Hernando Murcia era il tipo di pilota in grado di volare su rotte che nessun altro avrebbe affrontato. Lavorava per la Avianline charters, una delle compagnie di aerotaxi che trasportano passeggeri nella regione amazzonica della Colombia. La foresta è buia, fitta e spesso insidiosa. Non ci sono strade, tantomeno aeroporti commerciali, e i suoi fiumi sinuosi brulicano di animali predatori, tra cui piranha e anaconda. Nella regione si nascondono anche gruppi di guerriglieri e narcotrafficanti.
Il 1 maggio 2023 Murcia aveva accettato di pilotare un volo dalla città amazzonica meridionale di Araracuara a San José del Guaviare, un centro abitato collegato alla rete stradale colombiana. Avrebbe dovuto trasportare i rappresentanti della Yauto, un’azienda che facilita la compravendita di crediti di emissione tra i nativi e le multinazionali. Poco prima del decollo, però, alcuni agenti dell’esercito colombiano di stanza ad Araracuara l’avevano informato di un cambio di programma: doveva trasferire una famiglia indigena.
Mentre la famiglia si affrettava a raggiungere la parte posteriore dell’aereo, un Cessna blu e bianco, un capo nativo locale, Hermán Mendoza, era salito sulla scaletta anteriore per affiancare Murcia: aveva spiegato di essere lì per assicurarsi che i passeggeri arrivassero a destinazione sani e salvi. Murcia aveva aggiunto i nomi di tutti all’elenco dei passeggeri, aveva trasmesso via radio al controllo del traffico aereo colombiano le informazioni con il numero di targa del velivolo, HK2803, e poi, poco prima delle sette del mattino, era decollato.
Dopo circa trenta minuti di viaggio, mentre il Cessna stava per sorvolare il dipartimento colombiano di Caquetá, uno degli angoli più folti, umidi e remoti dell’Amazzonia, il motore ha avuto un’avaria. Murcia ha lanciato un segnale di emergenza via radio. Per atterrare aveva bisogno di una radura, ma è raro trovarne una in Amazzonia. La torre di controllo gli ha chiesto di confermare la sua posizione.
“Centosessantacinque chilometri da San José”, ha risposto Murcia. “Sto per schiantarmi in acqua”. Sono state le sue ultime parole trasmesse al controllo del traffico aereo. Pochi istanti dopo, il radar ha registrato una brusca virata a destra del Cessna. Poi, verso le 7.50, il velivolo è scomparso.
La notizia si è diffusa rapidamente. Alle 8.15 le autorità hanno captato un segnale di richiesta di soccorso dal trasmettitore di localizzazione di emergenza dell’aereo, un dispositivo che si attiva in caso d’incidente. Sembrava che il Cessna fosse da qualche parte in un’area di circa quattro chilometri quadrati, vicino alla comunità di Cachiporro, lungo il fiume Apaporis.
Spiriti maligni
In Colombia quando precipita un aereo, la responsabilità di trovarlo di solito è dell’autorità per l’aviazione civile, che invia squadre di recupero dell’esercito e dell’aeronautica. Ma a causa della natura selvaggia e sterminata e dei pericoli mortali dell’Amazzonia, almeno all’inizio le autorità hanno considerato troppo rischioso mandare qualcuno via terra. È stata coinvolta solo l’aviazione militare, che ha inviato degli aerei di ricognizione sopra la foresta, vicino a Cachiporro, nella speranza d’individuare i resti del velivolo o eventuali sopravvissuti.
Nel frattempo Freddy Ladino, il fondatore della Avianline charters, ha spedito diversi aerei a cercare il Cessna. Ma né la compagnia né l’aeronautica hanno avvistato tracce dell’incidente, come detriti, fumo o squarci evidenti nella chioma della foresta pluviale.
Alle 10.30 del mattino l’incidente era già nei titoli di tutti i notiziari. Il cambiamento dell’ultimo minuto nell’elenco passeggeri dell’HK2803 aveva attirato l’attenzione dei mezzi d’informazione. La famiglia nativa sul volo era composta da Magdalena Mucutuy Valencia, 34 anni, e i suoi quattro figli piccoli: Lesly di 13 anni, Soleiny di nove, Cristin di undici mesi e l’unico maschio, Tien, di quattro anni. A poche ore dalla scomparsa del Cessna, la sorte di Magdalena e dei suoi figli era diventata un’ossessione nazionale. Nelle settimane successive ci sarebbero stati innumerevoli servizi giornalistici, accuse e speranze deluse. Sarebbero passati quaranta giorni prima di avere delle risposte.
La giungla voleva dire casa per Magdalena, che apparteneva al popolo nativo witoto – a volte si scrive huitoto o uitoto – ed era la terza di dieci fratelli nati da Fátima Valencia e Narciso Mucutuy. La famiglia viveva poco distante da Araracuara, un luogo così remoto che l’elettricità si ricava da generatori a benzina o pannelli solari e il servizio di telefonia mobile è disponibile solo sulla piccola pista di atterraggio. I cartelli della cocaina attivi nelle vicinanze a volte reclutano con la forza i bambini del posto per la produzione di droga. Si sospetta che un gruppo di ribelli che si fa chiamare Fronte Carolina Ramírez sfrutti Araracuara come scalo per spedire la droga diretta in Brasile.
Valencia, la madre di Magdalena, è un’anziana del villaggio e ha trasmesso ai figli una venerazione profonda per la foresta. Secondo i witoto in Amazzonia tutto, dai fiumi alle piante agli animali, è permeato da uno spirito potente. Alcuni spiriti sono buoni, altri maligni. Quest’ultima categoria comprende i duende, che si annidano nell’ombra della giungla e cercano di spingere i bambini a smarrirsi.
“Ti rubano la voce”, dice Valencia, “e non puoi più gridare”. I witoto entrano in comunione con gli spiriti della foresta attraverso rituali e cerimonie sciamaniche.
Nel 2005 Magdalena si era innamorata di Andrés Jacobombaire e nel 2010 avevano avuto una figlia, Lesly, che ha ereditato i capelli castani e gli occhi marroni della madre. Lesly si è subito dimostrata un’atleta dotata e brava nella pesca. Il nonno paterno, un capo nativo, le ha insegnato a cacciare le scimmie. La bambina studiava per ore il canto degli uccelli e i nomi degli alberi e dei frutti. “Sapeva come cavarsela nella giungla”, ha detto Jacobombaire. “L’abbiamo preparata fin da piccola”.
Per dodici anni Magdalena e Jacobombaire avevano vissuto una bella relazione e nel 2014 avevano avuto un’altra figlia, Soleiny. Ma all’inizio del 2017 Magdalena se n’era andata con Lesly e Soleiny e aveva trovato lavoro in una miniera illegale ad Araracuara, dove aveva incontrato Manuel Ranoque, un uomo tarchiato di 26 anni che non aveva una buona reputazione: era considerato un prepotente che beveva troppo. Ma Magdalena si era innamorata, e i due erano andati a vivere nella riserva indigena di Puerto Sábalo, a casa di Ranoque. Lì sono nati Tien e Cristin. Nell’aprile del 2023 Ranoque aveva lasciato la riserva all’improvviso, dicendo di aver ricevuto minacce di morte dal Fronte Carolina Ramírez. Da Bogotá aveva contattato Magdalena chiedendole di raggiungerlo con i bambini perché anche loro erano in pericolo.
I genitori di Magdalena le avevano ordinato di non andare: non si fidavano di Ranoque. Così, senza avvertirli, Magdalena aveva raccolto le sue cose e i figli, e si era spostata in una casetta vicino alla pista di atterraggio di Araracuara. Ogni giorno implorava i soldati colombiani di farla salire su un volo. Alla fine i militari avevano accettato di assicurare alla famiglia un posto a bordo di un aereo in partenza per San José del Guaviare, dove sarebbero stati accolti da Ranoque e insieme avrebbero viaggiato su strada fino alla capitale.
Il 1 maggio, dopo essersi sistemata sul Cessna, Magdalena aveva mandato un messaggio a Ranoque: “Stiamo partendo”. Mentre scriveva, cullava Cristin.
I genitori di Magdalena sono rimasti scioccati quando hanno saputo che la figlia e i nipoti erano sull’aereo precipitato. Quanto a Ranoque, appena ha avuto la notizia dello schianto del Cessna, ha fatto i bagagli ed è andato a Cachiporro. Voleva addentrarsi nella giungla per trovare la sua famiglia, viva o morta.
Non era il solo: altri familiari e amici dei passeggeri dispersi erano ansiosi di cercarli. Ad Araracuara la sorella di Hermán Mendoza e uno dei suoi cugini hanno cominciato a raccogliere volontari per formare una squadra di ricerca. Nel frattempo la Avianline ha organizzato due ricerche a terra, ma un gruppo si è subito perso. Ha acceso un fuoco per avvisare gli aerei della posizione e alla fine si è imbattuto nella casa di un certo Dumar. L’uomo non ha voluto dire il nome completo ai volontari perché gestiva un’operazione clandestina di cocaina.
La casa di Dumar, una capanna di legno con un tetto di lamiera ondulata, è diventata una specie di quartier generale informale per le squadre di ricerca guidate dai civili. Sono arrivati Ranoque, Edwin Paky, un altro cugino di Mendoza, e i volontari di Araracuara. I vari soccorritori hanno accettato di lavorare insieme e Dumar ha raccontato che la mattina dell’incidente aveva visto l’aereo volare sopra la sua capanna: era diretto verso est a un’altitudine che sembrava di poche centinaia di metri. Il giorno dopo, mentre i primi raggi di sole illuminavano la giungla, Ranoque, Paky e altri volontari nativi hanno tracciato con i machete un sentiero in mezzo alla vegetazione nella direzione indicata da Dumar.
Il messaggio registrato
Anche l’esercito ha organizzato una missione di terra. La guidava Pedro Sánchez, il capo del comando congiunto per le operazioni speciali della Colombia (Ccoes), un gruppo di soldati altamente addestrati coinvolti negli interventi più pericolosi e delicati. Sánchez si è messo al lavoro per elaborare un piano di ricerca. L’aviazione aveva individuato un pennacchio di fumo vicino a Cachiporro. Immaginando che venisse da un fuoco acceso dai sopravvissuti, i piloti hanno lanciato sacchi di generi alimentari nelle vicinanze. Usando questa posizione come punto di partenza, Sánchez e la sua squadra hanno tracciato un’area di ricerca di circa quattro chilometri quadrati. Solo più tardi il Ccoes ha saputo che il fuoco era stato acceso dalla squadra di ricerca dell’Avianline.
