Gli autori di questa mappa sono medici, non cartografi. Due team dell’associazione Medici per i diritti umani, per la precisione: tra cui medici, psichiatri, psicologi e mediatori culturali, in servizio presso un paio di centri d’accoglienza in Sicilia e in alcuni insediamenti informali di migranti (case occupate, baraccopoli) a Roma, dove hanno preso in cura persone partite dall’Africa occidentale o dal Corno d’Africa. In altre parole, questa mappa mostra il viaggio compiuto dai loro pazienti per arrivare in Italia.
Le rotte migratorie sono più o meno note, ma contano i dettagli. Qui la mappa è stata disegnata sulla base di centinaia di testimonianze raccolte da questi medici, tra l’estate 2014 e la primavera 2015, durante la loro attività di assistenza sanitaria e psicologica. Condensa le conoscenze acquisite su rotte e traffico di esseri umani lungo i percorsi verso il Nordafrica, prima della rischiosa traversata verso l’Italia. Della traversata sappiamo ormai dalle cronache quasi quotidiane di sbarchi e dai frequenti naufragi; sappiamo meno però sulla prima parte del viaggio.
Qualche informazione viene dal rapporto che accompagna la mappa: “Fuggire o morire”, analisi preliminare di sei mesi di attività in Sicilia, presso il centro d’accoglienza straordinaria in provincia di Ragusa e il centro d’accoglienza per richiedenti asilo di Mineo, provincia di Catania, e a Roma in insediamenti informali come l’edificio occupato di via Collatina, la baraccopoli di Ponte Mammolo, il centro Baobab e la stazione Termini.
Nel Corno d’Africa il principale punto di partenza è l’Eritrea, con un passaggio nei campi profughi in Etiopia e in Sudan. Chi parte da qui ha una ragione soprattutto: sfuggire alla coscrizione militare e alla persecuzione politica. In effetti formalmente l’Eritrea non è in guerra, ma è come se lo fosse. Non ha una società civile organizzata, né un parlamento con reali poteri, e vige la leva obbligatoria indefinita: per questo migliaia di giovani uomini fuggono ogni mese. Human rights watch parla inoltre di lavoro forzato durante la coscrizione militare, arresti arbitrari, scomparse, trattamenti inumani durante la detenzione.
Dall’Africa occidentale punti di partenza e motivazioni sono più frastagliati: Nigeria, Gambia, Senegal, Mali, Costa d’Avorio e Ghana. Le testimonianze raccolte nei centri d’accoglienza siciliani parlano di persecuzione politica o religiosa (o sessuale), di dittature, guerre civili, conflitti per la proprietà della terra, ragioni economiche, violenza all’interno dei gruppi familiari o delle comunità. Certo, questo è il punto di vista dei migranti: ma sono tutte ragioni verosimili. Gli autori del rapporto osservano che la normale distinzione tra “rifugiati” e “migranti economici” è per lo più un concetto astratto: spesso, dicono, la realtà è ben più complessa. Anche chi si sposta “solo” per cercare una vita migliore può essere più o meno costretto dalle circostanze.
Quali che siano i motivi, su quel percorso i migranti sono esposti a violenze e sfruttamento tali da far impallidire perfino la traversata in mare. La via del deserto è descritta come un inferno (”Avevamo solo una bottiglia d’acqua ciascuno e quasi niente da mangiare… ammassati nel pick up che viaggiava a gran velocità… alcune persone sono cadute ma sono state lasciate lì”, racconta un sopravvissuto alla traversata dal Sudan alla Libia, quattro giorni). Molti parlano di compagni di viaggio sbalzati fuori dai furgoni e lasciati a morte sicura nel deserto. Altri raccontano mesi di lavoro forzato per pagare il prossimo segmento di viaggio: Bamako, Niamey, Agadez, ogni snodo conquistato a fatica. Il viaggio dura in media 16 mesi dall’Eritrea all’Italia, 22 mesi dall’Africa occidentale. C’è il trafficante che ti usa come schiavo per mesi per coprire il costo del viaggio, c’è chi ti spoglia dei pochi soldi e averi. Tutti i sopravvissuti si dicono vittime di intimidazioni, abusi, spesso di tortura.
Il culmine dell’inferno però è la Libia, passaggio comune a entrambe le rotte, il più temuto. I richiedenti asilo sbarcati in Italia nell’ultimo anno vi hanno trascorso in media tredici mesi: in prigione, o in centri di detenzione per migranti, o in case informali “di raccolta”. Sono stati alla mercé di trafficanti, polizia, milizie, spesso in ruoli ambigui: nell’anarchia libica compaiono agenti di polizia che infliggono torture ed estorcono soldi, bande armate (come gli Asma boys) che gestiscono centri speciali per migranti a suon di pestaggi e torture, e gruppi armati di trafficanti e intermediari che organizzano l’imbarco. Ci sono storie di violenze sessuali, di ragazze trattenute in “pagamento”.
Dal punto di vista dei medici, questo significa che i migranti assistiti tra la Sicilia e Roma portano i segni di torture fisiche insieme a traumi e sofferenza psicologica, senso di insicurezza, paura. In effetti questa ricerca rientra in un progetto contro la tortura e il traffico di esseri umani finanziato dall’Unione europea (On To: Stopping the torture of refugees from Sub-Saharan countries along the migratory routes to Northern Africa). Sintomi fisici e sofferenza psichica sono interconnessi, avvertono i Medici per i diritti umani: chi ha percorso questa mappa ne porterà a lungo le tracce.
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