L’Eritrea festeggia l’indipendenza ma sprofonda nel totalitarismo
Venticinque anni dovrebbero essere una bella età, ma non per l’Eritrea che celebra un quarto di secolo di indipendenza questa settimana con numerose cerimonie. Un’indipendenza ottenuta dopo una sanguinosa lotta contro l’Etiopia (il conflitto è durato trent’anni, dal 1961 al 1991).
In questo piccolo paese del Corno d’Africa dove vivono poco più di cinque milioni di abitanti (esclusi gli emigrati), il totalitarismo del presidente Isaias Afewerki ha soffocato ogni libertà. Eppure negli anni novanta c’è stato molto ottimismo.
Purtroppo le “forze di liberazione” di ieri si sono trasformate in un partito unico – il Fronte popolare per la democrazia e la giustizia (Fpdj) fondato nel 1994 – che ricorre spesso alla repressione. Arresti arbitrari, esecuzioni fuori di ogni procedura legale e tortura rappresentano una triste realtà, denunciata in più di un’occasione dalle ong di difesa dei diritti umani. Di conseguenza l’Eritrea, ex colonia italiana, si è chiusa in se stessa, diventando uno degli Stati più isolati del mondo. Il paese è ormai conosciuto con il soprannome poco invidiabile di “Corea del Nord d’Africa”.
La teoria del complotto internazionale
Privati dei i diritti fondamentali, i giovani, uomini e donne, che possono essere chiamati alle armi per un periodo indeterminato, pensano a una sola cosa, fuggire da una dittatura paranoica. Ogni settimana centinaia di eritrei, soprattutto i più giovani, prendono la strada dell’esilio verso l’Europa passando per la Libia. E oggi formano uno dei più grossi contingenti di profughi nel vecchio continente dopo i siriani, gli afgani e gli iracheni.
Ma tutto questo non sembra indurre Afewerki a riconoscere le sue colpe. Nel parlare di questa emigrazione di massa, l’autocrate di Asmara al potere da 23 anni ha denunciato il “sabotaggio economico” orchestrato dalla comunità internazionale per “creare povertà e carestia”. Secondo lui l’obiettivo sarebbe quello di “provocare una situazione di crisi nel paese”.
(Traduzione di Andrea De Ritis)