Un lavoro minuzioso
La mattina del 6 maggio, cinque giorni dopo l’incidente, due unità speciali, Dragon4 e Destructor1, si sono calate nella giungla nella porzione settentrionale dell’area di ricerca. Un terzo gruppo, Ares3, è stato spedito sulle rive dell’Apaporis. Erano accompagnati da un cane da ricerca e soccorso, un cane da pastore belga di nome Wilson. Quadrante per quadrante, i soldati del Ccoes hanno svolto il loro minuzioso lavoro dalle sei del mattino fino al tramonto. La notte in Amazzonia significa buio totale: basta fare un passo falso per perdersi, forse per sempre. Ogni uomo doveva camminare fino a quasi dieci chilometri al giorno sotto una pioggia praticamente incessante. Se c’erano guerriglieri nascosti nelle vicinanze, i soldati comunicavano a gesti.
I familiari dei passeggeri scomparsi hanno fatto pressione su Sánchez affinché includesse nelle operazioni anche i nativi. “Sappiamo come muoverci nella giungla e comprendiamo gli spiriti di ciascun territorio”, ha detto Valencia, la madre di Magdalena.
Ma Sánchez non era convinto: temeva che ai nativi mancasse un addestramento militare e che potessero disobbedire agli ordini. La sfiducia comunque era reciproca. In passato gran parte della violenza tra l’esercito e i gruppi armati in Colombia è avvenuta nelle aree povere e rurali, dove le popolazioni indigene sono state colpite in modo spropositato e molte persone sono state costrette a lasciare le loro case.
Dopo nove giorni e centinaia di chilometri di cammino l’unica cosa che il
Ccoes aveva trovato era un campo abbandonato dai guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc). Il capitano Ender Montiel, leader del gruppo Dragon4, si chiedeva se l’HK2803 fosse affondato nel fiume. “Ogni giorno ci facevamo tante domande”, ha raccontato Montiel. La mattina presto del 15 maggio il gruppo Dragon4 stava perlustrando l’ultimo quadrante quando il sergente Wilmar Miranda, vice di Montiel, ha notato qualcosa di rosa tra il fogliame. Era un biberon. I soldati hanno scattato una foto e l’hanno inviata a Sánchez, che l’ha inoltrata a Valencia. La donna l’ha riconosciuto subito: era di Cristin. Qualche ora dopo Miranda ha notato un frutto selvatico con tracce fresche di morsi umani. “Ho provato pura gioia”, ha detto. “Erano segni di vita”. Si è guardato intorno alla ricerca di indizi, di impronte sul terreno e quindi di eventuali piste da seguire. Ma la pioggia aveva cancellato tutto.
Molti chilometri a sud rispetto a dove operava il Ccoes, i soccorritori civili non stavano avendo fortuna. Edwin Paky, ormai il leader non ufficiale dei volontari nativi, era sempre più preoccupato. Si era fatto male a una gamba e il gruppo era a corto di provviste.
Poi, il pomeriggio del 15 maggio, uno dei cercatori ha avvistato qualcosa di blu in mezzo agli alberi: era l’aereo. Era piantato in verticale, con il muso all’ingiù. La fusoliera rotta del Cessna spuntava fuori da terra come un’asta di bandiera e l’elica si era spezzata. Paky ha notato che le chiome degli alberi, quarantacinque metri sopra il relitto, erano praticamente intatte. Non c’era da stupirsi che i mezzi dell’aeronautica non avessero individuato il luogo dell’incidente.
Avvicinandosi al relitto Paky ha sentito una fitta allo stomaco. “Ho pensato che nessuno avrebbe potuto sopravvivere a un simile incidente”, ha detto. Ha annotato le coordinate del luogo ed è andato a cercare aiuto. Poco dopo ha incontrato alcuni soldati del Ccoes. Hanno comunicato via radio la scoperta a Sánchez, che ha ordinato agli uomini del Dragon4 guidati da Montiel di raggiungere il Cessna. La mattina dopo, durante il tragitto, la squadra di Montiel si è imbattuta in un bivacco rudimentale fatto di foglie tagliate da poco con un paio di forbici che erano per terra, là vicino. Una volta raggiunto il luogo dell’impatto, Montiel e i suoi uomini hanno sollevato il Cessna con un verricello e hanno trovato tre corpi. Montiel ha identificato Magdalena per i capelli lunghi e la forma del corpo, e ha riconosciuto Murcia per la giacca da pilota. Mendoza era nel muso schiacciato dell’aereo.
Gli uomini hanno notato che la porta della cabina era aperta e che borse, vestiti e pannolini erano sparsi a terra. A quel punto Montiel si è reso conto che tutti i bambini potevano essere sopravvissuti.
Quando Ranoque è arrivato sul posto è scoppiato a piangere. “Ho pensato che quell’incidente fosse colpa mia”, ha detto. Era anche convinto che i bambini fossero vivi. Ma potevano essere rimasti feriti nello schianto e, se avevano lesioni, un’infezione poteva essere fatale. Inoltre c’erano molti altri pericoli.
Appena ha saputo che i suoi nipoti potevano essere sopravvissuti all’incidente, Valencia ha pensato a tutte le cose che avrebbero potuto ferirli o ucciderli nei giorni successivi: giaguari, serpenti e duende. “La giungla non ci appartiene”, ha detto.
Secondo Sánchez, se i bambini erano vivi gli restavano tre giorni, forse quattro. Era il momento di pianificare una nuova strategia di ricerca e salvataggio. L’esercito l’ha chiamata Operazione speranza. Sono stati portati nell’area di ricerca altre truppe e altri cani. Gli aerei volavano a bassa quota, lasciando cadere generi alimentari, accendini e migliaia di volantini con consigli di sopravvivenza. I piloti scrutavano il paesaggio con il binocolo, alla ricerca di segni di vita.
Secondo Sánchez probabilmente i bambini avevano sentito o perfino visto i suoi soldati, ma quelle persone armate li spaventavano così tanto che si nascondevano. Ha suggerito a qualcuno della famiglia di registrare un messaggio per avvertirli che potevano uscire allo scoperto. Valencia ha registrato un messaggio sul telefono. I militari hanno collegato un altoparlante a un elicottero e hanno sorvolato la giungla trasmettendo il messaggio.
“Vi prego, state tranquilli”, la voce di Valencia rimbombava tra gli alberi. “L’esercito vi sta cercando”.
Il 17 maggio due soldati del gruppo Destructor1 hanno avvistato alcuni uomini nella giungla. I soldati hanno preparato le armi: se fossero stati guerriglieri o trafficanti di droga, era possibile uno scontro. Invece erano i soccorritori indigeni di Araracuara, tra cui Ranoque.
Rubio era certo che il rituale avesse funzionato e ha detto ai ricercatori rimasti che avrebbero trovato i bambini quello stesso giorno
Proprio Ranoque ha chiesto di poter usare il telefono satellitare dei soldati e ha chiamato un veggente. Se dalla sua posizione si fosse diretto a ovest per 245 metri, gli ha detto il veggente, avrebbe trovato un sentiero che lo avrebbe condotto ai bambini. Il capitano Juan Felipe Montoya, al comando di Destructor1, era scettico ma, mentre Ranoque e i volontari nativi si allontanavano dall’accampamento militare, ha deciso che non era una cattiva idea inviare anche alcuni dei suoi uomini. Poco dopo il gruppo è tornato con una notizia: avevano trovato delle impronte.
Montoya ha deciso di continuare a lavorare con i nativi. Poi c’è stato un altro sviluppo: anche la squadra di Montiel aveva trovato delle impronte. Fresche. I bambini dovevano essere vicini.
Il 17 maggio, tuttavia, sono arrivate anche delle brutte notizie. Quella sera Wilson, il pastore belga che accompagnava i soldati del gruppo Ares3, si era strappato il collare ed era scappato nella foresta. È stato dichiarato disperso e tutte le unità hanno ricevuto l’ordine di cercarlo. Nel frattempo l’istituto di assistenza familiare, l’agenzia colombiana per la tutela dell’infanzia, aveva rilasciato una dichiarazione sul social network X, in cui annunciava di aver ricevuto informazioni che “confermavano il ritrovamento” dei bambini. Il presidente Gustavo Petro ha scritto in un tweet che i bambini erano stati salvati, parlando di “una gioia per il paese”. Non era vero niente. Non è chiaro da dove siano partite le voci. Petro ha cancellato il tweet in giornata, ma l’annuncio del ritrovamento aveva attirato l’attenzione dei mezzi d’informazione di tutto il mondo.
Collaborazione più stretta
Sánchez era frustrato. Numerosi segnali indicavano che i bambini erano vivi, ma i suoi uomini non li avevano ancora trovati. Il 19 maggio ha preparato altre squadre e dato nuove disposizioni per la ricerca: ogni soldato avrebbe dovuto coprire molti più chilometri al giorno.
Sánchez si è perfino domandato se potessero servire le usanze indigene. Valencia stava dicendo ai giornalisti che era stato un duende a catturare i bambini, così Sánchez ha consultato una donna nativa e le ha chiesto cosa si potesse fare in quel caso. La donna gli ha dato le istruzioni per un rituale che prevedeva l’uso di bottiglie di alcolici disposte lungo il fiume durante la notte. Sánchez ha inviato l’ordine a Montiel.
“Sono cattolico, non credo in queste cose”, ha detto Montiel. Tuttavia ha fatto come gli era stato ordinato. Il rituale non ha dato risultati, ma ha segnato l’inizio di una collaborazione più stretta tra l’esercito e i soccorritori indigeni. Nella squadra di Montoya all’inizio i soldati dormivano con le armi vicine, perché temevano che Ranoque e gli altri civili che si erano uniti al loro campo li aggredissero. Ma presto hanno imparato qualcosa dalle loro controparti: per esempio, come bere l’acqua dalle radici degli alberi e costruire ripari di fortuna con le foglie di palma. La capacità dei nativi d’individuare quello che era fuori posto nella foresta – tracce umane o resti di confezioni di cibo – era sorprendente. Masticavano mambé, foglie di coca polverizzate, per affinare la mente e ricaricare l’energia. Anche alcuni soldati hanno cominciato a fare lo stesso.
Il 21 maggio Sánchez ha ricevuto la visita di Giovani Yule, una figura indigena rispettata in tutto il paese. I due si sono abbracciati e Yule ha detto che di certo era la prima volta nella storia che un leader nativo abbracciava un generale colombiano. Il presidente Petro gli aveva chiesto aiuto per radunare altri volontari per le ricerche e Yule aveva convocato i rappresentanti di varie comunità: i nukak, i siona, i nasa e i witoto. Sánchez aveva inviato un aereo militare per prelevare i nuovi volontari e portarli nella zona di ricerca.
