“Ho pensato che fossimo spacciati”. Quando a marzo è esplosa l’epidemia di covid-19 Emmanuel Bamfo, capo della start-up Globe, fondata un anno fa da sei persone, ha pensato che avrebbe dovuto cercarsi un altro lavoro. La sua azienda funzionava come un Airbnb a breve termine: un’applicazione permetteva agli utenti di affittare le proprie abitazioni per alcune ore, interamente o anche solo una parte, come la camera da letto o il bagno. Un’offerta diventata evidentemente poco allettante durante una pandemia.
Ma alla fine, anziché chiudere, Bamfo ha deciso di rimodulare il suo servizio. Ora gli utenti dell’applicazione possono “comprare” un po’ di tempo in appartamenti vuoti che in circostanze normali sarebbero offerti in affitto per periodi più lunghi su altri siti. Pagando tra 25 e 125 dollari l’ora è possibile affittare un appartamento a San Francisco. Un’ottima soluzione per chi vuole lavorare per un po’ senza bambini tra i piedi o ha bisogno di un cambio di ambiente. La domanda per questo genere di servizi sembra elevata, al contrario dell’offerta. L’applicazione ha una lista d’attesa su scala mondiale di oltre 113mila persone (l’azienda deve verificare l’identità dei potenziali affittuari) e sostiene di avere diecimila appartamenti nel suo database.
Non è ancora chiaro se il successo di Globe sia destinato a durare nel tempo. Alcuni funzionari del comune di San Francisco hanno scritto all’azienda facendo presente che il servizio viola l’ordinanza di confinamento della città. Tuttavia l’iniziale successo del nuovo servizio di Globe dimostra che le previsioni catastrofiche per l’“economia della condivisione” dopo l’avvento del covid-19 potrebbero rivelarsi esagerate. Più che decretarne la fine, il virus sta obbligando il settore a reinventarsi. Questa evoluzione, tra le altre cose, potrebbe comprendere anche un ritorno alle sue radici socialiste.
Il fenomeno ha spianato la strada a un’altra economia della condivisione, che mira a generare profitti creando mercati online
La grave recessione provocata dalla crisi finanziaria del 2007-2009 aveva contribuito a creare una spinta ideologica verso un uso della tecnologia per costruire un’economia in cui il consumo sarebbe stato più sociale, temporaneo e sostenibile. Invece di possedere oggetti, le persone ne avrebbero condiviso l’utilizzo attraverso applicazioni e altri servizi online. “Non voglio oggetti, voglio il piacere che ne deriva”, disse Rachel Botsman, una delle promotrici della nuova tendenza. L’utilizzo di servizi peer-to-peer per la fruizione di libri, cd, attrezzature elettroniche e automobili non è mai decollato, perché molte di queste attività non generavano il denaro necessario per essere autosufficienti. Ma il fenomeno ha spianato la strada a un’altra economia della condivisione, che mira a generare profitti creando mercati online dove s’incontrino l’offerta e la domanda. Startup di questo genere sono riuscite a trasformarsi, tramite quello che in gergo si definisce “blitz-scaling”, in grandi aziende globali. Simili dimensioni promettevano grandi introiti e attiravano enormi capitali
Airbnb, Uber e Bird erano le icone della nuova economia della condivisione. In totale i principali fornitori mondiali di affitti per vacanze, corse in taxi e scooter elettrici hanno incassato oltre trenta miliardi di dollari di finanziamenti. All’apice del successo, la loro valutazione complessiva ha superato i cento miliardi di dollari. A un certo punto si pensava che Airbnb e Uber avrebbero raggiunto la quotazione azionaria più alta di sempre per le start-up tecnologiche. E invece, anche prima dell’avvento del virus, le stelle dell’economia della condivisione avevano già cominciato a spegnersi.
