La donna posò il lavoro a maglia sulle ginocchia, reclinò la testa e la ruotò lentamente, prima da una parte e poi dall’altra. Si massaggiò la spalla destra con la mano opposta. Da dove era seduta osservava il vicolo: i bambini giocavano a pallone. L’aria era calda e opprimente. La donna appoggiò la testa allo schienale e chiuse gli occhi. Riconosceva i bambini, uno a uno, dalle loro voci. Questo è Ali che grida “Passa!” mentre Mohammad ride di gusto, e questo è Behruz che sbraita “Non barare, mica era gol!” mentre Khosrow urla “Graaande, tira!”. Poi si sente piangere. È Masumeh, la sorella di Mohammad, che singhiozza senza sosta perché i ragazzi non le passano la palla. Si sente lo scampanellio di una bicicletta: portano il giornale della sera.
La donna sistemò il capo sul cuscino, tirò su di sé le voci degli abitanti del vicolo e l’aria calda dell’estate, come se fossero un lenzuolo leggero, e si appisolò.
Trent’anni prima era passata in mezzo a quel baccano con il marito ed era entrata per la prima volta in questa piccola casa. Anche quel giorno i bambini giocavano a pallone
Trent’anni prima era passata in mezzo a quel baccano con il marito ed era entrata per la prima volta nella sua piccola casa. Anche quel giorno i bambini giocavano a pallone. Forse erano i padri di Mohammad, Behruz e Ali. Una bambinetta se ne stava in disparte e piangeva. Allora nel cortile il vaso di gelsomini non c’era. Nella stanza, sul ripiano, non c’erano neppure le statuette di porcellana. È apparso tutto dopo, un poco alla volta: prima un vaso, poi un secondo, poi una statuetta raffigurante una gazzella, un’altra gazzella, e poi un piccolo elefante dalla proboscide sottile come uno spillo. Con il passare degli anni, un po’ alla volta, la donna aveva riempito la sua piccola casa con vasi, sculturine e altri oggetti.
Nel vicolo i rumori del giorno e la quiete della notte ricoprivano quel mondo familiare come una sottile foglia d’oro. Erano trent’anni che la sua vita, come una riga netta, come una matassa di lana ormai completamente srotolata sul tappeto, procedeva in quel modo. Trent’anni tutti uguali, ogni mese, ogni giorno, senza variazioni, senza che succedesse niente. Di questo la donna non si lamentava. Le novità la impaurivano. Andava in crisi per un semplice raffreddore suo o del marito. Non per paura di una malattia, ma del cambiamento che avrebbe portato alla routine della sua vita. Le piaceva sapere esattamente, per ogni giorno e per ogni ora, cosa l’aspettava. C’era voluto molto tempo prima che si abituasse alle novità. Una volta aveva comprato una pentola nuova, ma l’aveva lasciata per giorni in un angolo della cucina prima di convincersi a usarla e, alla fine, quello che preparò non le parve neppure così saporito.
L’unico avvenimento della sua vita fu il matrimonio. Ricordava a malapena ciò che era successo prima. Aveva un ricordo sfocato del padre e della madre, morti prima che si sposasse. Per lei la vita cominciava con il giorno delle nozze. Ma ora perfino quel momento non era più così vivido nella sua memoria. Era come se si fosse sposata il giorno in cui era nata o fosse nata il giorno in cui si era sposata. Pensava di rado al periodo prima del matrimonio. Era molto faticoso. Come pensare a qualcosa che non era mai esistito. Come pensare alla vita di qualcun altro. Quando osservava le poche foto del passato, non si riconosceva. La pallida ragazza di quelle foto e la donna di mezza età che le guardava, accoccolata nel tepore della sua grassa figura, erano estranee l’una all’altra. La ragazza non risvegliava nella donna nessun sentimento. Tanto la vita prima del matrimonio le era lontana, vaga e sconosciuta, quanto facilmente e chiaramente ricordava il periodo successivo. Era come se tutti i suoi anni fossero durati un anno e tutti i mesi di quell’anno non fossero durati che un mese, e così tutti i giorni di quel mese non fossero che un giorno, un giorno che le era noto, caro e familiare, istante dopo istante.
La mattina, una volta sveglia, per prima cosa accendeva la radio. Poi preparava l’occorrente per la colazione. Il conduttore radiofonico annunciava le notizie. La donna non le ascoltava mai, ma la voce dell’annunciatore era familiare e confortante. Mentre il marito andava in ufficio, lei lavava le stoviglie. Poi si versava del tè e camminava per la casa con la tazza in mano. Ispezionava le stanze, si affacciava in cortile e sorseggiando il tè passava in rassegna le cose da fare quel giorno. Poi si vestiva e usciva a fare la spesa. Una volta tornata, rassettava la casa, faceva il bucato e stirava. Il marito non tornava mai per pranzo. Il più delle volte la donna mangiava gli avanzi della sera prima. A volte, di pomeriggio, andava a far visita a vicine e conoscenti, come Soraya a cui era morta la madre e Mahin Khanom che aveva da poco avuto un bambino.
Era come se tutti i suoi anni fossero durati un anno e tutti i mesi di quell’anno non fossero durati che un mese, e così tutti i giorni di quel mese non fossero che un giorno, un giorno che le era noto, caro e familiare, istante dopo istante
Loro non ne avevano avuti, ma la donna non si commiserava per questo. Forse ne era perfino contenta. Per lei era difficile immaginare in casa un altro essere vivente. Per un figlio avrebbe dovuto angosciarsi o essere felice e a lei non piaceva né l’una né l’altra cosa. Un figlio sconvolge la quiete della vita e lei amava quella quiete più di tutto. Il pomeriggio, dopo aver preparato la cena, si accomodava su un grande cuscino e ascoltava i rumori della strada. Poco prima delle sette, perlustrava con lo sguardo la strada in attesa del ritorno del marito. La loro casa era in fondo al vicolo e dalla finestra era possibile vederlo tutto, fino all’incrocio con la strada principale. Di solito, alle sette di sera, era buio e silenzioso. Solo quella parte di strada che si riusciva a vedere dalla sua finestra era sempre illuminata e da lontano, dal punto in cui lei si sedeva, i neon delle insegne, le luci dei negozi e i fari delle macchine si rincorrevano mescolandosi tra loro. Formavano una grande macchia luminosa intorno alla quale vorticava, come un alone, tutto il frastuono della strada. Alla donna quella macchia non piaceva. Se la fissava a lungo, assumeva strane e spaventose figure e un astruso frastuono le risuonava nelle orecchie. A volte aveva l’impressione che la macchia si facesse sempre più vicina e più grande al punto che sembrava volesse inghiottirla e in quei momenti l’indecifrabile frastuono si trasformava in una successione di risate malefiche. Ma la donna era obbligata a guardare la macchia, da cui prima o poi si sarebbe staccato un punto scuro che si sarebbe diretto verso di lei. Più il punto si avvicinava, più la sua paura si attenuava. Il punto s’ingrandiva gradualmente, cambiava forma e la donna vedeva il marito dirigersi a piccoli passi verso casa. Quello era il momento più bello della giornata. Il momento in cui un piccolo punto nero completava il suo piccolo universo familiare. Allora la grande macchia di luce non le faceva più paura.
La donna aprì gli occhi. Si era fatto buio. Dal vicolo non proveniva nessun rumore. Guardò l’orologio. Erano le sette di sera. Guardò la strada. Il piccolo punto nero era arrivato a metà del vicolo. La donna fece un lungo respiro e si alzò. Doveva servire la cena.
Zoya Pirzad
è nata nel 1952 ad Abadan da una famiglia armena. È tra le scrittrici iraniane più conosciute all’estero. In Italia ha pubblicato Spengo io le luci (Brioschi 2019). Il titolo originale di questo racconto è Lakkeh . La traduzione è di Bianca Maria Filippini.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1441 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati