A più di vent’anni dal massacro di Srebrenica e dal sanguinoso assedio di Sarajevo e di altre città bosniache, i giudici del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (Tpi) hanno condannato l’ex leader serbobosniaco Radovan Karadžić per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, commessi durante la guerra in Bosnia dal 1992 al 1995. L’ex leader è stato condannato per dieci degli undici capi di imputazione a suo carico e dovrà scontare quarant’anni di carcere.

Radovan Karadžić è stato condannato con l’accusa di genocidio per il massacro di Srebrenica nel 1995, la più grave strage commessa in Europa dopo la seconda guerra mondiale.

L’11 luglio 1995, negli ultimi mesi della guerra in Bosnia, le milizie serbobosniache conquistarono l’enclave di Srebrenica dove si erano rifugiati migliaia di profughi – in gran parte musulmani – fuggiti dalla pulizia etnica in corso nella Bosnia orientale.

Srebrenica era considerata dalle Nazioni Unite una zona di sicurezza. L’esercito guidato dal generale Ratko Mladić e i gruppi paramilitari ultranazionalisti provenienti dalla Serbia conquistarono la città: separarono uomini e ragazzi dalle donne e procedettero a esecuzioni di massa, seppellendo i corpi in varie fosse comuni. Secondo le stime, in pochi giorni morirono più di ottomila persone. I 600 caschi blu olandesi posti a difesa dell’area non intervennero.

È stata riconosciuta anche “una responsabilità individuale” all’ex leader serbobosniaco per il sanguinoso assedio di Sarajevo, durato tre anni.

I giudici del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia hanno assolto “per insufficienza di prove” l’ex leader per una delle due accuse di genocidio per i massacri compiuti in sette villaggi bosniaci.

Oltre a Karadžić, è sotto processo anche il generale serbobosniaco Ratko Mladić, e i due principali responsabili dei servizi segreti serbi, Jovica Stanišić e Franko Simatović, per i quali la procura del Tpi ha richiesto la riapertura del procedimento dopo una prima sentenza di assoluzione.

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