Fare soldi, infatti, è stato più difficile del previsto. Uber aveva bisogno di ingenti contributi economici esterni, mentre mantenere una flotta di scooter elettrici si è rivelato più costoso di quanto Bird avesse immaginato. Inondate di capitale venture, queste aziende si sono allargate in altri mercati. Uber ha deciso di sviluppare automobili a guida autonoma e di consegnare cibo. Airbnb ha valutato l’ipotesi di produrre programmi televisivi e gestire alberghi.
Nel momento in cui è stata quotata in borsa, nel maggio dello scorso anno, Uber aveva perso un totale di 16,6 miliardi di dollari tra il 2016 e il 2019. L’azienda ha ammesso che avrebbe perso altro denaro prima di diventare redditizia, e questo è uno dei motivi per cui l’offerta pubblica iniziale non ha avuto il successo pronosticato. Nel caso di Airbnb l’azienda ha potuto generare profitti per qualche tempo grazie al suo modello d’affari basato su una commissione sull’affitto, ma successivamente ha cominciato a perdere denaro: 322 milioni di dollari nei primi mesi del 2019. La pandemia ha interrotto il progetto di una quotazione in borsa prevista per aprile o maggio.
Quando l’emergenza sanitaria ha praticamente ridotto all’inattività le aziende, si parlava già di attenzione alla redditività e dell’importanza di ridurre i costi. Da allora Airbnb ha dovuto fare i conti con un milione di cancellazioni e un miliardo di dollari di rimborsi. Ad aprile il numero di corse Uber si è ridotto quasi dell’80 per cento rispetto a un anno fa. A fine marzo Bird, a fronte di perdite paragonabili, ha reagito licenziando oltre quattrocento dipendenti, un terzo della sua forza lavoro totale. A inizio maggio è stato il turno di Airbnb, che ha licenziato 1.900 dipendenti, un quarto del suo personale. Anche Uber ha licenziato un quarto dei suoi lavoratori, circa 6.700 persone. Lyft, il suo principale rivale negli Stati Uniti, ha eseguito tagli al personale appena meno drastici.
Ora, oltre ai licenziamenti, le aziende stanno cercando di riconvertire le proprie attività per ripristinare la fiducia dei clienti. Le condizioni sanitarie sono una delle preoccupazioni principali. Airbnb istruisce gli host su come pulire le stanze e ha introdotto un periodo di attesa di 24 ore tra un soggiorno e l’altro (non è obbligatorio, ma gli ospiti potranno vedere sul sito quali host seguono questa indicazione). Gli scooter di Bird vengono regolarmente sottoposti a un “bagno”. Uber verifica che gli autisti indossino una mascherina attraverso una tecnologia automatica che analizza i selfie.
Le aziende hanno inoltre sfruttato la crisi come un’opportunità “per tornare ai princìpi fondamentali”, come ha sottolineato Brian Chesky, il capo di Airbnb. Oggi l’azienda si concentra sugli host che offrono in affitto le loro abitazioni private piuttosto che sui professionisti che gestiscono varie proprietà immobiliari e che rappresentavano una percentuale crescente delle attività di Airbnb. Uber ha cancellato varie attività commerciali, tra cui un progetto di carta di credito per autisti e i servizi di e-bike. Oggi Uber vuole concentrarsi sul suo ruolo di azienda che “muove persone e cose nelle città”, ha dichiarato di recente il suo amministratore delegato, Dara Khosrowshahi.
Ma davvero a queste aziende basterà essere più pulite e agili per rilanciarsi quando le misure di confinamento saranno cancellate? E se l’“economia dell’isolamento” cambiasse le abitudini delle persone al punto tale da rendere la condivisione un’attività marginale? Assisteremo al ritorno in voga della proprietà?
Cambiare abitudini
Tutte e tre le aziende citate prevedono un ritorno della domanda, ma in luoghi diversi e per motivi diversi. Secondo Chesky le persone, anziché effettuare viaggi brevi verso le città più grandi del mondo, sceglieranno mete più vicine a casa e per un tempo più lungo. La durata media dei soggiorni prenotati su Airbnb, in effetti, è quasi raddoppiata, raggiungendo una settimana, mentre la quota di prenotazioni nazionali è più che raddoppiata e ormai rappresenta l’80 per cento del totale. I soggiorni a meno di trecento chilometri da casa, che rappresentavano il 33 per cento delle prenotazioni, oggi costituiscono il 56 per cento. Chesky prevede anche di beneficiare dalla possibilità che il lavoro da casa rimanga una pratica diffusa, permettendo alle persone di cambiare residenza per qualche tempo. “Molte persone si dicono: ‘Se le cose stanno così forse non ho bisogno di vivere in città in questo momento’ ”.
Uber e Bird prevedono una migrazione dai trasporti pubblici alle automobili e agli scooter. In futuro le persone potrebbero voler evitare di prendere autobus e treni, ammesso che sia possibile farlo considerando i probabili tagli ai bilanci comunali. Già adesso ci sono segnali in questo senso. Le corse sugli scooter di Bird sono in media il 50 per cento più lunghe rispetto a prima della pandemia. Uber, intanto, mira a inglobare i suoi concorrenti. Nonostante abbia rinunciato al settore delle biciclette elettroniche, infatti, l’azienda ha investito in Lime, il principale rivale di Bird nel campo degli scooter elettrici. Uber vuole anche acquisire Grubhub per rafforzare la sua presenza nel settore della consegna a domicilio di cibo, che spera possa registrare una grande crescita in futuro. “In tempi difficili è logico dedicarsi al consolidamento”, spiega Khosrowshahi, che ha svolto in maniera eccellente questo compito nel suo precedente incarico di capo di Expedia, un sito di viaggi online che ha fagocitato i suoi rivali.
Anche alcune piccole aziende dell’economia della condivisione si mostrano sorprendentemente ottimiste. In luoghi che hanno già revocato alcune misure di confinamento, come la Germania, l’attività è immediatamente ripresa, spiega Nicolas Brusson, il capo di BlaBlaCar, un’azienda presente in 22 paesi che offre un servizio basato sulla condivisione delle spese per i viaggi in automobile. Secondo Brusson la recessione dovuta al coronavirus aumenterà ulteriormente la richiesta di viaggi in auto a basso costo. Tra l’altro, sottolinea Brusson, la pandemia ha costretto BlaBlaCar “a guardare alle sue risorse in maniera diversa”. In futuro l’azienda offrirà più servizi alla sua comunità di guidatori e passeggeri, e ha già sviluppato una nuova applicazione chiamata BlaBlaHelp che permette agli utenti di chiedere ad altri di fare la spesa al posto loro.
Se c’è un esempio di come la pandemia potrebbe riportare l’economia della condivisione alle sue radici, è sicuramente quello di Olio. Basato sulla volontà di ridurre lo spreco alimentare, questo servizio con sede a Londra permette ai suoi utenti di condividere con i vicini il cibo e altri prodotti di cui non hanno più bisogno. “Inizialmente abbiamo vissuto un momento di panico: ci siamo chiesti se un’applicazione di condivisione tra vicini potesse continuare a esistere”, spiega Tessa Clark, capo dell’azienda. Ma dopo aver modificato il servizio introducendo una consegna senza contatto fisico le condivisioni sono aumentate di circa il 50 per cento per il cibo e del 200 per cento per gli altri prodotti.
Secondo Sonali De Rycker, partner della divisione europea di Accel, un’azienda di capitale venture che ha investito sia in BlaBlaCar sia in Olio, dopo la crisi le aziende basate su attività che esistevano prima di internet (come la condivisione del cibo coi vicini) se la passeranno certamente meglio rispetto ai negozi online. De Rycker è convinta che dopo la pandemia i consumatori saranno ancor più propensi a risparmiare denaro o a metterne da parte un po’ attraverso l’affitto di beni e servizi. Aspettiamoci quindi un mondo nel quale gli oggetti passeranno più spesso di mano in mano, anche se dovranno essere attentamente puliti tra un passaggio e l’altro.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale The Economist.
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