“Benvenuti”, un’insegna luminosa rossa scorre sulla vetrina del caffè Al Jazeera, dove alcuni uomini seduti ai tavoli all’aperto in questa domenica insolitamente calda scherzano divertiti. Una giornalista inglese si trucca il volto e si spruzza la lacca sui capelli all’angolo di una via vicina, prima di cominciare la diretta. “Ecco, siamo finalmente diventati famosi!”, ironizza Hicham. “Peccato che sia dovuto a quello che è successo venerdì”.
Anche se la sua reputazione era già nota in Belgio, il comune di Molenbeek-Saint Jean ha conquistato in poche ore una notorietà internazionale. In effetti secondo molti questo comune è diventato una delle basi europee del terrorismo islamico. E i raid della polizia cominciati sabato sera, in relazione diretta con gli attentati di Parigi, hanno confermato una reputazione che non è del tutto falsa: l’elenco di persone che sono passate per Molenbeek prima di essere coinvolte in azioni terroristiche è impressionante.
L’attentato al Museo ebraico di Bruxelles (maggio 2014), la cellula di Verviers smantellata in occasione di un sanguinoso assalto della polizia (gennaio 2005), l’attacco fallito sul treno Bruxelles-Parigi (agosto 2015), sono tutti casi che avevano un legame con questo quartiere popolare nella zona occidentale di Bruxelles, uno dei più densamente popolati della regione con i suoi 97mila abitanti concentrati su meno di sei chilometri quadrati.
Se si risale più indietro nel tempo, è sempre da Molenbeek che sono partiti i killer del comandante afgano Ahmed Shah Massud, principale avversario del regime dei taliban, ucciso da due falsi giornalisti su ordine di Osama bin Laden due giorni prima dell’11 settembre 2001. Ed è sempre qui che hanno vissuto due dei protagonisti degli attentati di Madrid, che hanno fatto 191 morti nel 2004.
Nessuno si è mai veramente occupato di questi ragazzi fino a quando dei fanatici hanno dato loro l’impressione di esistere
Di tutto questo tre uomini seduti su una panchina lungo la strada di Ninove non vogliono parlare. Di fronte alla foto diventata famosa di Abdelhamid Abaaoud – un ragazzo del posto entrato a far parte del gruppo Stato islamico (Is) che posa al volante del suo pick-up mentre rimorchia dei cadaveri – girano la testa. E non dicono niente neppure a proposito di un’altra foto, quella del fratello di Abdelhamid, 14 anni, che posa con un kalashnikov in mano. Ma dopo qualche minuto uno dei tre dice: “Conosco il loro padre, ha detto che si vergognava del figlio maggiore”.
Il rifiuto e l’insofferenza: è tra questi due poli che oscillano le reazioni di molti ragazzi. “Sono delle generalizzazioni!”, grida uno di loro durante una diretta della Rtbf (la Radio televisione belga francofona). Il giorno prima altri due si sono irritati e hanno schiaffeggiato un fotografo e distrutto il suo materiale. Un fruttivendolo commenta: “Sono degli stupidi, ma vivo qui da trent’anni, in un’epoca in cui non c’erano né l’Is né gli attentati, e già allora puntavano il dito contro di noi”.
Un ragazzo, tuta grigia, barba corta e cappuccio sulla testa, si allontana. Ci aspetta un po’ più lontano, al riparo degli sguardi indiscreti. “Per favore cercate di capire che se molti ragazzi di questo quartiere sono partiti per la Siria è soprattutto perché nessuno si è mai veramente occupato di loro fino a quando dei fanatici hanno dato loro l’impressione di esistere. Io sono riuscito a fare degli studi e parlo francese, arabo e fiammingo, ma se vado a un colloquio di lavoro lascio l’indirizzo di un mio amico che non abita a Molenbeek”.
La politica che non serve
Sbrigativamente presentato come un ghetto islamista, il comune è in realtà molto eterogeneo. Ci sono tre Molenbeek: quello che costeggia i viali, dove i caseggiati di edifici lussuosi ospitano una borghesia media; quello delle villette, “dove è piacevole vivere”, come dice un cliente della brasserie La queue de la vache (La coda della mucca), e quello del quartiere arabo intorno a via Gand. Qui le donne sono per lo più velate e i clienti di origine belga sono rari. “Dammi la mano, altrimenti un cattivo ti porta via”, dice una giovane madre al figlioletto biondo. “Vengo qui per comprare delle cose a buon mercato, ma non mi sento al sicuro”, mormora la donna.
“Farò pulizia in questo comune”, ha dichiarato il ministro dell’interno Jan Jambon. Questo nazionalista fiammingo non capisce perché i programmi di deradicalizzazione lanciati nelle Fiandre non funzionino a Bruxelles. E così vuole occuparsi “personalmente” della questione.
“Tanto meglio!”, risponde la sindaca di Molenbeek-Saint-Jean, Françoise Schepmans, che chiede ulteriori mezzi di polizia. Schepmans fa parte del partito liberale del primo ministro Charles Michel, che domenica ha definito il legame fra Molenbeek e i diversi casi di terrorismo come un “problema gigantesco” ed è convinta che il responsabile di questa situazione sia il precedente sindaco, il socialista Philippe Moureaux.
“Fatti come quelli di questi giorni non si sono mai prodotti quando ero sindaco”, ha risposto quest’ultimo, che ha criticato il fatto che la polizia locale sia stata “decapitata” e che la popolazione viva ormai “chiusa in se stessa”. Moureaux ritiene che la rabbia del governo sia dovuta al fallimento dei servizi segreti. A quanto pare anche in Belgio la politica ha rapidamente ripreso il sopravvento.
(Traduzione di Andrea De Ritis)
Questo articolo è stato pubblicato su Le Monde. Clicca qui per vedere l’originale.
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