Gonzalo Carrión scende dall’autobus, si avvia verso casa e sorride quando vede che la pioggia a San José sta rinfrescando le rose e i fiori che ha piantato nei vasi sistemati nel suo garage senza auto. Anche se dieci giorni fa ha subìto un intervento chirurgico per una complicazione dovuta al cancro, l’avvocato non ha smesso di muoversi né tanto meno di dedicarsi al giardinaggio. Vede la vita nelle rose e nei fiori. Ne parla come un apprendista botanico che si meraviglia di scoprire l’origine delle specie, ma forse, nel suo caso, quello che sta sperimentando è una pausa nella sua carriera di difensore dei diritti umani cominciata negli anni novanta. Per la prima volta da quando ricordi vede più vita che cadaveri, dolore e persecuzione politica.
“Sono in esilio: dopo aver provato lo sconvolgimento per la lontananza da casa, la separazione dalla famiglia e dagli amici, è arrivato il tumore. Ma è importante non perdersi d’animo, perché il cancro si nutre di persone stressate, depresse e malnutrite”, dice con gli occhi lucidi. Trova stimoli anche nella disgrazia. “T’immagini cosa sarebbe successo se avessi scoperto la malattia in Nicaragua, sotto la dittatura? Mamma mia! Mi sarebbe costata cara. Per fortuna è successo in Costa Rica”. Ride, e sul suo volto smagrito spunta un po’ di speranza. I medici costaricani gli hanno dato la diagnosi il 23 giugno 2023, lo stesso giorno in cui il Nicaragua celebra la festa del papà. Non è ancora guarito del tutto.
Carrión ha buone ragioni per temere il regime del dittatore Daniel Ortega e di sua moglie Rosario Murillo. È fuggito dal paese il 28 dicembre 2018, dopo che la polizia l’ha accusato di complicità nel massacro del quartiere Carlos Marx a Managua, in cui alcuni paramilitari sandinisti hanno bruciato vivi quattro adulti e due bambini.
Nel gennaio 2024 all’avvocato è stata tolta la cittadinanza nicaraguense. Poi gli è stata confiscata la casa a Managua e, quando aveva già cominciato le cure, ha ricevuto una minaccia di morte in Costa Rica, dopo un attentato al politico dell’opposizione Joao Maldonado a San José, la capitale costaricana.
Per lui l’idea di riposarsi è difficile da accettare. I colleghi del collettivo per i diritti umani Nicaragua nunca más gli hanno chiesto di concentrarsi sulla guarigione, perché dopo la prima operazione la sua salute è peggiorata. Lui ha accettato, ma fatica a staccare. S’interessa a quello che succede nel suo paese quanto alle medicine da prendere.
C’incontriamo alla fine di maggio, dieci giorni dopo che è uscito dalla sala operatoria. Prima dell’appuntamento gli dico che possiamo rimandare l’intervista, considerando la sua recente operazione. “No”, mi risponde. “Troviamoci in un posto dove posso arrivare in autobus”. Mi rifiuto di farlo spostare e vado io a casa sua. Pensavo di trovare un uomo convalescente, ma vedo lo stesso Carrión di sempre: loquace, affettuoso e cordiale. Appena arrivo mi offre una tazza di caffè nero, come faceva nel suo ufficio del Centro nicaraguense per i diritti umani (Cenidh) a Managua, quando era il direttore dell’organizzazione, in seguito chiusa dal regime.
Il primo cadavere
Per una persona iperattiva, abituata a “difendere i diritti lontano dalle scrivanie”, questa vita più distesa può essere noiosa, ma i collaboratori di Carrión l’hanno convinto a fermarsi per un po’. Combatte l’ansia leggendo, piantando fiori in garage e sostenendo l’ideale della difesa dei diritti umani, della vita e della dignità umana come ha sempre fatto, accusando “a volto scoperto i carnefici, gli assassini e i dittatori”. La sua convinzione l’ha sempre messo di fronte a molti cadaveri e al dolore degli altri, che è sempre stato anche il suo. Altrimenti, dice, non sarebbe in grado di spiegare il suo impegno.
