Il 3 ottobre il consorzio di giornalismo investigativo internazionale Icij ha svelato i Pandora Papers, una gigantesca inchiesta basata su 11,9 milioni di documenti su beni registrati offshore, cioè in territori dove vigono legislazioni particolarmente permissive per quanto riguarda il fisco, di alcune delle persone più ricche e potenti del pianeta. Sono coinvolti 35 leader mondiali e centinaia di personalità, imprenditori, politici e funzionari statali. L’inchiesta coinvolge oltre 90 paesi, su un arco temporale di 25 anni, dal 1996 al 2020.

L’Icij, che ha già pubblicato i Panama Papers nel 2016 e i Paradise Papers nel 2017, ha definito i Pandora Papers “la più grande inchiesta nella storia del giornalismo”. Più di 600 giornalisti hanno lavorato due anni per analizzare il contenuto di 2,9 terabyte di dati contenuti in migliaia di documenti, immagini, email e fogli di calcolo.

I dati sono stati fatti trapelare da 14 aziende di servizi finanziari basate nei cosiddetti paradisi fiscali: luoghi come Isole Vergini britanniche, Monaco, Panama, Singapore e Svizzera, con imposte sulle aziende basse o inesistenti, che rendono facile aprire ditte di comodo, create con finalità di evasione o elusione fiscale.

Ci sono anche molti italiani coinvolti, tra celebrità, politici e mafiosi

Dai Pandora Papers emergono parecchie informazioni sull’economia offshore globale, che permette a miliardari, politici e criminali di riciclare denaro, nascondere l’entità della propria ricchezza e pagare poco o nulla di tasse. Secondo il Fondo monetario internazionale, il ricorso ai paradisi fiscali equivale a una perdita di almeno 600 miliardi di dollari di tasse all’anno.

In molti dei casi svelati dai Pandora Papers non si parla tanto di evasione fiscale quanto di elusione. Tony Blair, per esempio, ha sfruttato delle lacune legali per non pagare 312mila sterline di imposte su un palazzo comprato nel 2017. Come scrive il Guardian, la mossa non è illegale, ma “evidenzia una scappatoia che permette ai ricchi proprietari di non pagare una tassa che un britannico qualunque deve invece affrontare”.

Le rivelazioni mettono in difficoltà leader internazionali come il re giordano Abdullah II, che governa un paese che affronta difficoltà economiche e che dipende molto dagli aiuti internazionali. L’inchiesta mostra che il re ha allestito una rete di aziende offshore, accumulando diverse proprietà di lusso per un valore complessivo di oltre cento milioni di dollari. La casata reale si è difesa adducendo motivazioni di privacy e dicendo che il sovrano si è assunto personalmente tutte le spese.

Ci sono anche molti italiani coinvolti, tra celebrità, politici e mafiosi. I primi tre nomi rivelati sono quelli del boss della camorra Raffaele Amato, dell’allenatore Carlo Ancelotti e di Delfo Zorzi, condannato in primo grado per la strage di Piazza Fontana e poi assolto.

C’è poi il primo ministro ceco, il miliardario “antisistema” Andrej Babiš, che ha comprato 16 proprietà nel sud della Francia, tra cui un castello da 15 milioni di euro, tramite un’azienda offshore. La polizia ceca ha aperto un’indagine sul caso.

Gli Stati Uniti non ne escono indenni: l’inchiesta mostra che stati come il South Dakota o il Nevada proteggono miliardi di dollari legati a individui accusati di crimini finanziari grazie a leggi sulla segretezza dei conti bancari. Un grattacapo per il presidente Joe Biden, che ha fatto sua la lotta ai paradisi fiscali. Dopo la pubblicazione dei Pandora Papers, Biden ha ribadito di voler “contrastare gli schemi sleali che danno un vantaggio alle grandi aziende”. Diversi governi hanno affermato che indagheranno su quanto contenuto nei documenti presentati dall’i Icij.

Anche i Panama Papers – 11,5 milioni di documenti confidenziali pubblicati nel 2016, che menzionavano leader e funzionari governativi di oltre quaranta paesi – avevano suscitato simili promesse, portando tra l’altro alla caduta dei primi ministri di Islanda e Pakistan e a diverse indagini in Europa e negli Stati Uniti. All’epoca, diversi paesi avevano annunciato di voler cominciare a contrastare con maggior forza il ricorso ai paradisi fiscali. Eppure, secondo Richard Brooks, autore di The great tax robbery, siamo ancora molto lontani dal trovare una soluzione alla questione. “I Panama Papers hanno fatto un po’ di pressione per l’apertura dei paradisi fiscali, ma non è stato sufficiente e ci sono già prove di qualche passo indietro”, ha detto alla Bbc.

Il direttore dell’Icij Gerard Ryle ritiene però che i Pandora Papers possano avere un impatto maggiore, considerato che la pandemia non ha fatto che esacerbare le ineguaglianze. “Si tratta di denaro perso, che avrebbe potuto essere usato per la ripresa economica dalla pandemia”, ha affermato. “Ci stiamo perdendo tutti perché in pochi stanno guadagnando”.

A cura di Viola Serena Stefanello

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