Una delle nuove reclute era Eliecer Muñoz, un agricoltore di 49 anni e componente della guardia indigena, una rete di volontari che protegge il territorio dalla violenza e dalla distruzione ambientale. Anche José Rubio, uno sciamano di 55 anni, si è unito alla ricerca. Alto, affascinante e dal piglio deciso, Rubio viene consultato quando i nativi si perdono nella giungla.
Il 24 maggio erano in tutto 92 i volontari indigeni che si erano uniti ai 113 soldati assegnati alla missione di ricerca. Sánchez li ha divisi in una decina di unità miste, poi ha ordinato ad alcuni soldati di lasciare che i volontari conducessero le ricerche seguendo i propri rituali.
Muñoz e Rubio sono stati entrambi affiancati agli uomini di Montoya nel gruppo Destructor1. Muñoz ha raggiunto il luogo dell’incidente e ha bruciato erba dolce, cedro e salvia per assicurare alla madre Terra che i volontari reclamavano solo quello che gli apparteneva di diritto. Ha chiesto anche un meteo più favorevole, per facilitare le ricerche. Nei tre giorni successivi non è piovuto, il cielo è stato di un azzurro intenso.
Rubio ha consumato mambé e ambil, una densa pasta di tabacco usata nella medicina indigena, sperando che lo aiutasse a entrare in contatto con gli spiriti della giungla. “Ho chiesto se era possibile cercare i bambini, spiegandogli che erano la mia famiglia”, ha raccontato. Presto Rubio è arrivato alla stessa conclusione di Valencia: i bambini erano prigionieri di un duende.
Nei giorni successivi gli uomini hanno scoperto nuovi indizi: pannolini, un paio di scarpe da corsa, altre impronte. Ma i bambini non si trovavano. Il 26 maggio, il giorno in cui Cristin compiva un anno, le squadre di ricerca le hanno cantato buon compleanno, ovunque fosse.
La mattina presto del 15 maggio il sergente Wilmar Miranda ha notato qualcosa di rosa tra il fogliame. Era un biberon
Maggio è diventato giugno. I bambini erano scomparsi da un mese. Molti volontari indigeni erano feriti o gravemente malati e alcuni avevano abbandonato le ricerche. Nella squadra di Sánchez molti avevano ormai percorso più di mille chilometri a piedi ed erano esausti.
Il 4 giugno Montoya e i suoi uomini si stavano preparando a una pausa di otto giorni. Pochi istanti prima di salire su un elicottero, Rubio ha chiesto di procurargli dello yagé, un potente infuso psicoattivo noto come ayahuasca. Secondo i witoto, il suo consumo permette di connettersi a un’antica saggezza in grado di risolvere problemi complessi. Rubio credeva che fosse l’unico modo per liberare i bambini dal duende.
Era una richiesta insolita. “Ma in questa missione”, ha detto Montoya, “tutto era possibile”. Così ha accettato di far consegnare lo yagé ai soccorritori.
Il 9 giugno Rubio ha bevuto l’infuso e ha avuto un’allucinazione di circa quarantacinque minuti. Nelle sue visioni ha incontrato i bambini e il duende che era con loro. Ha detto allo spirito che era lì per prendere i bambini, e quello ha accettato di restituirli, a patto che venisse lanciato un incantesimo sui soccorritori. Mentre Rubio smaltiva l’allucinazione, molti volontari nativi hanno raccontato di aver provato sintomi influenzali, tra cui dolori e febbre alta. Rubio era certo che il rituale avesse funzionato e ha riferito agli uomini rimasti che avrebbero trovato i bambini quel giorno stesso.
All’alba Muñoz si è messo in cammino con rinnovata convinzione. A lui si sono uniti altri tre volontari: Dairo Kumariteke, Edwin Manchola e Nicolás Ordóñez. Gli uomini hanno cercato tutto il giorno. Stavano per tornare indietro al tramonto, ma si sono fidati delle parole di Rubio. Dieci minuti dopo hanno raggiunto una radura e Kumariteke ha sentito qualcosa nelle vicinanze. Si è fermato e ha detto al gruppo di restare immobile. Pochi secondi dopo l’ha sentito di nuovo: il flebile ma inconfondibile pianto di un bambino. Esattamente a quaranta giorni dall’incidente aereo il primo a vedere i bambini è stato Ordóñez. È corso verso Lesly e Soleiny, gridando che lui e gli altri volontari conoscevano la loro famiglia. Quando gli uomini sono riusciti finalmente a radunare le ragazze, una di loro stringeva Cristin. “Dov’è il tuo fratellino?”, ha chiesto Muñoz. Lesly ha indicato un rifugio di fortuna lì vicino. Tien era sdraiato a terra, troppo debole per stare in piedi.
“Mia madre è morta”, ha detto piangendo.
Detriti ovunque
I bambini erano terribilmente magri e coperti di graffi e punture d’insetti. Singhiozzavano e cercavano di scappare. “Siamo di famiglia. Siamo stati mandati da vostro padre, da vostra nonna”, ha detto Ordóñez. Alla fine Lesly l’ha abbracciato. Lui l’ha stretta forte e le ha detto di non avere paura.
Stava scendendo rapidamente la notte e ci sarebbero volute alcune ore per tornare al campo. Ogni uomo si è messo un bambino sulle spalle e ha cominciato a marciare il più velocemente possibile attraverso la giungla. Muñoz ha trovato riserve di energia che non sapeva di avere. “L’emozione era così forte che mi sono completamente dimenticato di tutto il resto”, ha detto.
Alla fine il gruppo è arrivato a destinazione. “Ho trovato i bambini!”, ha gridato Muñoz.
Yeison Bonilla, un sergente militare, l’ha sentito e le sue truppe si sono affrettate ad avvolgere i piccoli in coperte termiche e a controllarli con cura. Bonilla ha pensato che da soli non sarebbero sopravvissuti un altro giorno. Qualcuno delle squadre di ricerca ha scattato delle foto per inviarle ai superiori e un volontario è corso a cercare Ranoque, che si è precipitato dai bambini. “Ho sentito che la vita mi stava dando una seconda possibilità di vedere i miei figli vivi”, ha detto. Temeva che fossero troppo fragili per essere toccati, così si è seduto accanto a loro mentre Rubio soffiava del fumo di tabacco per purificarli dagli spiriti della foresta che ancora aleggiavano.
Nel frattempo Bonilla ha afferrato la radio e ha ripetuto la parola in codice che segnalava il successo dell’operazione, quella che tutti aspettavano da tempo di sentire: “Miracolo, miracolo, miracolo”.
Sánchez ha pianto ascoltando le parole di Bonilla. Ha controllato le coordinate del luogo del ritrovamento: circa cinque chilometri dal punto dell’incidente. Le squadre di soccorso erano quasi certamente passate a pochi metri da loro, forse più di una volta.
Alle otto di sera del 9 giugno un elicottero Black Hawk sorvolava il punto in cui si trovavano i bambini e i loro soccorritori, con le eliche che ruotavano a pochi metri dalle cime degli alberi sotto la pioggia battente. La vegetazione era troppo fitta per atterrare, così il pilota, Julián Novoa, ha tenuto fermo l’elicottero per quasi un’ora, mentre i soldati si calavano nella foresta e sollevavano uno a uno i bambini e poi Ranoque. A bordo i medici hanno visitato i bambini mentre Novoa volava verso la base militare di San José del Guaviare, la città dove il Cessna era diretto prima di precipitare. Lì i sopravvissuti sono stati attaccati alle flebo e poi caricati su un aereo militare per Bogotá. Una volta in volo Ranoque ha finalmente abbracciato i figli. C’era anche Sánchez e Ranoque gli ha chiesto di fare da padrino a Cristin. Sánchez ha accettato.
In una conferenza stampa convocata in fretta e furia, il presidente Petro ha annunciato la “piena sopravvivenza” dei bambini. Ha attribuito il merito del salvataggio all’improbabile collaborazione tra l’esercito e le comunità indigene. “Da qui si apre un nuovo percorso per la Colombia”, ha scritto poi su X.
Il giorno successivo al loro arrivo nella capitale, l’ospedale ha autorizzato le visite. Quando Sánchez è arrivato, dormivano tutti, tranne Lesly. “Siete coraggiosi”, le ha detto. Erano pallidi e Lesly non parlava, ma almeno erano vivi.
Valencia ha raccontato di essere svenuta tanto è stata sopraffatta dalle emozioni dopo la visita ai nipoti in ospedale. “Vederli in quello stato, sofferenti, inappetenti, esausti, denutriti, coperti di pidocchi e spine, mi ha spezzato il cuore”, ha detto.
Quando il padre biologico di Lesly e Soleiny, Andrés Jacobombaire, è andato a trovarle, le figlie non l’hanno riconosciuto: era la prima volta che lo vedevano da quando i genitori si erano separati, sei anni prima. Jacobombaire ha spiegato chi era e Lesly è scoppiata a piangere. “L’ho abbracciata e ho pianto con lei”, ha raccontato l’uomo.
I mezzi d’informazione non sono stati autorizzati a vedere o a parlare con i bambini, che hanno comunque raccontato alla famiglia e agli amici intervistati per questa storia i dettagli della loro esperienza nella foresta. Mentre aspettavano d’imbarcarsi sul volo HK2803 la mattina del 1 maggio, i bambini erano nervosi perché non avevano mai volato prima. Ma erano anche felici. Lesly e Soleiny avevano raccontato agli amici che erano emozionate di andare a Bogotá. Magdalena aveva detto ai figli che i guerriglieri li stavano cercando, ma presto sarebbero stati tutti al sicuro.
Un’ora più tardi, mentre il motore scoppiettava e l’aereo cominciava a precipitare, Magdalena piangendo ha chiesto ai figli di tenersi stretti. Quando il Cessna si è schiantato sulla chioma della foresta, Lesly ha battuto la testa e ha perso conoscenza. Quando è rinvenuta, ha sentito Cristin urlare. Ha visto che Magdalena teneva ancora in braccio la bambina. “Mamma, mamma”, ha urlato Lesly più volte. Magdalena era immobile, gli occhi rovesciati all’indietro. Lesly si è slacciata la cintura di sicurezza e ha strappato Cristin dalle sue braccia. Ha usato uno dei pannolini della bambina per fermare il sangue che le usciva dalla testa. L’odore di carburante le riempiva le narici. C’erano detriti ovunque. Lesly ha visto che Hermán Mendoza ed Hernando Murcia erano morti, ma Soleiny e Tien erano illesi. Poi, tenendo Cristin in braccio, ha condotto i fratelli fuori dall’aereo.
Ha costruito un accampamento di fortuna lì vicino, appendendo un asciugamano e una zanzariera. Tien continuava a chiedere quando si sarebbe svegliata la mamma. Lesly temeva che il fratello fosse troppo piccolo per afferrare il concetto di morte, così gli ha risposto che non lo sapeva.
Lesly sapeva anche che non sarebbe passato molto tempo prima dell’arrivo dei predatori, attirati dai cadaveri. Così ha raccolto alcuni vestiti di Magdalena, un po’ di farina che ha trovato nella borsa di Mendoza e succhi di frutta, bibite e caramelle recuperate dall’aereo. Ha preso qualche altro oggetto che poteva essere utile: un paio di forbici, un kit di pronto soccorso, dei pannolini e un biberon. Poi ha guidato i fratelli verso ovest, orientandosi con il sole.
Il fatto che la Colombia fosse nel pieno della stagione umida è stato una benedizione. Mentre camminavano, Lesly raccoglieva l’acqua piovana in una bottiglia vuota. L’umidità significava anche che la foresta era in piena fioritura, con grandi frutti maturi sugli alberi. I bambini consumavano il juan soco, simile al frutto della passione, e i semi di una palma chiamata milpeso. Lesly masticava i semi duri in bocca, poi dava da mangiare la polpa a Tien e Cristin. A Cristin dava anche dell’acqua mescolata con la farina recuperata nell’aereo.
I bambini si spostavano ogni giorno e si nascondevano nei tronchi degli alberi per ripararsi dalla pioggia battente. Lesly e Soleiny facevano a turno per portare Cristin. Una volta un serpente velenoso si è avvicinato a Lesly, che l’ha ucciso con un bastone. La bambina cercava aiuto, ma non ha mai trovato un sentiero che potesse portarli alla salvezza e alla fine ha perso l’orientamento.
Quando avevano bisogno di riposare, a volte Lesly costruiva un riparo di rami legati insieme con dei fermagli per capelli. Tagliava i rami con le forbici e quando le ha perse ha usato i denti. A un certo punto i bambini hanno trovato uno dei pacchi di provviste lanciati dai militari, ma hanno comunque sofferto la fame per quasi tutto il tempo. Di notte sentivano freddo. Quando i fratelli piangevano, Lesly poteva solo cercare da mangiare o avvolgerli in un pezzo di stoffa sporca.
Nonostante le difficoltà, Lesly dice di non aver avuto paura, finché non ha sentito la voce della nonna. Era forte e non capiva da dove venisse. Più avanti le è capitato di sentire i soldati nella foresta. Ma non si fidava di quegli uomini armati: la madre le aveva detto che i guerriglieri stavano minacciando la famiglia. Quando i soccorritori si avvicinavano, i bambini scappavano o si nascondevano. Se aveva Cristin in braccio, Lesly le metteva una mano sulla bocca per soffocarne il pianto.
I quattro fratelli hanno continuato a muoversi per alcune settimane, sperando di ricevere aiuto dalle persone del posto, ma alla metà di maggio hanno perso le forze. Poi, come hanno raccontato a Valencia, è arrivato un cane. È rimasto con loro per diversi giorni e sentivano che li stava proteggendo. Ma a un certo punto è scomparso di nuovo nella foresta.
I bambini si spostavano ogni giorno e si nascondevano nei tronchi degli alberi per ripararsi dalla pioggia battente
In ospedale, con i pastelli, Lesly ha disegnato il cane seduto sotto un albero vicino a un fiume, mentre agita la zampa verso un uccello giallo che vola sopra di loro. Anche Soleiny ha fatto un disegno dell’animale. In entrambe le immagini il cane è nero e marrone, con le orecchie a punta. I militari hanno detto che sembrava Wilson, il pastore scomparso. Da un giorno all’altro Wilson è diventato un eroe e ha avuto un ruolo di primo piano nelle notizie sulla missione di ricerca.
È possibile che i bambini abbiano solo immaginato il cane. La malnutrizione e la stanchezza possono giocare brutti scherzi alla mente. Lesly ha raccontato di sentire che i ricordi evaporavano.
Alla fine la stanchezza gli ha impedito di proseguire il viaggio. Si sono rannicchiati in uno dei rifugi costruiti da Lesly e si sono preparati a morire. Quando la bambina ha sentito dei passi che si avvicinavano, era così esausta che faceva fatica a respirare. Aveva paura ed è rimasta in silenzio. Anche Soleiny e Tien hanno fatto come lei. Se Cristin non avesse pianto, forse non sarebbero mai stati trovati.
Poche cose hanno unito la popolazione colombiana come il successo dell’Operazione speranza. Petro, un politico di sinistra, e Iván Duque, il suo predecessore conservatore, hanno twittato per festeggiare. Anche il Fronte Carolina Ramírez ha rilasciato una rara dichiarazione: “Come tutti i colombiani, siamo felici che i quattro bambini sopravvissuti all’incidente aereo siano stati ritrovati vivi”.
Petro ha invitato al palazzo presidenziale i militari e gli indigeni coinvolti nell’operazione di salvataggio per assegnare alcuni riconoscimenti al loro eccezionale servizio. La massima onorificenza del governo è andata a Sánchez, per il suo ruolo di comando. Il cane Wilson ha ricevuto una medaglia in contumacia. Non è mai stato ritrovato, nonostante un mese di ricerche.