René Carrión López è il nome del primo cadavere che Gonzalo Carrión ha visto. Aveva sei anni e la vittima era suo cugino. Si ricorda la data: 20 ottobre 1967. La guardia nazionale della dittatura di Somoza lo uccise perché era uno studente e uno dei primi militanti del Fronte sandinista. “Lo arrestarono e lo torturarono. Aveva una pallottola nella tempia. Quel giorno capii qualcosa della dittatura, ma non ne fui subito pienamente consapevole. Ricordo la veglia funebre”, racconta.
“La gente mi telefonava per dirmi: ‘Ci stanno sparando! Cosa facciamo?’”
Gonzalo Carrión è nato il 10 gennaio 1961 nella comunità di Las Gavetas, a San Felipe, nella città di León. È figlio di una famiglia numerosa. I suoi genitori ebbero una decina di figli, ma solo otto riuscirono a sopravvivere. Il padre e la madre di Gonzalo erano operai e il loro stipendio non bastava per assicurare “tre pasti al giorno”. L’infanzia dei Carrión è stata segnata dal lavoro. Mentre il futuro avvocato “imparava le prime lettere” da un libro che gli prestava un’anziana signora di León, lavorava al mercato comunale, squartando maiali insieme ai fratelli maggiori. La macellazione cominciava in piena notte, e quando il piccolo Gonzalo arrivava in classe la mattina si addormentava. “Rivendico gli insegnamenti dei miei genitori: vivere in modo dignitoso e onesto la povertà. Nonostante il lavoro, hanno sempre insistito perché non abbandonassimo la scuola”. Così è stato. Tutti i fratelli si sono diplomati, compreso Gonzalo che, da adolescente, ha lavorato come aiutante camionista, commesso, muratore e raccoglitore di cotone.
Il 21 settembre 1976 la famiglia Carrión decise di trasferirsi a Managua in cerca di migliori opportunità. Gonzalo aveva compiuto quindici anni e trovò una città piena di macerie per il terremoto del 1972. Alla fine degli anni settanta, quando il movimento insurrezionale sandinista era in ascesa, Gonzalo lavorava di giorno e studiava di notte. La sua famiglia trovò una casa migliore nella zona di Las Américas 4 e due dei suoi fratelli maggiori diventarono guerriglieri urbani del sandinismo. Gonzalo non è stato mai un combattente, anche se confessa di aver fatto un paio di barricate nel suo quartiere. Il movimento non riuscì a sconfiggere la guardia nazionale a Managua e si ritirò a Masaya. I suoi genitori decisero di tornare a León, dove il sandinismo avrebbe presto trionfato.
Il dolore degli altri
La dittatura di Somoza fu rovesciata nel 1979 e la rivoluzione sandinista organizzò subito delle giornate di alfabetizzazione. “È un ricordo indelebile, perché si mobilitarono migliaia di giovani. Non ero mai stato fuori casa così a lungo. Ho conosciuto le montagne, i nostri fiumi, il fiume Escondido, i contadini. È stata una causa nobile. Alcuni dicono che era tutto mosso da intenzioni politiche, ma durante l’alfabetizzazione nessuno ha mai cercato d’indottrinarmi, né ho imparato a essere comunista. Quello che importa è che i bambini contadini hanno imparato a leggere e alcuni sono arrivati fino alla laurea”, afferma Gonzalo. Non rinnega il suo passato e allo stesso tempo è critico nei confronti del decennio rivoluzionario.
Dopo la fine della campagna di alfabetizzazione, un gruppo di ragazzi che aveva partecipato fu integrato nella Gioventù sandinista con la carica onoraria di fondatori. Anche Gonzalo la ricevette, ma dice di non aver mai fondato nulla, che quella carica gli fu imposta. “Facevo parte della Gioventù sandinista, ero un dirigente di basso livello, ma non sono mai stato un criminale. Ho fatto il servizio militare e ne sono uscito indenne perché non ho ucciso nessuno. Appartengo a una generazione di sacrificati, perché molti miei coetanei sono morti”, riflette.
In quel momento ha cominciato a identificarsi con il dolore degli altri, a farlo proprio. Nel 1990 la rivoluzione sandinista perse il potere alle urne. “Quando siamo stati sconfitti ci sentivamo vicini alla rivoluzione, ma era comunque qualcosa di astratto. Ci parlavano di ‘potere del popolo’, ma quello che ho imparato davvero è stato identificarmi con la sofferenza altrui”, racconta. La sconfitta del sandinismo arrivò quando Gonzalo frequentava il terzo anno di giurisprudenza.
Nel 1992 Carrión ebbe il suo primo contatto con il Centro nicaraguense per i diritti umani (Cenidh). Arrivò come tirocinante, per tre mesi. Si laureò in giurisprudenza nel 1993. I dirigenti del Cenidh, che erano soddisfatti di come aveva lavorato, lo invitarono a restare. Lui accettò, ma ben presto lasciò l’organizzazione perché vinse una borsa di studio per un master in diritto pubblico presso la Pontificia università cattolica del Cile: “In quel periodo ho cominciato a prendere la vita più seriamente, a leggere e a studiare”.
Al rientro dal Cile, Carrión fu di nuovo assunto dal Cenidh. Nel 2005 è diventato il direttore giuridico dell’organizzazione e lo è rimasto fino al 2018, quando è andato in esilio. Da quando Daniel Ortega è tornato al potere, nel 2007, il Cenidh ha fatto da contrappeso al regime. Le sue sedi erano sempre piene di vittime di violazioni dei diritti umani. L’organizzazione era un punto di riferimento per i cittadini perché le istituzioni, come il sistema giudiziario, erano state asservite al sandinismo.
Senza sosta
Il Cenidh è stata la prima organizzazione a definire il governo di Ortega una dittatura. Ha criticato le violazioni della costituzione, la rielezione, i brogli elettorali, ma soprattutto ha applicato con fervore questa massima: “Un diritto non difeso è un diritto perso”. Negli anni duemila Carrión ha documentato i massacri di contadini, le torture nelle carceri e la repressione della polizia nicaraguense nelle zone delle miniere, e ha visto aumentare i cadaveri.
“Quando al Cenidh abbiamo cominciato a parlare di dittatura, un alto funzionario sandinista si è lamentato con me. Mi ha detto: ‘Ma quale dittatura? Dove sono i prigionieri politici, le persone scomparse e quelle uccise?’. Succedeva tutto nelle campagne: uccidevano, arrestavano arbitrariamente e torturavano le persone nella prigione del Chipote Viejo. Dal 2018 in poi questo modo di agire si è diffuso in tutto il paese”, dice.
Non so come ci riuscivano, ma Carrión e i suoi avvocati del Cenidh erano sempre i primi ad arrivare dove qualcuno denunciava una violazione dei diritti umani. Dopo lo scoppio delle proteste del 2018 il regime di Ortega ha avviato una repressione senza precedenti nel paese e il Cenidh è stato inondato di denunce come mai prima nella sua storia. L’organizzazione lavorava senza sosta e qualcuno ha diffuso il numero personale di Gonzalo sui social network. Il messaggio, diventato virale, diceva più o meno così: “Se vuoi denunciare una violazione dei diritti umani, scrivi un messaggio su WhatsApp a questo numero”.
Il cellulare di Nicaragua nunca más non ha smesso di suonare fino al dicembre 2018. “La gente mi telefonava addirittura per dirmi: ‘Ci stanno sparando, ci stanno sparando! Cosa facciamo?’. Le chiamate erano molte, soprattutto di notte e nelle prime ore del mattino, il momento in cui c’erano più aggressioni”, racconta.
La notte del 16 giugno 2018 l’avvocato è riuscito a dormire solo qualche ora. Era a letto con la moglie quando, prima dell’alba, il suo cellulare è stato inondato di telefonate. Tante persone gli hanno inoltrato un video: una donna che piangeva, urlando che la sua famiglia era stata bruciata viva dai paramilitari sandinisti. Lui ha subito convocato due avvocati, Braulio Abarca e Lulio Salvador Marenco, per fare un sopralluogo. È stato difficile raggiungere il quartiere Carlos Marx perché era una zona complicata, piena di barricate per proteggersi dagli attacchi della polizia e dei paramilitari.
“Al Cenidh non avevamo il dono dell’ubiquità, ma cercavamo di fare il possibile. Nel quartiere Carlos Marx, purtroppo, siamo arrivati quasi tre ore dopo. L’atmosfera era pesante, c’erano molti paramilitari. Ma siamo rimasti lo stesso a documentare la situazione. Il giorno dopo abbiamo partecipato al funerale per manifestare vicinanza alla famiglia e poi abbiamo seguito il loro caso”, ricorda.
Carrión ha continuato a lavorare per tutto il 2018, finché alla fine di quell’anno, alcuni mesi dopo il crimine nel quartiere Carlos Marx, la polizia ha tenuto una conferenza stampa per “chiarire” l’accaduto. Carrión è stato accusato di essere un complice dell’omicidio. In quel momento ha capito che doveva nascondersi. Ha passato alcuni giorni in una casa a Managua fino a quando non ha sentito pronunciare due parole: clandestinità ed esilio.
La destinazione dell’esilio era la Costa Rica, ma per motivi di sicurezza è dovuto fuggire passando dall’Honduras, attraverso un sentiero di montagna e una piantagione di caffè. Si era vestito da contadino per non destare sospetti al confine settentrionale. Poi ha preso un volo da Tegucigalpa a San José.
Lontano da casa
In Costa Rica è caduto in depressione. “Ero sconvolto, perché è vero, alcune persone hanno sicuramente sofferto più di me in esilio, ma siamo tutti uguali sotto un aspetto: siamo lontani dalla nostra casa, il Nicaragua. La dittatura ha attaccato il progetto di vita della maggioranza del popolo”, riflette Carrión.
È riuscito a superare la depressione grazie alla sua famiglia e ai libri, ma anche ai colleghi. Hanno deciso di fondare il collettivo per i diritti umani Nicaragua nunca más in esilio. Il regime non aveva decapitato solo il Cenidh, ma tutte le organizzazioni per i diritti umani del paese. Braulio Abarca, un giovane avvocato, racconta di non aver esitato a lanciarsi nella fondazione del collettivo e a riconoscere la leadership di Carrión. I due hanno passato insieme il capodanno del 2018 da esuli in Costa Rica.
Oggi Nicaragua nunca más è un punto di riferimento internazionale per la difesa dei diritti umani nel paese. Una difesa che a Carrión è costata la privazione della cittadinanza nicaraguense nel febbraio 2023 e la confisca della casa. “Quando una persona difende davvero i diritti umani, corre certi rischi. Bisogna avere empatia e identificarsi con la vittima, indipendentemente da chi sia”, dice, riassumendo la sua filosofia. “Non ho bisogno di chiederti a quale partito o a quale gruppo politico appartieni per difenderti. Ecco perché fin dal primo giorno ho difeso i diritti umani a volto scoperto”. La sua famiglia è preoccupata, ma Gonzalo assicura che sua moglie e le sue figlie sono dalla sua parte.
Il cancro è stato una doccia fredda per i colleghi e per la famiglia, che però si è fatta forza. Nel tempo libero è nato un club del libro. È in queste piccole cose che risiede la speranza di Carrión, la speranza di tornare in patria. “Le dittature non sono invincibili e sono convinto, per parafrasare a modo mio il cantautore Pablo Milanés, che calpesterò di nuovo le strade di quelle che sono state le nostre insanguinate città del Nicaragua, e mi fermerò a piangere nelle piazze per gli assenti. Può sembrare utopistico, ma spero in una vita in libertà”, conclude. ◆ fr
◆ 1961 Nasce nella città coloniale di León, in Nicaragua, figlio di una famiglia numerosa e povera.
◆ 1967 Suo cugino, uno studente del fronte sandinista, è ucciso dal regime di Somoza.
◆ 1992 Comincia a frequentare il Centro nicaraguense per i diritti umani (Cenidh), di cui diventerà direttore nel 2005.
◆ 2018 Dopo aver documentato le violazioni dei diritti umani del regime guidato da Daniel Ortega, è costretto all’esilio in Costa Rica.
◆ 2023 Viene operato per un tumore.
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Questo articolo è uscito sul numero 1577 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati