La comunità internazionale continua a esercitare una pressione crescente sul governo di Addis Abeba, affinché metta fine all’operazione militare lanciata due settimane fa in Tigrai dal primo ministro Abiy Ahmed, che però afferma che sta per essere lanciata “l’ultima e cruciale” fase contro il governo della ribelle regione settentrionale. In un post sui social network Abiy ha detto che l’ultimatum di tre giorni concesso ai leader e alle forze speciali del Tigrai “è scaduto oggi”.

Il governo ha già effettuato attacchi aerei sul Tigrai, prendendo ufficialmente di mira degli obiettivi militari. Ma secondo le Nazioni Unite al confine tra Sudan ed Etiopia si sta sviluppando una “crisi umanitaria su vasta scala”, con migliaia di persone in fuga ogni giorno a causa dell’operazione militare in corso.

Secondo un portavoce dell’agenzia dell’Onu per i rifugiati, dal 10 novembre almeno quattromila persone hanno attraversato ogni giorno il confine con il Sudan, per un totale di circa 27mila persone.

Migliaia di profughi sono arrivati nel campo di Um Raquba, riaperto d’urgenza nel Sudan orientale, a 80 chilometri dal confine con l’Etiopia.

Disorientati per aver dovuto lasciare la loro casa, gravati dal senso di colpa per aver perso dei familiari durante la fuga e terrorizzati dalle immagini di morte impresse nella loro mente, alcuni profughi etiopi vagano per il campo. Seduta per terra, con indosso una tunica blu e un velo bianco sulla testa, Ganet Gazerdier è rimasta sola. I bombardamenti nella regione etiope del Tigrai non solo hanno distrutto la sua casa a Humera. Hanno ucciso la sua famiglia.

“Abitavo con le mie tre figlie. Quando i colpi d’artiglieria hanno cominciato a piovere sulla nostra casa, sono fuggite in preda al panico in mezzo al buio più totale e non sono più riuscita a trovarle”, spiega la donna di 75 anni.

Ganet si è unita alla colonna dei profughi. “Ho incontrato alcuni amici che stavano scappando e li ho seguiti”, racconta. Lungo il percorso “ho visto corpi smembrati dalle esplosioni, altri putrefatti, per terra, uccisi a coltellate”, aggiunge. Ganet ferma altri profughi per raccontare la sua storia, ma nessuno le presta troppa attenzione perché ognuno ha vissuto la sua dose di disgrazie.

“Ho un’altra figlia che vive a Khartoum, ma non conosco il suo indirizzo. Come faccio a trovarla in quella grande città?”, mormora la donna.

Il terrore
Il 3 novembre il primo ministro etiopico Abiy Ahmed ha lanciato un’offensiva militare contro la regione dissidente del Tigrai. L’operazione ha già provocato centinaia di morti e costretto migliaia di persone alla fuga verso il Sudan.

Abiy ha accusato il Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf), che amministra questa regione nel nord del paese, di aver superato una “linea rossa” attaccando due basi dell’esercito federale, giustificando in questo modo la risposta militare.

Secondo Gerdo Burhan, 24 anni, i giovani tigrini che cadono in mano ai soldati dell’esercito federale vanno incontro a un destino terribile. “Ti puntano un’arma addosso e ti chiedono se fai parte dell’esercito del Tigrai. Alla minima esitazione sei morto. Ti sparano e lasciano il tuo cadavere per strada”.

Oggi gli operai lavorano a pieno regime per accogliere 25mila persone, in un campo dove ne sono già arrivate 2.500

Dire di essere un civile non migliora di molto le prospettive. “Ti picchiano, a volte fino ad ammazzarti. O ti portano in un posto sconosciuto da dove probabilmente non tornerai vivo”, aggiunge Gerdo. “È il terrore”. Il ragazzo è riuscito a fuggire, ma ha perso il padre, la madre e le due sorelle. “Non so se sono ancora vivi”.

Davanti al flusso di profughi, il Sudan ha deciso di riaprire il campo di Um Rakuba: vent’anni fa, prima che fosse chiuso, il campo aveva accolto molti etiopici che scappavano dalla carestia.

Oggi gli operai lavorano a pieno regime per accogliere 25mila persone, in un campo dove ne sono già arrivate 2.500.

Molti profughi, passato il momentaneo sollievo per aver evitato la morte, sono assaliti dai sensi di colpa, accentuati dall’incertezza sul destino dei familiari che hanno abbandonato.

Fuggendo dai soldati, Messah Geidi ha perso di vista la moglie e il figlio di quattro anni e non riesce a darsi pace: “Non so dove sono finiti, non so se sono ancora vivi. Sono scappato perché a Mai Kadra i soldati uccidevano i giovani come fossero montoni”.

Secondo Amnesty international a Mai Kadra, nel sudovest del Tigrai, è probabile che ci sia stato un massacro con centinaia di vittime. Secondo le Nazioni Unite potrebbe essere un crimine di guerra.

A Um Rakuba Takli Burhano, 32 anni, racconta di essere sfuggito per caso alla morte. Arrestato a Mai Kadra, è stato picchiato per ore. Poi i soldati hanno deciso di ucciderlo. “Ma uno di loro si è avvicinato al capo e ha detto: ‘Non farlo, è stato il mio professore’. Così mi ha salvato la vita”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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