione di materie prime fossili: nell’ultimo decennio se ne contano quasi ottocento, di cui 62 nel 2023. Quest’anno ci si aspetta un nuovo record dei suoi investimenti in petrolio e gas, e lo stesso nel 2025.
Sorprendentemente, tutto questo per molto tempo non ha danneggiato la reputazione del paese. Oggi, però, la contraddizione comincia a essere evidente. Nel settembre 2023, a un incontro tra gli stati leader della lotta al cambiamento climatico, il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha ridotto il tempo destinato agli interventi dei norvegesi, uno smacco per il governo di Oslo. Alla fine del 2023 l’autorità di controllo londinese in materia di pubblicità ha vietato all’Equinor, la compagnia petrolifera statale norvegese, di pubblicare annunci eccessivamente autocelebrativi della sostenibilità dell’azienda sui mezzi d’informazione britannici.
Nel 2022, quando Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina, a Oslo gli europei si sono messi in fila per comprare il gas norvegese
E ora i manifestanti arrivano in Norvegia anche dall’estero per protestare contro la trivellazione di nuove aree marine. All’inizio del 2024 Greenpeace e Natur og Ungdom, un’organizzazione ambientalista locale, hanno perfino vinto una causa contro l’apertura di tre nuovi giacimenti petroliferi nel mare del Nord. La vicenda probabilmente porterà solo a dei ritardi, ma ha comunque sollevato un polverone: che la Norvegia, all’apparenza tanto green, in realtà sia uno dei peggiori inquinatori del pianeta?
Il ministero dell’ambiente norvegese si trova in un’elegante via dello shopping di Oslo. All’ingresso, dopo aver presentato un documento d’identità, l’atmosfera si fa un po’ opprimente: i visitatori entrano uno alla volta in un cilindro di vetro che si chiude intorno a loro per una scansione, alla ricerca di eventuali oggetti pericolosi. “Di tanto in tanto ci sono problemi con i manifestanti”, spiega la responsabile della comunicazione che è venuta a prenderci. Un attimo di sconcerto: manifestanti ambientalisti che protestano davanti al ministero dell’ambiente?
Non che il governo faccia poco per l’ambiente: l’anno scorso la Norvegia ha abbattuto del 5 per cento le sue emissioni di CO2. Il ministro, che ci riceve in un ampio ufficio al primo piano, è un tipo energico: Andreas Bjelland Eriksen ha 32 anni, ha studiato economia e ha fatto una carriera politica lampo nel Partito laburista. Parla velocemente e con precisione e quando si tratta di sciorinare numeri e fatti se la cava benissimo anche senza l’aiuto del suo staff.
Eppure non ha proprio l’aria del tipico ministro per l’ambiente. Con il suo completo blu scuro potrebbe essere un imprenditore del settore gas e petrolio. Parla di obiettivi climatici, di mondi post-fossili e piani ambientali, ma pronuncia anche frasi come: “Credo sia importante per l’Europa avere accesso a energia a basso costo”. E “per procurarsela non c’è niente di meglio del gas che arriva dalle infrastrutture norvegesi”. Il ministro racconta di essere originario di Stavanger, la capitale petrolifera del paese. E in passato è stato sottosegretario del ministero dell’energia e del petrolio.
È tipico dell’élite norvegese passare dagli enti pubblici che si occupano di energia all’industria petrolifera e poi alla politica: i legami sono strettissimi. Neanche un ministro dell’ambiente potrebbe mai allontanarsi troppo dall’opinione condivisa dalla maggior parte dei suoi connazionali: tutelare clima e ambiente sul territorio nazionale è importantissimo, ma il ruolo della Norvegia come potenza petrolifera resta prioritario. Lo chiamano “paradosso norvegese”, un’espressione ricorrente tra gli attivisti e i politologi. I più maliziosi si spingono a parlare di ipocrisia norvegese.
Da quando, nel 1969, ha inaugurato il suo primo giacimento petrolifero, la Norvegia da povera nazione di pescatori si è trasformata velocemente in uno dei paesi più ricchi del mondo. Nel 1990 ha costituito un fondo sovrano in cui fa confluire gli enormi profitti dell’industria petrolifera. Si stima che il debito pubblico tedesco sia pari a 2.500 miliardi di euro. In Norvegia, invece, hanno un contatore che calcola i crediti: alla fine di luglio valevano 1.600 miliardi di euro. L’industria petrolchimica dà lavoro direttamente a duecentomila persone, molte di più se si considera l’indotto.
Tutta questa ricchezza proviene da piattaforme di estrazione per lo più sperdute in mezzo al mare, tanto che pochissimi norvegesi hanno visto questi mostri d’acciaio che pompano senza sosta petrolio e gas da giacimenti con il nome di divinità nordiche e luoghi mitologici, di navi e stelle. Il giacimento più grande si chiama Troll, come la più nota delle creature mitologiche norvegesi. Attraverso le condutture il gas raggiunge prima la terraferma in Norvegia e poi, passando sotto il mare del Nord, approda in Europa.
Dal punto di vista norvegese, però, anche gli altri paesi si comportano in modi decisamente contraddittori. Nel 2021 l’Unione europea aveva invitato la Norvegia a non aprire nuovi giacimenti nell’Artico per tutelare l’ambiente. Ma nel 2022, quando Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina, a Oslo gli europei si sono messi in fila per comprare il gas. E i tedeschi – che esportano motori a scoppio e gestiscono inquinanti centrali a carbone – ora importano il 43 per cento del loro gas naturale dalla Norvegia che è diventata il loro primo fornitore di energia.
La Germania progetta di acquistare in Norvegia, dal 2030, anche il cosiddetto idrogeno blu, un combustibile ecologico la cui produzione implica però una grande dispersione di energia: con la combustione del gas naturale norvegese si libera una considerevole quantità di CO2 che va catturata e stoccata nel mare del Nord. La Norvegia punta molto ad avere un futuro ruolo come sito di stoccaggio per i rifiuti climatici e l’università di Trondheim già offre corsi in materia. I tedeschi hanno dichiarato più volte che preferirebbero un idrogeno verde, prodotto con energia idrica, eolica e solare, ma ottengono solo uno sguardo di sufficienza: la Norvegia punta sull’idrogeno derivato dal gas.
Qualcuno deve pur farlo
Per quanto sembri incoerente, questa resistenza nei confronti dell’idrogeno verde ha molto a che vedere con lo stretto rapporto dei norvegesi con la natura. Le devastazioni ambientali li colpiscono profondamente. A gennaio, un servizio della televisione pubblica ha individuato le numerose aree naturali che negli ultimi cinque anni sono state edificate: la notizia ha fatto scandalo ed è rimasta in prima pagina per settimane.
Anche in Norvegia ci sono proteste a carattere ambientalista, però si concentrano soprattutto su problemi locali e sempre più spesso sulle pale eoliche o sui cavi per l’alta tensione che per molti norvegesi deturpano gravemente il paesaggio. L’industria petrolifera, invece, alla maggior parte dei norvegesi piace, anche grazie a decenni di campagne d’immagine piuttosto convincenti: se è ancora necessario che qualcuno estragga gas e petrolio, allora non è meglio che lo faccia la Norvegia, paese democratico e dotato di un’avanzatissima tecnologia che le consente di agire nella maniera più ecologica possibile?
Nel segno dell’ambientalismo la Norvegia ha perfino introdotto l’uso di energia da fonti rinnovabili per il funzionamento delle sue piattaforme petrolifere.
Imprenditoria e governo norvegesi escludono la possibilità di fermare del tutto l’apertura di nuovi giacimenti di gas e petrolio, anche se nel 2021 l’ha raccomandato perfino l’Agenzia internazionale dell’energia, sottolineando come, in caso contrario, la lotta al riscaldamento globale non avrà alcuna speranza di successo. Nell’ottobre 2023, inoltre, una commissione scientifica istituita dal governo ha raccomandato lo smantellamento del settore, ma è stata bruscamente richiamata all’ordine.
Due mesi dopo, la conferenza sul cambiamento climatico a Dubai ha adottato la formula della delegazione norvegese trovando un accordo sull’“abbandono graduale dei combustibili fossili”. Tuttavia, subito dopo la conferenza, il ministro del petrolio e dell’energia Terje Aasland ha chiarito che la politica norvegese non cambierà di una virgola.
Perché in Norvegia c’è anche un’altra convinzione. I responsabili del consumo, cioè della combustione di petrolio e di gas, con le relative conseguenze sul clima, sono i compratori: senza le loro richieste, l’industria norvegese si adatterebbe dirigendo altrove le proprie competenze tecniche – per esempio aumentando gli impianti eolici offshore.
Secondo le organizzazioni ambientaliste norvegesi e il minuscolo partito dei Verdi di Oslo, però, è una versione che non corrisponde alla realtà. L’industria norvegese del petrolio e del gas può aprire nuovi giacimenti grazie agli enormi sgravi fiscali e agli incentivi agli investimenti di cui gode. A fronte di un effettivo calo della domanda durante la pandemia, il governo ha aumentato considerevolmente le sovvenzioni. Per lo sviluppo delle energie rinnovabili, invece, c’è una costante carenza di mezzi, materiali e competenze. “Alla fine scommettono sul fatto che il resto del mondo non sarà abbastanza rapido nel ridurre il proprio consumo di petrolio e gas”, osserva Steffen Kallbekken, direttore di ricerca presso Cicero, l’istituto per lo studio del clima di Oslo.
D’altra parte la Norvegia si sta preparando ad affrontare l’epoca post-fossile. Nel gennaio 2024 è stata il primo paese al mondo ad approvare una legge che consente l’attività mineraria in acque profonde al largo delle sue coste. Nel prossimo futuro un gruppetto di imprenditori, tutti con esperienza nel settore petrolifero, sarà autorizzato a cercare risorse minerarie nel gelido mare di Norvegia e nel mare di Barents. Si ipotizza che il fondale marino e le croste dei vulcani contengano grandi riserve di rame e dei metalli necessari a produrre le batterie elettriche.
A febbraio il parlamento europeo ha protestato con indignazione contro questi progetti, ma in Norvegia non si è arrabbiato praticamente nessuno. Il Wwf ha sporto denuncia perché in queste aree sottomarine non sono mai state studiate fauna e flora. Eivind Trædal, ricercatore del Wwf, a volte trova terrificante la mentalità dei suoi connazionali: “Nella testa dei norvegesi persiste questa idea che si debba scavare per portare alla luce qualcosa da vendere all’estero”. ◆ sk
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Questo articolo è uscito sul numero 1578 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati