La presenza dei taliban al vertice che si è tenuto a ottobre a Pechino per celebrare il decimo anniversario della Belt and road initiative (Bri o nuova via della seta), l’ambizioso progetto infrastrutturale della Cina, fa parte di una più ampia strategia regionale cinese. Si è trattato di uno dei pochissimi viaggi all’estero per i taliban da quando hanno preso il potere in Afghanistan nel 2021. Il ministro ad interim del commercio, Haji Nooruddin Azizi, ha detto addirittura che Kabul vorrebbe aderire alla Bri.
L’idea di un gruppo islamista che si allea con la Cina, un paese che si definisce laico e comunista, potrebbe oppure sorprendente. In realtà è una conseguenza logica dei timori di Pechino per la militanza islamista dentro e fuori i suoi confini. E fa parte del rafforzamento dei legami tra la Cina e tanti paesi musulmani avvenuto negli ultimi anni.
Per comprendere cosa spinga Pechino a rinsaldare i legami con Kabul basta esaminare la storia recente dell’Afghanistan. Dopo la fine della guerra seguita all’invasione dell’Unione Sovietica (1979-1989) e la caduta del governo di Kabul insediato da Mosca nel 1992, l’Afghanistan è diventato un covo del fondamentalismo islamico. Ha attirato militanti da tutto il mondo, dai separatisti ceceni in lotta contro la Russia di Boris Elcin al gruppo islamista filippino Abu Sayyaf. La Cina è stata un’importante sostenitrice dei mujahidin, il gruppo islamico che controllò il paese dal 1978 al 1992, a cui fornì armi e addestramento contro le truppe di Mosca, sua principale rivale comunista, e per rafforzare i legami con gli Stati Uniti.
Oggi la Cina non si preoccupa più tanto della Russia, perché ormai è un’alleata con Pechino nel ruolo del partner dominante. È stato però il sostegno dato ai mujahidin ad aver gettato le basi per le sfide attuali nel campo della sicurezza, dato che la Cina ha generato i suoi stessi problemi preparando vicino ai propri confini un terreno fertile per l’estremismo.
La minaccia della militanza islamista dall’altra parte del confine afgano ha creato enormi difficoltà a Pechino. Lo dimostra l’ondata di attentati condotti negli anni novanta e duemila dagli uiguri nello Xinjiang, nella Cina occidentale, culminati con l’attacco di Kunming, che nel 2014 provocò 31 morti e 141 feriti. Quegli attentati hanno portato alle discutibili politiche repressive di Pechino contro la minoranza musulmana nello Xinjiang. E hanno contribuito a rafforzare i suoi timori di una diffusione dell’estremismo dall’Afghanistan, che ne minaccerebbe gli interessi in Asia centrale e nelle regioni ai confini occidentali, cruciali per il successo della Bri.
La presenza dei taliban al vertice di Pechino può essere considerata un esempio di come la Cina speri di costruirsi un alleato per consolidare i suoi interessi politici ed economici. È inoltre una prova dei legami sempre più forti tra Pechino e il mondo islamico in generale.
Le critiche a Israele
La Cina ha fatto da mediatrice tra l’Iran e l’Arabia Saudita ed è stata coinvolta nell’accordo per l’ingresso di vari paesi islamici nel gruppo dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Più di recente ha schierato navi da guerra in un’esercitazione militare con l’Arabia Saudita.
Inoltre, poiché i paesi musulmani sono mercati importanti e una fonte cruciale di risorse naturali, Pechino cerca di proporsi come loro partner in un momento in cui il peso degli Stati Uniti nella regione sembra essersi indebolito. È in questo contesto che vanno inquadrate le recenti tensioni su Gaza dopo le critiche cinesi a Israele, un cambiamento notevole rispetto al linguaggio più cauto usato in passato.
Tra i primi successi dell’offensiva diplomatica di Pechino nel mondo islamico c’è per esempio il fatto che pochi paesi musulmani hanno sottoscritto la condanna delle politiche cinesi nello Xinjiang promossa dal Regno Unito. Il crescente peso cinese nei paesi islamici potrebbe essere un’ulteriore sfida per i governi occidentali. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1537 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati