La guerra in Mali continua a due anni dall’intervento francese
Gli attentati di Bamako mostrano che i combattimenti in Mali continuano anche a due anni dall’intervento francese. Nel nord del Mali sono ancora presenti una miriade di gruppi armati e da qualche tempo il problema del jihadismo sembra diffondersi verso sud.
Il 2 febbraio 2013, cinque giorni dopo che l’esercito francese aveva cacciato le milizie jihadiste, un trionfante François Hollande era arrivato a Timbuctù, la celebre città nel nord del Mali.
Ai francesi erano bastati solo 23 giorni per riprendersi buona parte di un territorio che per nove mesi era stato proclamato Repubblica islamica dell’Azawad, occupato da Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) e dai suoi alleati. Pochi presidenti, e a dire il vero pochi leader in tutto il mondo, hanno potuto godere di una vittoria così piena di enfasi e ricevere un’accoglienza così piena di gratitudine da parte di un popolo.
La decisione della Francia di intervenire contro l’avanzata dei jihadisti dal nord del Mali è sembrata all’epoca un esempio raro e riuscito di quel rischioso genere di operazione di terra che, negli anni della presidenza di Barack Obama, è stato evitato. Ma l’attacco jihadista all’hotel Radisson blu di bamako dimostra che gli scontri non sono cessati.
Il regno dei narcotrafficanti islamici
Nel 2012, il problema del jihadismo in Mali era limitato al nord del paese. Da lungo tempo il Sahara era un territorio complesso, con il suo difficile miscuglio di trafficanti d’esseri umani, jihadisti e trafficanti di droga, persone che il governatore di Timbuktù aveva definito “narcotrafficanti islamici”.
Dopo la caduta del presidente libico Muammar Gheddafi e la fuga dei suoi soldati tuareg verso il loro territorio d’origine nel deserto, il compito di sorvegliare questa grande regione del nord si è rivelato troppo pesante per l’esercito maliano. Dotati di poche munizioni e di scarso equipaggiamento, molti soldati hanno disertato o sono tornati a casa. Il risultato è stato un colpo di stato militare e un vuoto di potere nel quale si sono inseriti i separatisti tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla) e i loro alleati jihadisti.
Nei due anni e mezzo successivi all’intervento militare francese, il Mali e i suoi alleati internazionali hanno lavorato alla ricostruzione del paese. Le elezioni del 2013 hanno portato alla presidenza il carismatico ed esperto statista Ibrahim Boubacar Keita. L’anno successivo, nelle feste alle ambasciate della capitale, era possibile incontrare soldati europei che si mostravano cautamente ottimisti riguardo alla possibilità di trasformare l’esercito maliano in una vera e propria forza militare in grado di combattere.
Un accordo di pace con i ribelli tuareg
Nell’estate del 2015, le lunghe trattative di pace ad Algeri hanno portato a un accordo tra i vari gruppi ribelli, riuniti nella coalizione Coordinamento dei movimenti dell’Azawad (Cma). Negli ultimi mesi sono stati fatti alcuni passi avanti nell’attuazione di questo accordo. La Francia non ha abbandonato il paese: pur diminuendo il numero dei militari in Mali, si è impegnata in una più vasta operazione, il cui nome in codice è Barkhan, con l’impegno a lungo termine di tenere a bada i jihadisti nei paesi del Sahel.
La minaccia jihadista ha dato segni di espansione verso sud, attraverso il fiume Niger
Ma come accaduto in Afghanistan e Iraq, il conflitto non si è mai del tutto placato. Nel nord sono presenti numerosi gruppi armati. Oltre all’Aqmi, le formazioni jihadiste comprendono Al Morabitun (che ha rivendicato l’attentato di Bamako) e Ansar Dine, mentre i separatisti, inclusi l’Mnla e l’Alto consiglio per l’unità dell’Azawad (Hcua) agiscono nella colizione del Cma. Nel paese ci sono, inoltre, molti altri gruppi, comprese le milizie filogovernative Ganda Koy e Gatia. Il risultato è che intere parti del paese sono inaccessibili anche ai dirigenti e la missione dell’Onu, Minusma, è diventata una delle operazioni di mantenimento della pace più pericolose al mondo.
Di recente, la minaccia jihadista (nata nel deserto) ha mostrato segni di espansione verso sud, attraverso il fiume Niger e fino al Mali centrale e meridionale. A marzo del 2015 il bar La Terrasse, molto frequentato dagli stranieri, è stato colpito da un attentato. Ad agosto è stato attaccato l’hotel Byblos nel centro del paese, dove alloggia spesso il personale dell’Onu, e il bilancio è stato di tredici morti. In seguito l’attentato è stato attribuito a un gruppo del Mali centrali chiamato Fronte di liberazione del Macina (Flm).
Nel reclutamento dei jihadisti c’è una dimensione economica, oltre che politica
Una delle inevitabile conseguenze dell’intervento armato è che questi gruppi si disperdano e poi ricompaiano in altre regioni, secondo Andrew Lebovich, ricercatore allo European council of foreign relations (Consiglio europeo delle relazioni internazionali). Paul Melly di Chatham House ha descritto l’intensificarsi di questi attacchi contro bersagli civili come “attacchi-puntura”. Secondo Melly, questi attacchi sono spesso, ma non sempre, opera di jihadisti legati all’Aqmi. Alcuni combattenti di questi gruppi sono dei salafiti dediti alla causa ma, molti di loro non sono davvero interessati agli obietti del gruppo.
Dal 2012 gli abitanti dei territori controllati dai jihadisti hanno osservato come i miliziani spesso cambino gruppo di appartenenza, passano da gruppi di jihadisti a gruppi laici e viceversa, senza curarsi delle finalità di ciascun gruppo.
Nel reclutamento dei jihadisti c’è una dimensione economica, oltre che politica. Le file di questi gruppi sono ingrossate da giovani poveri e senza diritti, privi di un senso di appartenenza nazionale e di prospettive economiche. Questo aspetto viene esacerbato dall’aumento della violenza politica. Il Mali è noto in tutto il mondo per la sua cultura e, fino a poco tempo fa, molti maliani si mantenevano grazie al turismo. Ma da molto tempo questo settore è scomparso nel nord ed è in crisi nel sud. E le cose non miglioreranno dopo gli eventi del 20 novembre.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato dal Guardian. Clicca qui per vedere l’originale.