Nella sua casa di Bogotá, Montoya conserva un sacchetto di mambé di Eliecer Muñoz e di altri volontari nativi. “Abbiamo capito di avere molte cose in comune”, ha detto.
Muñoz è diventato molto amico del vice di Montoya, il sergente Juan Carlos Rojas; si sentono al telefono e s’incontrano a cena quando sono tutti e due nella capitale. “Le nostre tradizioni, i nostri pensieri, le nostre esperienze, le nostre religioni possono essere diverse”, mi ha detto Rojas, “ma alla fine ci siamo uniti”.
Una versione diversa
Lesly, Soleiny, Tien e Cristin sono stati dimessi dall’ospedale il 14 luglio 2023, poco più di un mese dopo essere stati salvati. Il mondo chiedeva a gran voce di ascoltare la loro storia. Produttori cinematografici e agenti sono accorsi in Colombia in cerca di informazioni. Il governo ha creato un fondo per i bambini per gestire il denaro generato dall’attenzione mediatica.
L’adattamento hollywoodiano per questa storia potrebbe fermarsi qui. Ma mentre i bambini si riprendevano, è scoppiata una battaglia legale sul loro futuro. Ranoque ha annunciato di volere la custodia di Tien e Cristin, i suoi figli biologici, ma i genitori di Magdalena hanno insistito che tutti e quattro dovevano essere affidati a loro perché Ranoque era pericoloso.
“Mia figlia è morta per colpa sua”, mi ha detto Valencia. Narciso Mucutuy, il marito, ha accusato Ranoque di picchiare la famiglia, dicendo ai giornalisti che i bambini scappavano nella foresta quando la violenza raggiungeva livelli troppo alti.
I giornalisti della tv colombiana Caracol sono andati a Puerto Sábalo per indagare su queste accuse e hanno scoperto una storia diversa da quella raccontata da Ranoque sui fatti che avevano preceduto l’incidente: i locali hanno raccontato che ad aprile Ranoque era volato a Bogotá, dove aveva incontrato l’ex moglie e l’aveva riportata con sé in Amazzonia. Magdalena era distrutta.
Una sera, secondo il leader della comunità William Castro, che conosce Ranoque da anni, Magdalena aveva affrontato il marito riguardo alla situazione con l’ex moglie, e lui aveva risposto attaccandola con un machete. “Aveva molte cicatrici causate da quella lotta”, mi ha detto Castro.
Gli anziani avevano pensato a una punizione per Ranoque: avrebbe consumato una grande quantità di ambil, che in dosi elevate può provocare vertigini, nausea e perfino la morte. Se fosse sopravvissuto, allora l’infuso l’avrebbe purificato dal male; se fosse morto, avrebbe avuto una giusta punizione. Secondo questa versione del racconto, invece di sfidare la sorte Ranoque era scappato da Puerto Sábalo, sostenendo che il Fronte Carolina Ramírez lo stava cercando. Il gruppo guerrigliero ha negato di averlo minacciato e ha insistito perché ritrattasse le sue accuse, per non turbare i negoziati di pace con il governo. Castro mi ha detto che l’idea che Ranoque o la sua famiglia fossero nel mirino dei ribelli era “completamente falsa”.
Nel corso dell’estate le autorità colombiane hanno indagato su Ranoque e hanno scoperto altre informazioni su potenziali violenze domestiche. Ad agosto del 2023 è stato arrestato con l’accusa di abusi sessuali. Le carte legali riportano anche il presunto attacco con il machete, durante il quale Magdalena avrebbe avuto Cristin in braccio.
Ranoque è in carcere, in attesa del processo. Mi ha scritto dalla prigione, ribadendo che i guerriglieri gli danno la caccia e smentendo l’aggressione con il machete e le accuse di abusi sessuali. “Un padre che violenta la sua famiglia non fa quello che ho fatto io”, ha detto. “Se avessi avuto qualcosa da nascondere, li avrei lasciati marcire nella giungla, invece sono stato il primo a cercarli”.
In seguito della disputa sulla custodia dei bambini, che ha coinvolto anche Jacobombaire, l’istituto di assistenza familiare ha deciso per il momento di prendersene cura. Secondo i familiari e i soccorritori che li hanno visti, ogni giorno si rimettono e diventano più forti. Cristin ha cominciato a camminare. Tien si diverte a giocare con i Lego. Soleiny e Lesly studiano da casa. Tuttavia il loro senso di perdita e smarrimento è evidente. Sánchez e la sua famiglia sono andati da loro a dicembre per portargli dei regali di Natale. Sánchez mi ha detto che sono in buone mani, ma sentono la mancanza dell’Amazzonia. “Preferirebbero mangiare farina e vivere ad Araracuara”, mi ha spiegato.
Secondo Valencia, quando Magdalena è morta, la natura ha riempito il vuoto lasciato dalla madre nella vita dei figli, sostenendoli e proteggendoli fino al giorno in cui sono stati liberati dallo spirito che li aveva catturati.
A prescindere da chi otterrà la custodia dei bambini, probabilmente torneranno in Amazzonia. Come per Magdalena, la foresta sarà sempre la loro casa.◆ svb
William Ralston è uno scrittore che vive nel Regno Unito. Collabora con vari giornali, tra cui The Atavist, The Guardian e Bloomberg Businessweek.
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Questo articolo è uscito sul numero 1574 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati