Venticinque anni fa cadeva un gigante, travolto dalle nebbie fuligginose della storia. In quel 26 dicembre 1991, all’indomani delle dimissioni di Mikhail Gorbaciov, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss) veniva ufficialmente sciolta dal Soviet supremo, in un’atmosfera incredibilmente pacifica.

Un atto di morte firmato a 69 anni, che segnava la scomparsa di un blocco nato sulle basi e sugli ideali della rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917, ma soprattutto la sua sconfitta nella guerra fredda con gli Stati Uniti.

Un quarto di secolo dopo questo importante avvenimento, cosa rimane di tutto questo? Anche se alcuni coltivano ancora un’autentica nostalgia per l’epoca sovietica (l’ex agente del Kgb Vladimir Putin ha definito la caduta dell’Unione Sovietica la “peggiore catastrofe del ventesimo secolo”), altri invece non la rimpiangono e vi vedono una rottura positiva, foriera di sviluppo e di progresso.

Usa Today parla di questa ambivalenza di sentimenti e descrive quello che è cambiato. Perché con il tempo i cambiamenti sono stati moltissimi: le disparità di ricchezza sono aumentate, gli ex paesi satellite si sono allontanati e, cosa ancora più grave agli occhi del Cremlino, una parte di essi si è voltata verso l’occidente.

Nel frattempo gli “stan”, i paesi dell’Asia centrale un tempo dipendenti da Mosca (come l’Uzbekistan), hanno raggiunto una certa stabilità economica e sociale, ma spesso attraverso una repressione più o meno mascherata. Anche in Russia la democrazia si è indebolita.

Come spiega su Foreign Policy Julia Ioffe, specialista di storia sovietica, la Russia è riuscita a “rinegoziare i termini della sua resa”. Passata da impero temuto a una nazione irrisa, una sorta di “Alto Volta (vecchio nome del Burkina Faso) con i missili”, la Russia si è presa la sua rivincita contro questa “occidentalizzazione” che le è stata imposta e che ha finito per odiare.

In un articolo sul New York Times, la ricercatrice di Stanford Kathryn Stoner ritiene che gli Stati Uniti abbiano sbagliato nel pensare che la Russia postsovietica non fosse più un attore fondamentale della scena internazionale. A sua volta l’editorialista Mary Dejevsky pensa che Washington, invece di chiederle continuamente di cambiare, dovrebbe fare lo sforzo di capirla meglio.

Cosa ci vorrebbe oggi? La saggezza di un Gorbaciov, che sapeva mettere il benessere dei suoi connazionali al di sopra del proprio interesse, raccomanda Jan Sherbin, creatrice di Glasnost Communications, un’organizzazione di Cleveland che cerca di agevolare l’avvicinamento tra gli statunitensi e i popoli dell’ex Unione Sovietica.

(Traduzione di Andrea de Ritis)

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