Un rombo attraversa l’aria di Sanrizuka. Sulla pista d’asfalto un aereo ha appena acceso i motori. Ma Takao Shito, che si trova a poca distanza, dice di non sentire nulla. È seduto a gambe incrociate su un tappetino di paglia di riso nella sua capanna, dove si sta tenendo una riunione. Sta bevendo un tè. Ha 71 anni, le mani grandi e la voce allegra. Non ha nessuna intenzione di farsi il sangue amaro per quei maledetti aerei. Il suo vicino di casa è l’aeroporto internazionale di Tokyo Narita. Le piste di decollo e di atterraggio circondano la sua vecchia fattoria e i campi di famiglia.
“I miei amici e compagni di lotta non vogliono che io dica che al rumore ci si abitua”. Non sanno cosa significa gestire una fattoria accanto a uno degli aeroporti più grandi del mondo. Shito ha dovuto imparare a ignorare i suoni, altrimenti la storia della sua azienda di famiglia sarebbe finita da tempo. “Devo convivere con il rumore”, dice. “Se ci si pensa in continuazione, non si può andare avanti”.
Qui il contadino coltiva cinquanta specie di verdure, senza usare pesticidi. Agricoltura biologica vicino alle piste degli aerei? Non sembra una buona idea, ma lui non ha avuto altra scelta. Nelle campagne in Giappone è il primogenito a ereditare la fattoria. Quando morì suo padre, nel 1999, Shito non ebbe un attimo di esitazione e cominciò a occuparsi dell’ettaro e mezzo di terra dove già suo nonno coltivava le verdure. Il fatto che la gran parte della proprietà fosse in mezzo ai terreni dell’aeroporto, che in tutto occupa 1.198 ettari, non lo scoraggiò, anzi. Come suo padre, Shito ha resistito alle offerte di denaro. Per restare lì, a ogni costo. “Ho ereditato la lotta di mio padre”, commenta.
La lotta è cominciata più di 53 anni fa, quando il Giappone era ancora impegnato a risollevarsi dalla seconda guerra mondiale. All’epoca, il governo conservatore costruiva case e vie di trasporto a ritmo serrato. L’economia cresceva e presto fu chiaro a tutti che Tokyo aveva bisogno di un secondo aeroporto, quello di Haneda non bastava più. A est, sull’altipiano di Shimōsa, nella prefettura di Chiba, c’erano spazio e un suolo adatto. E nella zona lo stato poteva contare su terreni da pascolo di proprietà della famiglia imperiale. La scelta fu presa rapidamente, le famiglie di contadini non furono nemmeno interpellate.
Shito aveva appena finito le scuole medie e voleva andarsene il più in fretta possibile. Lavorava in un ristorante di Funabashi, a circa quaranta chilometri da Narita. Il giorno in cui la faccenda prese una piega violenta lui non era presente. Quella di Sanrizuka è stata una delle rivolte popolari più sanguinose del dopoguerra giapponese. All’inizio, nel 1966, Toshio Shito e gli altri contadini fecero volantini, appelli, richieste e trattative. Quando niente di questo funzionò, programmarono atti di sabotaggio, scavarono fossati e tunnel, si incatenarono agli alberi, usarono delle catapulte per far piovere letame dentro il cantiere dell’aeroporto. Le ale più radicali del movimento degli studenti e dei partiti di sinistra si unirono alla battaglia. Ci furono scontri con la polizia. Idranti e ruspe contro bombe molotov e lance acuminate. Ci furono feriti, perfino morti, da entrambe le parti. Poi, nonostante tutto, gli aeroplani arrivarono. L’aeroporto di Narita fu inaugurato – in ritardo – il 20 maggio del 1978. La sua superficie era stata ridotta di un terzo rispetto al progetto originale e aveva una sola pista di atterraggio.
Una cicatrice verde
Un altro aereo romba sopra la capanna di Takao Shito. “Se potessi avere una normale vita da agricoltore, mi concentrerei volentieri su altre cose”, dice. Ma l’unica soluzione sarebbe far sparire l’aeroporto. Una battaglia in cui s’impegna con molta energia, la stessa che usa per raccogliere le patate.
Suo padre era un uomo riservato, racconta. Ma aveva una volontà d’acciaio, più forte di quella dei vicini, che a un certo punto cedettero alle pressioni e alla tentazione del denaro. Ai progettisti non rimase altra possibilità che costruire l’aeroporto intorno alla fattoria degli Shito. Che è ancora lì, come una cicatrice verde in mezzo al grigio delle piste.
Durante la pandemia è tornato a sentire gli uccelli e il vento, racconta sorridendo
Perché rinunciare a questa terra fertile per la smania di viaggiare degli altri? Shito se lo chiede ogni giorno. È basso, ha i vestiti sporchi per via del lavoro nei campi, ma la sua mascherina è immacolata. Parla poco, non ha una grande nostalgia dei tempi andati, quando si arrampicava sugli alberi. Boschi, campi, uno sparuto gruppo di case: qui una volta era così.
È una giornata d’inverno assolata all’aeroporto di Narita: buona visibilità, terreno asciutto. Shito sta raccogliendo dal campo le patate satoimo e deve trapiantare le cipolle. Un giovane compagno di lotta, Taisuke Nojikawa, scrive articoli sulla fattoria. Ha studiato pedagogia, ora però fa il corrispondente per un sito della sinistra radicale. Nojikawa mi viene a prendere alla stazione di Higashi Narita, proprio davanti al terminal 2 dell’aeroporto.
Giro lungo
Per arrivare alla fattoria bisogna fare un pezzo di autostrada, superare edifici grigi e parcheggi prima di entrare in un sottopassaggio. Proprio lì dietro c’è una casa scura, in parte coperta dagli alberi. Un gatto bianco salta in mezzo ai cespugli. Nel giardino si vede una torretta d’acciaio accanto a un muro di lamiera. Lì dietro c’è l’aeroporto. Taisuke Nojikawa si arrampica sulla torretta e indica oltre il perimetro transennato: “I suoi campi sono laggiù”.
Fino al 2010, Shito poteva arrivarci direttamente da casa. Ma poi la compagnia aeroportuale, la Narita international airport (Naa), ha creato una nuova diramazione sulla seconda pista per i mondiali di calcio del 2002. Da allora Shito ci mette il quadruplo del tempo per raggiungere i suoi campi. Pochi passi più in là ci sono i cartelli che i passeggeri possono leggere dai finestrini degli aerei: “Abbasso l’aeroporto di Narita!”.
L’intera azienda agricola sembra un museo dedicato a chi si era opposto alla costruzione dello scalo. In un campo c’è un monumento che ricorda un combattente della resistenza morto, alte canne di bambù frusciano al vento lungo il muro. “Le recinzioni sono troppo basse per proteggere i campi dai gas di scarico degli aerei”, dice Nojikawa. “Shito ha fatto causa all’aeroporto per avere barriere più alte, ma non ha ottenuto niente. Per questo ha piantato gli alberi”.
Il contadino non sa di preciso quali effetti abbiano le emissioni degli aerei sulle sue verdure. E sembra che, escluso lui, la cosa non interessi a nessuno. Molti agricoltori in Giappone sono soggetti alle rigide regole dell’associazione agricola, la Ja, che decide quali semi vanno piantati e quali diserbanti si possono spruzzare. Ma Shito non vuole essere comandato da nessuno, per questo non è iscritto alla Ja e non è sottoposto ad alcun controllo. Nel 2002, racconta Nojikawa, l’agricoltore piantò dei fiori particolarmente sensibili ai gas di scarico. Aveva anche appeso sulla torre dei fogli di carta bianca. Voleva dimostrare alla compagnia aeroportuale che la fattoria era poco protetta contro le emissioni. I fiori persero presto le foglie e i fogli di carta diventarono marroni. “La Naa ha ammesso che le recinzioni sono troppo basse. Eppure non è stata condotta nessuna inchiesta”, afferma Nojikawa. Shito non usa sostanze chimiche, per questo può essere considerato un agricoltore biologico. Ma nessuno sa quanto gli effetti del traffico aereo condizionino i suoi raccolti.
◆ 1951 Nasce in Giappone.
◆ 1966 Scoppia la rivolta contadina di Sanrizuka contro la costruzione dell’aeroporto di Narita, alla quale partecipa anche suo padre.
◆ 1999 Il padre muore e Takao Shito eredita l’azienda agricola di famiglia.
◆ 2010 La compagnia aeroportuale gli offre molti soldi per comprare il terreno, ma lui li rifiuta. Per questo la nuova pista di atterraggio è costruita intorno ai campi.
◆ 2018 Riceve un ordine di sfratto, ma resta nella fattoria e si rivolge a un tribunale.
La nostra auto sulla strada sterrata sobbalza sopra i solchi dei campi arati accanto alla pista. Qui in inverno crescono broccoli e cavoli cinesi. In estate, porri, patate, peperoncini e altre cose. Un cartello dice: “Vietato l’accesso alla compagnia aeroportuale”. Fosse semplice.
Gli Shito sono solo affittuari dei terreni. Nel 1988 il proprietario li ha venduti “di nascosto” all’aeroporto. Si è saputo della vendita solo nel 2003. Nel 2018, il tribunale distrettuale di Chiba ha approvato lo sfratto. Ma Shito ha diverse cause in corso contro la Naa. I processi bloccano l’esecuzione dello sfratto, ecco perché nella piccola fattoria biologica di Shito tutto procede come sempre, così come nell’enorme aeroporto.
Un’ala posteriore gialla appare dietro il muro di cemento della pista e subito sfreccia via. È l’aereo di una compagnia aerea low cost in partenza per le isole Amami, nel soleggiato sud del Giappone. Nojikawa non ci bada. La compagnia aeroportuale tace. “A causa delle eccezionali circostanze” non rilascia interviste. I tempi, inoltre, non sono proprio rosei.
Come sempre il contadino Shito ha tanto da fare. Vende le verdure a un servizio di consegne che porta gli ortaggi direttamente dal campo al consumatore. Un settore a prova di pandemia. Nelle sale tirate a lucido dell’aeroporto, invece, non succede granché. Dall’aprile 2020 il Giappone ha introdotto un divieto d’ingresso ai turisti stranieri, che solo da giugno il governo ha revocato (con cautela). Nel novembre 2019 l’aeroporto aveva tre milioni di passeggeri internazionali, lo stesso mese del 2021 erano duecentomila. La terza pista da realizzare entro il 2029 non sembra più un progetto al passo con i tempi.
Takao Shito è contento. Durante la pandemia è tornato a sentire gli uccelli e il vento, racconta sorridendo. Ma gradualmente il traffico aereo sta riprendendo. Lo sente anche lui. Sa che non vincerà. Sarebbe poi così bello se vincesse?
È difficile immaginare la regione metropolitana di Tokyo, 37 milioni di abitanti, senza il suo secondo grande aeroporto che collega il paese con il resto del mondo e che ha portato benessere e posti lavoro. “Il Giappone ha bisogno dell’aeroporto”, dice la pastora Hiroko Ueda nella sua piccola chiesa evangelica, a poca distanza dal centro di Narita. Ueda ricorda che un tempo la battaglia sull’aeroporto divise la comunità. “Ancora oggi è così”, spiega. Ma la resistenza sta diminuendo. L’aeroporto è diventato una realtà. Lei stessa se ne è servita spesso per i viaggi pastorali all’estero. “Senza gli aerei non riusciremmo a comunicare con i cristiani del resto del mondo”, dice. Ma ha comunque sentimenti contrastanti. Naturalmente sa delle proteste del contadino Shito e dei suoi compagni. Pochi giorni fa sono venuti di nuovo davanti alla chiesa. “Avevano dei megafoni, erano molto rumorosi”, dice. E li capisce, in gioco c’è la loro tradizione.
Fiori sensibili
Un altro aereo romba sopra la capanna di Shito. Lui sta raccontando dei 180 milioni di yen che gli hanno offerto per andarsene. Sono tanti soldi, circa 1,37 milioni di euro. La somma che ha rifiutato è il suo orgoglio. E la sua frugalità è la vendetta nei confronti delle persone che hanno distrutto l’idillio degli Shito. Perché è vero, è arrabbiato. “Non ce l’ho con gli aerei, ma con la compagnia aeroportuale che ci ha trattato come parassiti”, afferma.
In ogni caso, venderà cara la pelle. Vorrebbe continuare a vivere così. In mezzo all’aeroporto. Con le verdure, le proteste e le riunioni nella sua capanna, che per lui è una specie di centro di potere. Qui su una parete sono attaccati centinaia di bigliettini con messaggi da parte di persone contrarie all’aeroporto, all’energia nucleare o alla politica estera degli Stati Uniti. E, se necessario, può cantare per non sentire il rumore degli aerei. In un angolo, tra striscioni e mappe, c’è un grande impianto per il karaoke. ◆ nv
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Questo articolo è uscito sul numero 1474 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati