L’organizzazione che assicura il successo alle aziende di tutto il mondo è tutt’altro che famosa. Ha sede in un edificio piuttosto anonimo nel centro di Washington, negli Stati Uniti, e neanche il portiere sembra conoscere il suo nome.

“Verra?”.

L’uomo scorre l’elenco degli inquilini. “Interno 1050, decimo piano”.

Nel corridoio spoglio del decimo piano nulla suggerisce che stiamo entrando nella sede di una ong che domina un mercato miliardario. Eppure su questa ong fanno affidamento i manager delle multinazionali di tutto il mondo, dalla Gazprom alla Apple e alla Volkswagen.

Con i loro soldi la Verra combatte la crisi climatica, o almeno così dice. Per ogni tonnellata di anidride carbonica emessa da qualcuno, la Verra promette di trovare una tonnellata di anidride carbonica non emessa da qualcun altro.

In un’epoca in cui manager e consigli d’amministrazione annunciano obiettivi di riduzione delle emissioni, è un’offerta allettante: permette alle aziende di pagare perché in qualche angolo del mondo un progetto di tutela ambientale eviti o riassorba la stessa quantità di anidride carbonica che loro emettono estraendo gas, costruendo auto o producendo computer. Per ogni tonnellata risparmiata è messo in vendita un credito di emissione. Sulla carta ci guadagnano tutti: per l’atmosfera è irrilevante dove avviene la riduzione delle emissioni, negli stabilimenti della Volkswagen o in una foresta dello Zimbabwe. Basta che qualcuno possa garantire che le emissioni siano davvero evitate.

A questo servono le persone dell’interno 1050. Lavorano per la Verra, leader mondiale nella certificazione delle compensazioni di anidride carbonica: sul mercato volontario – cioè non statale – dei crediti d’emissione, il 75 per cento di tutti i certificati è rilasciato da loro. Sono loro a fare le regole, trasformando aziende inquinanti in aziende sostenibili.

Le parti coinvolte nell’affare sono quattro. Primo, gli acquirenti dei crediti: aziende come la Volkswagen, che pagano per riscattarsi dall’inquinamento di cui sono responsabili. Secondo, i venditori: normalmente startup o società di consulenza che si occupano della compravendita dei certificati, guadagnando un sacco di soldi.

Terzo, i responsabili dei vari progetti, ossia quelli che fanno in modo che i certificati arrivino sul mercato evitando l’emissione di anidride carbonica, per esempio salvando un pezzo di foresta amazzonica che era destinato a essere abbattuto. Anche loro ci guadagnano.

Quarto, i certificatori, quelli che dettano le regole del gioco stabilendo il numero di certificati collegati a ciascun progetto. A livello mondiale, in tre casi su quattro questo ruolo spetta alla Verra, che svolge una funzione di vigilanza senza essere un ente pubblico. Il suo compito è garantire che a ogni certificato emesso corrisponda un effettivo risparmio di anidride carbonica.

Masahiro Hiroike

Grazie alla Verra negli ultimi anni migliaia di aziende in tutto il mondo hanno potuto proclamare piccoli e grandi successi sul clima. C’è la Walt Disney, che sostiene di aver dimezzato le sue emissioni dal 2012. Poi c’è l’Audi, che ha annunciato lo sviluppo della sua prima auto elettrica a impatto zero. La Gucci annuncia addirittura di avere interamente azzerato il proprio impatto ambientale, così come la McKinsey, Netflix e Zalando. Quanto progresso, quanti successi. E se in gran parte non fosse vero?

I primi sospetti

Una pista d’atterraggio a nord di Seattle, nello stato di Washington. In un giorno d’autunno un uomo piuttosto giovane sale su un aereo a elica per mostrarci come mai si oppone a quelli della Verra. Sopra la pista si spiegano veli di nuvole sottili. “N7303, dove siete diretti?”, chiede il controllore di volo via radio. “Al parco nazionale”, risponde Elias Ayrey dalla cabina di pilotaggio.

L’aereo si alza lentamente, rombando sopra l’oceano Pacifico. Davanti a lui si stendono ghiacciai, montagne e chilometri e chilometri di foresta pluviale, una delle più grandi dell’America settentrionale. “Che spettacolo, vero?”.

Ayrey è un ecologo di 32 anni con il pallino dei boschi. Nei fine settimana sorvola quelli dello stato di Washington per ammirarne la bellezza.

L’aereo plana a poche centinaia di metri sopra la foresta pluviale con i suoi alberi dalle cime altissime. Ayrey indica l’immensa distesa verde. Difendere i boschi è la sua missione. Per questo guardando la natura meravigliosa sotto di lui oltre a commuoversi si arrabbia. Fino a poco tempo fa lavorava per una startup di San Francisco che si occupava di procurare alle aziende certificati affidabili rilasciati da iniziative di protezione delle foreste. Molte di quelle che doveva valutare erano garantite proprio dalla Verra.

La Verra certifica i progetti più disparati, dagli impianti fotovoltaici a quelli idroelettrici. La maggior parte (il 40 per cento) riguarda però la protezione delle foreste. Si potrebbe pensare che da qualche parte ci sia qualcuno intento a piantare alberi. Ma non è così: i responsabili si limitano ad assicurare che i boschi già esistenti siano conservati. Ayrey si occupava di verificare quanto dichiarato dai vari progetti, un lavoro che svolgeva al computer, vagliando dati satellitari per distinguere le iniziative valide da quelle dubbie. La prima volta che si è imbattuto in un progetto i cui responsabili sostenevano di evitare molta più anidride carbonica di quanto a lui sembrasse plausibile, Ayrey si è detto: può capitare. Poi però ecco un altro caso simile, e poi un altro e un altro ancora. I progetti sospetti diventavano sempre di più. Eppure la maggior parte era stata certificata dalla Verra, l’azienda leader del settore.

Tornati a terra, Ayrey ci racconta del suo lavoro di verifica e di come si è reso conto che la Verra ha messo in piedi “un sistema di manipolazione sistematica”. “È come con il doping”, dice Ayrey. “Bastano tre persone che lo fanno ed ecco che tutti sono costretti a doparsi. E tutti lo sanno”.

Ayrey è uno dei pochissimi addetti ai lavori disposti a parlare dell’altra faccia dei successi climatici, dove le buone intenzioni svaniscono e si spalanca un abisso in cui gli interessi del mercato vivono di vita propria. Chi si muove in questo abisso, lontano dall’occhio vigile dello stato, si finge impegnato a salvare il pianeta ma in realtà non fa niente o addirittura peggiora la situazione, contribuendo ad aggravare la crisi climatica.

Secondo un’inchiesta del settimanale tedesco Die Zeit, del quotidiano britannico The Guardian e del consorzio investigativo SourceMaterial, sembra che per anni siano stati venduti milioni di certificati che non avrebbero dovuto esistere. A quanto pare molti progetti di tutela delle foreste sopravvalutano parecchio la quantità di carbonio che fanno risparmiare. A consentirglielo sono proprio le regole del più importante ente certificatore sul mercato, e il fallimento dei meccanismi di vigilanza.

Per realizzare questo reportage siamo andati nei Paesi Bassi, negli Stati Uniti e in Perù e abbiamo parlato con decine di scienziati e di addetti ai lavori degli abusi e dei difetti di questo sistema. In passato, qualcuno aveva già espresso dubbi su singoli progetti di protezione delle foreste, ma ora la reale portata del fenomeno è emersa dai risultati di due studi a cui abbiamo avuto accesso in esclusiva. Un
team di ricercatori internazionali ha preso in esame 29 degli 87 progetti di protezione delle foreste attualmente certificati dalla Verra, giungendo alla conclusione che probabilmente più del 90 per cento di tutti i certificati emessi è privo di qualsiasi valore. Carta straccia.

Attraverso questi certificati sono finiti sul mercato dei crediti di emissione 89 milioni di tonnellate di anidride carbonica, l’equivalente delle emissioni annuali della Grecia e della Svizzera messe insieme. La vicenda coinvolge multinazionali di tutto il mondo, tra cui l’azienda petrolifera Shell, la Gucci, la Disney e la Boe­ing. Gli 89 milioni di tonnellate in questione provengono solo dai progetti esaminati dallo studio che abbiamo citato, che rappresentano appena un terzo di quelli certificati dalla Verra. Di conseguenza è molto probabile che i certificati fasulli siano molti di più.

Lo scandalo scoppia in un momento in cui siamo alla disperata ricerca di vie d’uscita dalla crisi climatica. Molte aziende stanno puntando sulla compensazione: solo la Shell ha in programma di comprare 120 milioni di certificati all’anno sul mercato volontario entro il 2030. I consumatori sono convinti di fare la loro parte comprando prodotti “a emissioni zero”, dalle stoviglie al vino e alle creme idratanti, ma in realtà spesso non è così.

Perché ogni volta che un’azienda si riscatta comprando un certificato che è solo carta straccia, in realtà non c’è stata nessuna compensazione. Anzi, a volte le emissioni delle aziende aumentano, perché il certificato è un permesso per inquinare più di prima. Per questo una falsa compensazione non è solo un’occasione mancata per proteggere il clima, ma può anche aggravare il problema.

Siamo arrivati a questo punto a causa di un sistema di conflitti di interesse, al centro del quale c’è la Verra.

Pagine di calcoli

Quando scopre la startup Pachama, Elias Ayrey sta facendo un dottorato all’università del Maine, sulla costa ovest degli Stati Uniti, e per la sua tesi sta misurando il contenuto di anidride carbonica dei boschi. È il 2019, Greta Thunberg sta diventando famosa in tutto il mondo e un numero crescente di aziende si interessa alle compensazioni volontarie. Il termine volontario fa pensare che lo facciano spontaneamente, per motivi etici. In realtà sono investitori e consumatori a pretendere una svolta, costringendo le aziende a porsi obiettivi climatici e a mostrarsi impegnate. Ma quali sono i progetti di tutela ambientale da sostenere, quelli utili e seri?

Masahiro Hiroike

Pachama fa affari proprio grazie a quest’incertezza. Riceve milioni di dollari da investitori come l’ex tennista Serena Williams o Bill Gates, il fondatore della Microsoft. E offre ad Ayrey un posto da responsabile scientifico.

Ayrey si trasferisce in California, “l’incubo di ogni ecologo”, come dice lui: un posto arido, sporco, saturo dei fumi degli incendi boschivi. Come ogni startup, Pachama è sotto pressione fin dall’inizio: ai suoi clienti, tra cui Netflix e Amazon, promette i migliori certificati di protezione delle foreste disponibili sul mercato. Ma se poi i suoi scienziati non riescono a trovare abbastanza certificati buoni? Ayrey ricorda discussioni accese e frequenti: sei proprio sicuro che questo non sia un buon progetto? Davvero non possiamo venderlo?

Secondo Ayrey, i progetti che lui bocciava erano quelli che dichiaravano risparmi di anidride carbonica decisamente superiori a quanto fosse realistico per il bosco in questione, o che nascondevano il fatto che alcune aree del bosco non erano affatto salvate ma distrutte. Solo che il suo datore di lavoro continuava a venderli, racconta Ayrey. Pachama non lo nega e risponde che su ogni progetto c’è una “sana discussione, che a volte va per le lunghe”. Dopo due anni e più o meno un centinaio di progetti esaminati, Ayrey si dimette: “Dovevo rendere pubblico quello che avevo scoperto”, spiega. Fonda un canale YouTube per far conoscere la situazione di cui è stato testimone. Uno dei video, caricato nell’estate 2022, s’intitola I progetti di compensazione dell’anidride carbonica: 21 modi di truffare! Finora è stato visto solo 1.334 volte.

Nel frattempo Ayrey ha fondato una sua startup, che si occupa anch’essa di valutare progetti e che poi rende pubblici i risultati. Se le rivelazioni di Ayrey non hanno raggiunto il grande pubblico è anche perché la questione è piuttosto complicata. Per stabilire quanta anidride carbonica assorba un’area boschiva bisogna fare calcoli impegnativi, riempiendo centinaia di pagine – tutte pubblicamente accessibili sui server della Verra. In poche parole, i problemi non sono nascosti, ma solo occultati all’interno di documenti che quasi nessuno è in grado di capire. Secondo alcuni esperti, uno dei motivi per cui finora il sistema è stato al riparo dalle critiche è questo meccanismo così efficace nel tenere fuori l’opinione pubblica.

Amici influenti

A prima vista non sembra complicato: un bosco intatto assorbe e immagazzina l’anidride carbonica presente nell’atmosfera, e ogni tonnellata di anidride carbonica che assorbe è una tonnellata di anidride carbonica che non va ad aggravare la crisi climatica. Di conseguenza, se rendiamo economicamente più vantaggioso proteggere i boschi anziché distruggerli, stiamo contribuendo a tutelare il clima. E come si fa a convincere le aziende a investire volontariamente nei boschi? Ecco che entra in scena l’idea della compensazione: chi paga riceve crediti per le emissioni che qualcun altro ha evitato.

Perché lo scambio funzioni, però, è necessario che i boschi rimangano al loro posto per decine e decine di anni. Se gli alberi sono abbattuti o distrutti da tempeste e incendi, infatti, l’anidride carbonica è rilasciata nell’atmosfera, annullando qualsiasi beneficio per il clima.

La tutela delle foreste, quindi, è un sistema rischioso per compensare le emissioni di anidride carbonica. Il sito d’inchiesta statunitense ProPublica l’ha chiamato “la carta di credito più permissiva del mondo”: all’acquirente è anticipata l’intera cifra, e per ripagarla ci vogliono secoli. Inoltre ogni progetto di compensazione deve dimostrare che se non fosse esistito sarebbe stata sicuramente emessa una certa quantità di anidride carbonica, cioè che la foresta sarebbe stata distrutta se i certificati non l’avessero salvata. E come si dimostra una cosa simile?

È per questa e altre questioni mai risolte che già nel protocollo di Kyoto del 1997 l’Onu aveva stabilito di non includere la protezione delle foreste nel meccanismo di scambio internazionale dei crediti di emissione che avrebbe permesso ai paesi industrializzati di compensare le proprie emissioni attraverso progetti in altri stati. Anche il Gold standard, un altro meccanismo lanciato nel 2003 dal Wwf e da altre ong, esclude categoricamente questo tipo di progetti, preferendo l’installazione di impianti fotovoltaici o l’afforestazione. Nonostante il dibattito su questi temi sia sempre acceso, su questo punto erano d’accordo in molti.

I responsabili dei progetti possono scegliere quale regolamento applicare, optando di volta in volta per quello più vantaggioso

Ma alcuni rappresentanti del mondo dell’economia la pensavano diversamente: nel 2006 hanno deciso di lanciare un proprio standard più flessibile e pragmatico, che nel giro di pochi anni avrebbe raggiunto una posizione dominante sul mercato volontario. Tra questi c’erano il Forum economico mondiale di Davos e il Climate group, che comprende politici e aziende di tutto il mondo come la Bp, la Starbucks e la Allianz. E inoltre il consiglio internazionale per l’economia Wbcsd, all’epoca copresieduto dall’amministratore delegato della Shell, e la Ieta, la più grande lobby sul mercato delle emissioni. Tutti insieme hanno fondato la Verra. E hanno anche deciso di includere la protezione delle foreste tra le forme di compensazione accettate.

Quindici anni dopo le aziende più importanti del mondo compensano le proprie emissioni finanziando la protezione delle foreste. E quelli della Verra sono ancora legati a doppio filo al mondo dell’industria: sul suo sito l’organizzazione scrive che nei suoi comitati consultivi siedono tre manager della Shell e altri del gigante farmaceutico Bayer, dell’azienda alimentare Danone e del leader del commercio online Amazon. L’ex program director della Verra è diventato manager della Shell.

Tentazione irresistibile

Nel nord del Perù l’aria è calda e pesante. Nella regione di San Martín, non lontano dalle pendici delle Ande, si estende fittissima la foresta pluviale. Con 182mila ettari e 7,5 milioni di crediti dal 2012, l’area protetta dell’Alto Mayo consente ad aziende come la Disney, la Gucci e la banca statunitense J. P. Morgan di compensare le loro emissioni. I responsabili del progetto – l’ong statunitense Conservation International e l’autorità peruviana per la protezione della natura – hanno incassato più di trenta milioni di dollari.

Uscito dalla sua capanna nella foresta, Norbil Becerra attraversa un giardino tropicale. Il vento soffia attraverso il fogliame che si staglia alto. Sono più di vent’anni che Becerra vive nella regione di San Martín, coltivando caffè e vaniglia. I responsabili del progetto dell’Alto Mayo gli hanno strappato una promessa: avrebbe smesso di fare legna nell’area protetta.

Becerra ha una piccola fattoria e non è certo un grande disboscatore: abbatteva un albero ogni tanto, per fare qualche soldo. Non ha mai minacciato l’esistenza di questo pezzettino di foresta pluviale.

Quando i responsabili del progetto sono arrivati nell’Alto Mayo, hanno assicurato che senza il loro intervento il bosco sarebbe stato distrutto. Poi hanno registrato il loro progetto sulla piattaforma Verra, presentando calcoli un po’ curiosi: secondo loro ogni anno il piano avrebbe evitato mezzo milione di tonnellate di anidride carbonica – una quantità pari a quella prodotta ogni anno dalle navi da crociera della Tui. Sono arrivati a questa cifra facendo una stima dell’area che Becerra e gli altri contadini avrebbero disboscato negli anni successivi.

Ogni progetto di tutela delle foreste si basa su congetture sul futuro, e la tentazione di falsificarle è sempre forte, visto che i certificati che si possono emettere dipendono dal disboscamento che si ipotizza di aver evitato. Più è cupa la prognosi, più soldi ci sono da guadagnare.

In teoria i responsabili dei progetti dovrebbero cercare aree paragonabili, che abbiano cioè molte caratteristiche in comune con le zone in cui vogliono intervenire, e stabilire quanto bosco vi sia andato distrutto in media negli ultimi anni. Questa cifra dovrebbe orientare le previsioni. I responsabili del progetto dell’Alto Mayo sostengono che senza di loro nei prossimi sessant’anni sarebbe andato distrutto il 60 per cento della foresta pluviale. La documentazione presentata mostra che queste cifre superano di quattro volte quelle dell’area considerata per il confronto, uno scostamento notevole che però rientra nei limiti consentiti. Nessuno ha avuto nulla da obiettare.

Del resto, il meccanismo di compensazione di anidride carbonica attraverso le foreste non prevede alcun controllo: i responsabili dei progetti seguono le regole della Verra per calcolare la quantità di anidride carbonica risparmiata, ma poi non consegnano i loro calcoli alla Verra affinché li controlli; li mandano a una società di revisione che però si limita a verificare il rispetto delle regole e non la loro validità.

Secondo Kyle Holland, un ecologo statunitense che ha contribuito a elaborare le principali norme della Verra, “abusare della flessibilità delle regole per gonfiare le previsioni è allettante”.

Siamo riusciti a trovare molte lacune nei regolamenti della Verra, i cui documenti contengono spesso dichiarazioni discutibili dei responsabili di progetto, calcoli curiosi e sotterfugi che evidenziano quanto possa essere arbitrario il numero di crediti messi in vendita.

Per esempio c’è il progetto Brazil nut, nel Perù sudorientale. Per fare le loro previsioni, i responsabili di progetto hanno scelto un’area di controllo che aveva poco in comune con il loro, dato che aveva subìto un massiccio disboscamento illegale a opera di minatori e boscaioli. I responsabili però hanno applicato quei dati al loro sito, creando uno scenario da incubo che ha fruttato loro milioni di dollari.

Poi c’è Kariba, uno dei maggiori progetti di compensazione del mondo, gestito dalla svizzera South Pole nello Zimbabwe. I suoi crediti sono stati comprati dalla Volkswagen, dalla Nespresso e dalla Ernst & Young e hanno permesso alla Gucci di azzerare il suo impatto ambientale. Il progetto si regge su una previsione eccezionale, secondo cui nel giro di trent’anni i contadini avrebbero completamente distrutto una foresta grande tre volte lo stato tedesco del Saarland, nonostante i dati satellitari mostrassero che fino a quel momento quella zona era stata disboscata relativamente poco.

Nel 2012 la South Pole dichiarava che il suo progetto avrebbe evitato l’emissione di 1,7 milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno. L’anno successivo i calcoli sono cambiati: il progetto ne avrebbe evitati 6,6 milioni di tonnellate. A essere cambiata non era la previsione in sé, ma il metodo di calcolo. Secondo la South Pole il nuovo metodo era stato adottato su richiesta della Verra, ma in media hanno emesso solo 3,6 milioni di crediti all’anno.

Più documenti si esaminano, più diventa chiaro: il problema sono le regole della Verra. Se c’è uno che le manipola a suo vantaggio, poi lo fanno tutti. Non sono le regole del gioco a determinare il funzionamento del mercato, ma il contrario. Senza regole, un bosco è solo un bosco. Grazie a esse diventa una macchina di certificati che arricchisce chi vende la presunta tutela ambientale a gruppi industriali desiderosi di ridurre il loro impatto climatico.

Ma com’è possibile che queste regole siano un tale colabrodo?

Nel 2007, quando la Verra è stata fondata, l’organizzazione ha invitato i cittadini a suggerire metodi di calcolo per i certificati legati ai progetti di protezione delle foreste. Non stupisce che i suggerimenti siano venuti soprattutto da chi aveva interesse a influenzare l’interpretazione delle regole: ong, responsabili di progetto e compratori. Nel corso degli anni sotto l’ombrello della Verra sono nati diversi regolamenti, piuttosto articolati, per la protezione delle foreste, ciascuno con il suo metodo di calcolo.

All’elaborazione di uno di questi regolamenti ha partecipato anche la Shell. Il regolamento, dal criptico nome Vm0004, si applica al più grande progetto di protezione delle foreste certificato dalla Verra, il Rimba raya, in Indonesia, da cui le case automobilistiche Audi e Volkswagen da sole hanno comprato 3,5 milioni di certificati e la Allianz quasi un milione.

Masahiro Hiroike

Ancora oggi i responsabili di progetto possono scegliere come meglio credono il regolamento che applicheranno, optando di volta in volta per quello che risulta più vantaggioso. Quello più usato è il Vm0007, secondo cui basta che il proprietario di un bosco abbia anche solo l’intenzione di abbatterlo per consentire di emettere certificati qualora decida di non farlo. Ma come si fa a essere sicuri che il proprietario in questione non stia bluffando, limitandosi a brandire minaccioso la motosega? Una volta introdotto il Vm0007, non ci è voluto molto perché emergessero le prime storture.

Nelle profondità della giungla peruviana c’era una volta lo Yacumama, un piccolo ecohotel raggiungibile solo via fiume. Dai documenti del progetto emerge che per molto tempo era andato tutto liscio, finché all’improvviso gli albergatori, colpiti da problemi economici, hanno capito che per salvare l’attività sarebbe stato indispensabile procedere a un “disboscamento in grande stile”. A quel punto, però, hanno sentito parlare dei certificati. I proprietari hanno scelto il regolamento Vm0007 e hanno sostenuto che, in assenza di un progetto di compensazione, per evitare la bancarotta “con tutta probabilità” avrebbero dovuto abbattere tutti gli alberi sul loro terreno, fin nelle profondità della giungla.

Allora, come oggi, all’hotel non arrivavano strade, ma solo un fiume tortuoso. Non sarebbe stato facile portare via tutta quella legna dal profondo della giungla. L’ecologo Elias Ayrey racconta che questo progetto lo ha sconvolto: disboscamento su scala industriale per mano di un albergatore? Ma chi ci crede? Alle nostre domande l’ex proprietario peruviano risponde con una storia un po’ diversa: senza il progetto sarebbe stato costretto a vendere il terreno, che a quel punto sarebbe stato disboscato. Una storia come questa basta per produrre più di ottantamila certificati?

Carta straccia

È una cupa giornata d’autunno ad Amsterdam. Nella torre di vetro della Vrije universiteit il professor Thales West ci guida lungo un corridoio. È uno dei pochi scienziati al mondo che studiano la questione delle foreste sul mercato volontario dei crediti di emissione, ed era a capo del gruppo di ricerca che recentemente ha analizzato 29 degli 87 progetti della Verra per la protezione delle foreste. West ha scelto i progetti secondo tre criteri: dovevano essere tutti situati ai tropici ma in paesi diversi, e dovevano essere disponibili dati sufficienti su ciascuno. La domanda era: le previsioni dei responsabili sono corrette?

West ha sviluppato un algoritmo che in base a tredici criteri sceglie automaticamente le zone tra loro più simili nel paese in cui si svolge il progetto preso in considerazione, simulando un’area di controllo. Così ha scoperto che quasi da nessuna parte si sarebbero realizzati gli scenari apocalittici delineati. Questo significa che l’anidride carbonica effettivamente evitata da quei progetti è molto inferiore a quanto non sostenessero i responsabili. Solo in un caso le stime si sono rivelate inferiori alla realtà.

Abbiamo individuato il numero di crediti che secondo la Verra erano finiti sul mercato grazie a questi progetti e poi l’abbiamo confrontato con il risultato indicato da West. Le differenze sono tali che il 94 per cento di essi sembrerebbe privo di alcun valore, quindi circa 89 milioni di tonnellate di anidride carbonica in realtà non sarebbero mai state evitate.

West non è l’unico ricercatore a essere giunto a questa conclusione. All’università di Cambridge, nel Regno Unito, nel 2022 il gruppo di ricerca dello scienziato forestale Alejandro Guizar Coutiño ha analizzato quaranta dei progetti di protezione delle foreste della Verra con un algoritmo che, al contrario di quello di West, cercava aree di controllo di dimensioni molto piccole, trenta metri per trenta.

La Verra ha accolto i risultati della ricerca di Guizar Coutiño come una prova del proprio successo, perché attestano una riduzione del disboscamento pari al 47 per cento. Solo che, ad alzare la media sono stati soprattutto tre progetti, mentre negli altri casi la valutazione del rischio sembra essere stata decuplicata.

Non si tratta più solo delle aziende private. Ora la Verra sta pensando a un mercato molto più grande: quello degli stati

Abbiamo mostrato i risultati dei controlli incrociati a diversi scienziati, tra cui l’ecologo Yadvinder Malhi dell’università di Oxford. Malhi ha chiesto ai suoi studenti di ricontrollare il materiale, e dice che non hanno trovato errori. È chiaro che i progetti hanno “fortemente sopravvalutato” la loro efficacia contro il cambiamento climatico. Anche West e Guizar Coutiño riscontrano notevoli differenze tra i loro risultati e i numeri ufficiali forniti dalla Verra.

Un segreto di Pulcinella

Ovviamente quando valutano le previsioni dei progetti, anche West e Guizar Coutiño si basano su scenari ipotetici. E ovviamente le loro ricerche sono solo uno dei modi per valutare i progetti. Ma tutti quelli che hanno dato un’occhiata alle promesse – da Ayrey a Thales West e Guizar Coutiño – sono arrivati alla stessa conclusione: moltissimi dei progetti di tutela delle foreste certificati dalla Verra sono stati sistematicamente sopravvalutati. A suggerirlo non sono solo i dati degli scienziati, ma anche le parole di chi ha fatto fortuna grazie a questo sistema, da cui emerge che nel settore i problemi sono noti da anni.

C’è una frase che nel mercato dei crediti d’emissione si sente spesso: non buttiamo il bambino con l’acqua sporca. In altre parole, non lasciamo che qualche criticità ci spinga a mettere in discussione l’intero sistema. Grazie ai certificati, si dice, sono arrivate grandi somme per la conservazione delle foreste, cifre che nessun governo stanzierebbe mai. E questo è vero. Solo che i problemi rimangono.

Spesso dopo la frase sul bambino e l’acqua sporca si sentono parole di una sincerità sconcertante: ci sono esperti che parlano delle criticità del mercato come se fossero scontate, come se non ci fosse niente di strano e tutti lo sapessero da sempre. In questo settore per molti le anomalie sono diventate la norma. Gli esperti non volevano che le loro parole venissero citate. Almeno finora.

Nelle interviste per questo articolo molti di loro si sono espressi pubblicamente contro la Verra per la prima volta, ammettendo i problemi. E tra questi c’è anche chi ha contribuito a costruire il sistema. L’ecologo Lucio Pedroni, da anni consulente della Verra e autore di uno dei regolamenti principali, spiega che “purtroppo alcuni hanno abusato delle regole, in certi casi arrivando a formulare previsioni esagerate”.

Charlotte Streck, docente onoraria all’università di Potsdam, in Germania, ha fatto parte del consiglio d’amministrazione della Verra dal 2019 al 2021, e ha contribuito a elaborare il regolamento Vm0007, usato anche dall’ecohotel peruviano. Ci spiega che molto spesso le dichiarazioni delle aziende sul loro impegno per il clima non corrispondono a effettivi risparmi di anidride carbonica: è possibile distorcere i calcoli sulle emissioni che un bosco fa risparmiare, in modo che i progetti “ricevano più certificati del dovuto”. Se le aziende vogliono essere sicure che le loro dichiarazioni corrispondano al vero devono comprare un numero di certificati maggiore di quello che gli viene ufficialmente attribuito. Secondo Streck la responsabilità è della Verra: “Avrebbero potuto capirlo prima, ma nel sistema c’era troppo autocompiacimento”.

Streck ammette queste criticità, ma dalla documentazione fiscale risulta che negli ultimi anni la sua società di consulenza Climate Focus ha ricevuto un milione di dollari in diritti sul regolamento Vm0007, e secondo i nostri calcoli nel frattempo la cifra dovrebbe essere salita a due milioni. Quando gliene chiediamo conto, Streck risponde che attualmente cede buona parte dei suoi guadagni ad alcune ong, ma che ovviamente l’azienda ne ha ricavato anche dei profitti.

Anche Lambert Schneider del centro di ricerca Öko-Institut, che fa parte di un gruppo di consulenti della Verra, dice: “La Verra sa benissimo che alcuni certificati sono di dubbia qualità”. Secondo lui nel settore molte persone sono interessate a tenere in piedi una certa versione dei fatti. “Il motto è: ‘Se ammettiamo che tanti di questi certificati sono carta straccia, le aziende smetteranno di comprarli, e a guadagnarci non sarà certo il clima’”. Sarà vero? La Verra è al corrente degli abusi?

Molta confusione

Il corridoio spoglio al decimo piano del palazzo di Washington porta a una sede che è tale e quale a uno squallido ufficio pubblico tedesco. L’amministratore delegato della Verra, David Antonioli, ci riceve in una stanza modesta in cui ci sono solo un tavolo e qualche sedia. Antonioli amministra l’ong fin dalla sua fondazione e nel 2022 è riuscito a raddoppiare il suo fatturato, portandolo da venti a quaranta milioni di dollari.

Da sapere
Il mercato esplode
Crediti di emissione certificati dalla Verra, migliaia (fonte: Verra Registry)

L’addetto stampa è collegato in videoconferenza. Già prima dell’incontro, in evidente stato di agitazione, ci ha scritto un’email in cui raccomandava di attenerci sempre e solo alle dichiarazioni del capo, anche se avessero contraddetto quello che ci dice lui stesso. E così facciamo.

Il capo dice: “In un mondo perfetto noi non esisteremmo. I governi avrebbero sotto controllo la crisi climatica e le aziende non dovrebbero intervenire”.

Il capo dice che, quando sono stati introdotti, i regolamenti si attenevano alle migliori pratiche scientifiche. “Il che non significa che siano perfetti”. Da qualche mese l’organizzazione sta rielaborando i regolamenti in modo da unificarli. Il nuovo sistema sarà applicato ai progetti già esistenti entro il 2025. Quando gli chiediamo come ci si è arrivati, Antonioli dice: “Ammetto che l’esistenza di regolamenti molto diversi tra loro è un problema. Crea parecchia confusione”.

Dall’accusa di una sovrabbondanza di certificati Antonioli si difende così: “Sono venuti a dirci che questo o quel progetto è gonfiato. Ma se si guardano i dettagli si vede che non è così”. Su questo interviene anche l’addetto stampa: “Le regole valgono in generale e si sa che non funzionano bene in tutti i casi. A volte ne risultano stime eccessive, a volte troppo basse. Alla fine però si bilanciano”.

Allora è questo che la Verra promette alle aziende che comprano i suoi crediti? Che, anche se il loro certificato potrebbe non valere niente, quello di un altro cliente potrebbe valere più della cifra che riporta?

Né Antonioli né il suo addetto stampa sono in grado di dimostrarci che i progetti sovra e sottostimati alla fine si bilanciano. Durante la nostra conversazione, Antonioli e il suo addetto stampa dicono più volte di non escludere a priori che alcuni dei loro progetti di protezione delle foreste possano essere sovrastimati, ma alla fine dell’intervista il capo, a registratore ancora acceso, dice: “Non avete ottenuto quel che volevate, non abbiamo ammesso niente”.

Diverse settimane dopo facciamo avere alla Verra i risultati delle ricerche di West e Guizar. L’organizzazione respinge le cifre alle quali sono arrivati: è vero che i dati forniti sono utili, spiegano, ma le conclusioni sono sbagliate. I metodi degli scienziati non tengono conto dei fattori locali, e questo spiega le differenze nei numeri. I metodi della Verra garantirebbero che si tratta di calcoli prudenti.

Nel posto giusto

Per la Verra la posta in gioco è alta: è una questione di potere, soprattutto in prospettiva. Stando a quel che dice Axel Michaelowa, esperto di politica climatica internazionale all’università di Zurigo, in Svizzera, la Verra sta cercando di costruire un impero. Non si tratta più solo delle aziende private. Adesso pensa a un mercato molto più grande: quello degli stati.

Già in passato anche paesi industrializzati come Germania e Stati Uniti potevano comprare certificati per compensare le loro emissioni, ma dovevano provenire esclusivamente da progetti autorizzati dall’Onu. Il programma però sta per terminare.

Al suo posto l’accordo di Parigi del 2016 prevede che gli stati possano decidere in autonomia quali enti certificatori autorizzare. Di conseguenza un paese potrebbe decidere di ricorrere ai certificati della Verra, che secondo Michaelowa gode già di notevole influenza sui governi.

Ci sono due paesi che riconoscono ufficialmente i certificati dell’organizzazione. In Colombia già oggi le aziende possono conteggiare i certificati della Verra nei calcoli della carbon tax, mentre a Singapore potranno farlo dal 2024.

Se in futuro anche gli Stati Uniti, tra i maggiori inquinatori al mondo, dovessero puntare sui certificati della Verra, l’organizzazione diventerebbe di gran lunga più potente di quanto non sia già.

Quelli dell’interno 1050, nel loro ufficio poco appariscente a Washington, sono proprio nel posto giusto: a meno di un chilometro dalla Casa Bianca. ◆sk

Tin Fischer è un giornalista freelance tedesco. Hannah Knuth è una giornalista della Zeit, si occupa di economia.

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Questo articolo è uscito sul numero 1496 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati