Al cuore della crisi in Ucraina c’è una domanda fondamentale sulla natura della storia e dell’umanità: è possibile cambiare? Gli esseri umani possono modificare il modo in cui si comportano, oppure la storia si ripete all’infinito, con gli esseri umani condannati per sempre a reinterpretare antiche tragedie?

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Una scuola di pensiero nega con fermezza la possibilità di un cambiamento. Sostiene che il mondo sia una giungla e che l’unica cosa che impedisce a un paese di divorarne un altro sia la potenza militare. Le cose sono sempre andate così e continueranno a farlo. Chi non crede alla legge della giungla non solo è un illuso, ma mette in pericolo la sua stessa esistenza. E non sopravvivrà a lungo.

Il declino della guerra è evidente dalle statistiche. Dal 1945 è raro che i confini internazionali siano ridefiniti da un’invasione

Un’altra scuola di pensiero sostiene che la legge della giungla non sia affatto naturale. Gli esseri umani l’hanno creata e possono cambiarla. Contrariamente a quanto molti credono, le tracce archeologiche della prima guerra risalgono solo a tredicimila anni fa. In molti periodi successivi non risultano conflitti. La guerra non è una forza fondamentale della natura. La sua esistenza dipende da fattori tecnologici, economici e culturali. Con il mutare di questi fattori, cambia anche la guerra. Ovunque intorno a noi ci sono prove di un cambiamento simile. Nel corso delle ultime generazioni le armi nucleari hanno trasformato la guerra tra superpotenze in un potenziale suicidio collettivo, costringendo le nazioni più forti a trovare metodi meno violenti per risolvere i conflitti. I conflitti tra superpotenze, come la seconda guerra punica o la seconda guerra mondiale, hanno caratterizzato buona parte della storia. Ma negli ultimi settant’anni non ci sono state guerre simili. Nello stesso periodo l’economia mondiale è passata dall’essere basata sulle materie all’essere fondata sul sapere. Se un tempo le principali fonti di ricchezza erano miniere d’oro, campi di grano e pozzi di petrolio, oggi quello che conta è la conoscenza. E se è possibile impadronirsi di pozzi di petrolio con la forza, lo stesso non si può fare con il sapere. La conquista militare quindi è diventata meno redditizia.

Infine c’è stato un cambiamento culturale epocale. Un tempo le élite – condottieri unni, jarl vichinghi e patrizi romani – consideravano la guerra un fatto positivo. I governanti, da Sargon di Akkad a Benito Mussolini, volevano rendere immortale la loro memoria attraverso le conquiste (e artisti come Omero e Shakespeare erano felici di accontentare queste fantasie). Altri, come la chiesa cristiana, consideravano la guerra un male inevitabile. Per la prima volta nella storia. Invece nelle ultime generazioni il mondo ha cominciato a essere governato da élite che considerano la guerra sia malvagia sia un male evitabile. Perfino figure come George W. Bush e Donald Trump, per non parlare di Angela Merkel e Jacinda Ardern, sono diverse rispetto ad Attila, il re degli unni. Di solito arrivano al potere promettendo riforme interne, più che conquiste. E anche nel mondo dell’arte i nomi di riferimento – da Pablo Picasso a Stanley Kubrick – sono più conosciuti per aver descritto gli orrori dei conflitti. In seguito a questi cambiamenti, la maggior parte dei governi ha smesso di vedere le guerre d’aggressione come uno strumento accettabile per fare i propri interessi e la maggior parte delle nazioni ha rinunciato alle fantasie di conquista dei vicini. Insomma, non è solo la forza militare a impedire al Brasile di conquistare l’Uruguay o alla Spagna d’invadere il Marocco.

Il declino della guerra è evidente in numerose statistiche. Dal 1945 è raro che i confini internazionali siano ridefiniti da un’invasione straniera. E nessun paese riconosciuto a livello internazionale è stato completamente cancellato dalla mappa geografica in seguito a conquiste dall’esterno. Non sono mancate guerre civili e rivolte. Ma, anche se si prendono in considerazione tutti i tipi di conflitto, nei primi vent’anni del ventunesimo secolo ci sono stati più morti per suicidio, incidenti automobilistici o malattie. La polvere da sparo è diventata meno letale dello zucchero. Tra gli studiosi è in corso un botta e risposta sulle cifre, ma è importante andare oltre i numeri. Il declino della guerra è stato un fenomeno tanto psicologico quanto statistico. La sua caratteristica più importante è stata un cambiamento del significato stesso della parola “pace”. Per buona parte della storia ha indicato solo “la momentanea assenza di guerra”. Negli ultimi decenni ha finito per significare “l’implausibilità della guerra”. Vivo in Medio Oriente, quindi so che esistono eccezioni a queste tendenze. Ma la “nuova pace” non è una casualità statistica o una fantasia da figli dei fiori. È evidente soprattutto nei bilanci degli stati. Negli ultimi anni i governi del mondo si sono sentiti abbastanza sicuri da spendere in media solo il 6,5 per cento dei loro bilanci per le forze armate, riservando più risorse per istruzione, sanità e assistenza sociale. Lo diamo per scontato, ma è una novità sconcertante. Per migliaia di anni le spese militari sono state la principale voce nei bilanci di principi, khan, sultani e imperatori. Non spendevano un centesimo per l’istruzione o l’assistenza sanitaria.

La “nuova pace” non è una fantasia da figli dei fiori. È evidente soprattutto nei bilanci degli stati

Il declino della guerra non è il risultato di un miracolo divino o di un cambiamento delle leggi della natura. Nasce perché gli esseri umani hanno fatto scelte migliori. È probabilmente la più grande conquista della civiltà contemporanea. Sfortunatamente, il fatto che derivi da scelte umane significa anche che sia reversibile. Tecnologia, economia e cultura continuano a cambiare. L’ascesa delle armi cibernetiche, delle economie fondate sull’intelligenza artificiale e delle culture militariste potrebbe generare una nuova era di conflitti, la peggiore di sempre. Per goderci la pace abbiamo bisogno che quasi tutti prendano decisioni giuste. Basta la scelta sbagliata di una sola persona per portarci alla rovina.

È per questo che la minaccia russa d’invadere l’Ucraina riguarda ogni abitante della Terra. Se diventasse di nuovo normale per un paese potente divorare i suoi vicini più deboli, i comportamenti delle persone di tutto il mondo potrebbero cambiare. Il primo risultato di un ritorno alla legge della giungla sarebbe un aumento delle spese militari, con conseguenze su tutto il resto: i soldi che dovrebbero andare a insegnanti, infermieri e assistenti sociali sarebbero dirottati su carri armati e armi cibernetiche.

Un ritorno alla giungla minerebbe anche la cooperazione internazionale su questioni come la prevenzione dei cambiamenti climatici o la regolamentazione dell’intelligenza artificiale e dell’ingegneria genetica. Non è semplice collaborare con paesi che si preparano a distruggerti. E mentre accelerano sia il cambiamento climatico sia la corsa agli armamenti basati sull’intelligenza artificiale, la minaccia di un conflitto armato non fa che aumentare, chiudendo un circolo vizioso che potrebbe davvero essere fatale per la nostra specie.

Se credete che i cambiamenti storici siano impossibili, e che l’umanità non sia mai uscita dalla giungla e mai lo farà, l’unico dilemma è se interpretare la parte del predatore o della preda. Di fronte a una scelta simile, la maggior parte dei leader preferirebbe essere ricordata come un predatore alfa. Ma se fosse possibile cambiare? Se la legge della giungla fosse una scelta? In quel caso, un leader che decide di aggredire il suo vicino otterrebbe un posto speciale nella storia. Verrebbe ricordato come l’uomo che ha rovinato il nostro più grande traguardo. Quando pensavamo di essere fuori dalla giungla, ci ha ributtato dentro.

Non so cosa succederà in Ucraina. Ma come storico credo nella possibilità di un cambiamento. Non è ingenuità, ma realismo. L’unica costante della storia umana è il cambiamento. Ed è qualcosa che forse possiamo imparare dagli ucraini. Per generazioni hanno conosciuto quasi solo tirannide e violenza. Hanno subìto due secoli di autocrazia zarista. Hanno patito la carestia dell’holodomor, il terrore staliniano e l’occupazione nazista. Quando l’Unione Sovietica è crollata, la storia avrebbe dovuto spingere nuovamente gli ucraini verso il sentiero della tirannia: cos’altro conoscevano, in fondo? Ma gli ucraini hanno deciso di fare altro: hanno creato una democrazia in cui, al contrario di quanto succede in Russia e Bielorussia, i candidati dell’opposizione sostituiscono regolarmente chi è al potere.

La loro democrazia è qualcosa di nuovo. E lo stesso vale per la nuova pace. Entrambe sono fragili e potrebbero non durare. Ma entrambe sono possibili. Ogni cosa vecchia è stata nuova, in passato. Tutto dipende dalle scelte degli esseri umani. ◆ ff

YUVAL NOAH HARARI
è uno storico israeliano. Il suo ultimo libro uscito in Italia è 21 lezioni per il XXI secolo (Bompiani 2018).

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Questo articolo è uscito sul numero 1448 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati