In un angolo dimenticato dell’Europa, tra l’Adriatico e le Alpi, c’è il meraviglioso monastero francescano di Castagnevizza che racchiude la singolare identità della capitale europea della cultura 2025. Da questo santuario in cima a una collina lo sguardo spazia in basso verso un agglomerato urbano: medievale da una parte e moderno dall’altra. Dall’alto non si direbbe mai che la città sia divisa tra due paesi: Gorizia, in Italia, e Nova Gorica, in Slovenia. Oggi si può attraversare il confine con estrema facilità, ma non è stato sempre così. Per mezzo secolo fu il confine tra l’Europa occidentale e la Jugoslavia comunista. La frontiera fortificata attraversava il cuore della città, tagliando Gorizia in due. Come si è arrivati a questa situazione? E perché oggi è tutto cambiato?
La regione intorno a Gorizia è sempre stata una terra rivendicata da più parti, uno strano e affascinante miscuglio di cultura romantica, germanica e slava. Fino al 1918 fu parte dell’impero austro-ungarico e diventò territorio italiano dopo la sconfitta dell’Austria nella prima guerra mondiale. Dal secondo conflitto mondiale uscì sconfitta l’Italia e il territorio fu prima invaso dai partigiani jugoslavi e poi occupato dalle forze alleate che avevano vinto la guerra.
Per molti anni nessuno capì cosa fare di Gorizia e del suo territorio, dove per secoli comunità slave e italiane avevano vissuto fianco a fianco. Per questo sia l’Italia sia la Jugoslavia volevano ottenerne il controllo, ma nel quadro postbellico di netta divisione tra comunisti, a est, e democratici, a ovest, i due paesi erano ideologicamente nemici e la convivenza non poteva più funzionare. Poi nel 1947 gli alleati trovarono un maldestro compromesso. Tracciarono un nuovo confine nel mezzo dell’area contestata, lasciando gran parte di Gorizia all’Italia e la maggior parte dei dintorni alla Jugoslavia. La barriera separò brutalmente le comunità. La soluzione non piaceva a nessuno, ma garantì in qualche modo la pace.
Dagli Asburgo al brutalismo
Il monastero di Castagnevizza diventò un potente simbolo di quella divisione. Finì per un soffio in Jugoslavia, ma quando nel 1991 ci furono le prime dichiarazioni d’indipendenza degli stati jugoslavi, si ritrovò in Slovenia. Poi quando la Slovenia è entrata nell’Unione europea e negli accordi di Schengen, quel confine è diventato irrilevante e l’Italia è tornata a essere raggiungibile in cinque minuti a piedi. Nell’ultimo secolo il monastero è stato un luogo sacro per scappare da quattro regimi: dagli Asburgo d’Austria, dall’Italia fascista, dalla Germania nazista e dalla Jugoslavia comunista. Non sorprende che l’Unione europea abbia scelto di nominare come capitali europee della cultura le due città insieme, Nova Gorica e Gorizia insieme a Chemnitz, in Germania. Nova Gorica-Gorizia è un luogo simbolo di riconciliazione.

La prima cosa che colpisce di Gorizia è il suo aspetto tranquillo e autentico. Non ci sono negozi di grandi catene, gli edifici moderni sono pochi e il traffico è scorrevole. Come molte città di confine l’atmosfera è enigmatica, potrebbe fare da sfondo per un giallo o un film noir. Il centro storico è artisticamente ricco e piccolo, si attraversa a piedi in mezz’ora. Non ci sono attrazioni particolari, ma si può ammirare la bellezza dell’architettura di un tempo, oltre agli echi dell’epoca asburgica: negozi con insegne sbiadite in tedesco e chiese mitteleuropee con le cupole a cipolla. Gorizia è una buona alternativa per chi è stufo delle grandi città piene di turisti, un luogo intrigante e suggestivo dove trascorrere qualche giorno.
Se Gorizia è una piacevole sorpresa, Nova Gorica è una delusione. La città è per lo più moderna, costruita dagli jugoslavi nel dopoguerra in quello stile fatto di cupi palazzoni brutalisti, molto diffuso nei paesi ex comunisti. Se si è interessati alla storia della guerra fredda può avere un certo valore, però non è troppo invitante se si vuole restarci a lungo.
Il buon vino
Ciò che rende speciale tutta la regione è il paesaggio collinare, oggi così pacifico. Un insieme di fattorie, campi e infiniti filari di viti. È difficile immaginare che sia stato uno dei campi di battaglia più sanguinosi della prima guerra mondiale. Il capolavoro di Ernest Hemingway Addio alle armi è ambientato qui ed è ispirato al suo servizio come conducente di ambulanza per la Croce rossa. Il romanzo riesce magistralmente a far rivivere quell’epoca e questi luoghi. Qui morirono centinaia di migliaia di giovani italiani e austriaci, ma restano solo alcuni memoriali di guerra.
Oltre che per un passato così triste e cupo, oggi queste dolci colline sono rinomate per alcuni dei migliori vini d’Italia, in particolare per un delicato bianco locale, il Collio. Qui gli inverni sono molto rigidi e il terreno calcareo non è ideale per le vigne, quindi le uve devono lottare per sopravvivere, ma questo non ne pregiudica la qualità.
Matej Fiegl, un enologo del posto, mi accompagna in una visita ai suoi vigneti. Le ferite del passato sono ancora ben presenti: “Le nostre famiglie erano divise e anche i terreni erano divisi. A Gorizia perfino il cimitero era diviso”. Il confine ora è quasi invisibile. Solo un cartello stradale avvisa del passaggio dall’Italia alla Slovenia. Accanto al principale valico di frontiera di Gorizia c’è un bel museo, anche se il mio luogo preferito resta il monastero. La principale attrazione è l’antica biblioteca, ma a catturare la mia immaginazione è stata la tetra cripta in cui riposa Carlo X, ultimo re di Francia. Dopo aver abdicato nel 1830 vagò per l’Europa, prima di arrivare a Gorizia dove morì di colera poco dopo.
Per un improbabile destino, l’ultimo dei Borboni finì in questo severo monastero, in una remota terra di confine poi rivendicata da Austria, Italia, Jugoslavia e Slovenia. Una storia tragica e di esilio che riassume lo strano fascino di Gorizia: campo di battaglia, luogo sperduto e oggi di nuovo crocevia. ◆ nv
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Questo articolo è uscito sul numero 1600 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati