Il giorno dopo l’assalto al Campidoglio di Washington da parte di centinaia di persone, incitate dall’allora presidente uscente Donald Trump, per ribaltare il risultato elettorale che aveva sancito la sua sconfitta contro Biden, il presidente del Brasile Jair Bolsonaro, definito il “Trump dei tropici”, ha lanciato un avvertimento inquietante. Anche lui dubitava del corretto svolgimento delle elezioni nel suo paese: “Se non troviamo un modo per verificare i voti avremo problemi più grandi degli Stati Uniti”, aveva detto ai suoi sostenitori.

I voti a cui si riferiva saranno conteggiati a ottobre, quando la maggiore democrazia dell’America Latina terrà le elezioni più importanti degli ultimi decenni. In quell’occasione si scontreranno due pesi massimi della politica locale: Bolsonaro, ex capitano dell’esercito che ha più volte elogiato la dittatura militare brasiliana in carica tra il 1967 e il 1985, e l’ex metalmeccanico Luiz Inácio Lula da Silva, presidente dal 2003 al 2010.

Lula era stato escluso dalle precedenti elezioni, nel 2018, in seguito a una condanna per corruzione a cui è seguita l’incarcerazione. Per vincere Bolsonaro aveva sfidato i pronostici e un accoltellamento, ma stando ai sondaggi è improbabile che vinca di nuovo: Lula è in netto vantaggio.

Bolsonaro, invece, è in difficoltà: non può più dirsi un outsider della politica, e dopo un mandato segnato da diversi scandali è poco credibile come paladino anti-corruzione. E mentre nel paese la fame sale a livelli mai visti da anni, in molti ricordano che in passato le politiche di Lula (messe a punto durante il boom delle materie prime) hanno contribuito a saziarli. Pochi, invece, dimenticano la cattiva gestione della pandemia di Bolsonaro, che ha causato oltre 660mila morti.

Strategie populiste
Nessun presidente in carica ama l’idea di una possibile disfatta. Bolsonaro teme che, se Lula vincesse, il Brasile diventerebbe un altro Venezuela, un “vagone incatenato al treno” del socialismo latino-americano, come ha detto di recente a Tucker Carlson, giornalista statunitense vicino a Trump. Ma è una forzatura: Lula appartiene alla sinistra democratica, ben lontana dai socialisti brutali e incompetenti che guidano il Venezuela.

Alcuni sospettano che Bolsonaro abbia semplicemente paura. Perdere la presidenza, infatti, significa perdere l’immunità e il controllo sulla polizia federale, e questo lo esporrebbe a tante azioni legali e a minacce di procedimenti penali per questioni come l’uso improprio di fondi pubblici, che lui nega. “Ho tre alternative per il mio futuro: l’arresto, la morte o la vittoria”, ha dichiarato ad agosto del 2021. Ma dopo averci pensato un po’, ha escluso la prima opzione.

Bolsonaro sta instillando dubbi sul procedimento elettorale. Ai sostenitori assicura che sarà sconfitto solo se la competizione verrà manipolata

Giocando secondo le regole, la probabilità di vincita è scarsa. Per questo il presidente sta cercando di riscriverle. Il 13 luglio i suoi alleati al Congresso hanno fatto approvare un emendamento costituzionale che, nell’anno delle elezioni, consente al governo di superare i precedenti limiti di spesa. In questo modo Bolsonaro potrà lanciare nuovi programmi di welfare ed espandere quelli esistenti, molto popolari, proprio prima del voto. L’attuale presidente sta anche instillando dubbi sul procedimento elettorale. Ai sostenitori assicura che sarà sconfitto solo se la competizione verrà manipolata. Questo suggerisce che, se dovesse perdere, potrebbe contestare il risultato. Anche se non è chiaro fino a che punto oserà spingersi e chi sarà pronto a sostenerlo se giocasse sporco.

Tribunale elettorale
Quello brasiliano è un sistema elettorale centralizzato. Negli Stati Uniti Trump ha intentato oltre sessanta cause legali e ha cercato di intimidire i funzionari elettorali locali perché “trovassero” altri voti a suo favore per rovesciare l’esito del voto. Tattiche del genere non funzionerebbero in Brasile, dove dagli anni quaranta le elezioni vengono organizzate e passate al vaglio da tribunali elettorali indipendenti. L’organo principale è il Tribunale superiore elettorale (Tse), a cui fa capo tutto ciò che riguarda le elezioni presidenziali. Sette giudici, fra cui tre del Tribunale supremo federale (ovvero la Corte suprema brasiliana), restano in carica per due anni.

Il sistema su cui vigilano di solito funziona senza problemi. Il voto è obbligatorio per gli adulti sotto i settanta anni e facoltativo per i giovani di 16 e 17 anni. I cittadini scelgono il presidente, il governatore e gli altri rappresentanti inserendo i numeri corrispondenti ai candidati sulla tastiera di un’urna elettronica. Se al primo turno nessun candidato ottiene più del 50 per cento dei voti, quattro settimane dopo i due candidati con il maggior numero di preferenze vanno al ballottaggio. Se non vengono riscontrate irregolarità, il Tse conferma il vincitore con un certificato che viene poi presentato formalmente al Congresso.

In caso di sconfitta, Bolsonaro avrebbe a disposizione diverse settimane prima di dover riconsegnare la fascia presidenziale all’inizio di gennaio. E potrebbe impugnare legalmente il risultato facendo ricorso al Tse. Sono due le tipologie di azioni legali che possono essere inoltrate, spiega Henrique Neves, ex giudice del tribunale. Innanzitutto quella per un’indagine giudiziaria elettorale, che può essere presentata prima delle votazioni e in genere riguarda irregolarità durante la campagna elettorale.

La seconda azione, più seria, è l’impugnazione di un mandato elettorale. La Costituzione brasiliana stabilisce che un mandato può essere formalmente indagato se ci sono prove di abusi economici (come spese elettorali illegali), corruzione (come l’acquisto di voti) o frode (per esempio manomissione delle urne). L’azione legale deve essere depositata entro quindici giorni dalla certificazione del vincitore, che avviene a dicembre. Se dovesse emergere un reato grave, il voto potrebbe essere annullato e potrebbe essere proclamato un nuovo vincitore. Un simile procedimento coinvolgerebbe moltissimi soggetti. Altri partiti politici potrebbero fornire delle prove. Il procuratore generale, Augusto Aras, alleato di Bolsonaro, potrebbe offrire un parere legale. Ma la decisione finale spetterebbe al Tse e al Tribunale supremo federale.

Storicamente contestazioni di questo genere sono rare nelle elezioni presidenziali (sebbene siano più diffuse in quelle amministrative). La prima azione del Tse contro una presidente appena eletta risale al 2014, quando l’opposizione contestò il mandato di Dilma Rousseff, successora di Lula. Tuttavia in quell’occasione si mosse con cautela, posticipando qualsiasi giudizio finché il Congresso mise Rousseff sotto impeachment per diverse accuse, tra cui raggiri contabili per mascherare il reale deficit di bilancio. Non sono andate a buon fine neanche le denunce del Partito dei lavoratori di Lula, secondo cui le elezioni del 2018, vinte da Bolsonaro, sarebbero state influenzate dalle fake news diffuse dai sostenitori del presidente. Alexandre Rollo, esperto di diritto elettorale, afferma che, in assenza di illeciti sostenuti da prove solide, i giudici non annullano i risultati delle consultazioni. È quindi molto improbabile che destituiscano il vincitore.

Rispetto a Trump, per Bolsonaro potrebbe essere più difficile convincere un gran numero di persone che un’elezione regolare sia stata ‘rubata’

Ma Bolsonaro potrebbe decidere di non fare affidamento solo sui tribunali. I suoi rapporti con i giudici non sono sempre cordiali. Ad aprile ha graziato un deputato che aveva minacciato di gettare un membro del Tribunale supremo federale in un bidone della spazzatura, e si riferisce a Edson Fachin, il capo del Tse, come a “quello che ha fatto uscire Lula di prigione”. In qualità di giudice della Corte suprema, Fachin aveva annullato le condanne di Lula per motivi procedurali quando è emerso che era stato processato nel tribunale sbagliato.

Il 7 luglio Bolsonaro ha insinuato che Fachin “conosceva già” il risultato delle prossime elezioni, e spacciava simili sciocchezze continuando a ripetere che il sistema di voto elettronico brasiliano è suscettibile di frodi. In Brasile questo sistema viene utilizzato dal 1996 senza prove di irregolarità. Il team legale di Bolsonaro non è ancora riuscito a dimostrare la veridicità di questa accusa, per la quale il presidente è stato indagato.

Rispetto a Trump, per Bolsonaro potrebbe essere più difficile convincere un gran numero di persone che un’elezione regolare sia stata “rubata”. Il presidente brasiliano non può sostenere che i suoi avversari abbiano manipolato i risultati dei voti postali, perché il Brasile non ha voti postali, osserva Anthony Pereira, docente di studi brasiliani al King’s College di Londra. E il Congresso ha respinto la proposta di introdurre un sistema di controllo cartaceo dei voti elettronici con l’emissione di una ricevuta per ogni votante. A maggio, il 73 per cento dei brasiliani ha dichiarato di fidarsi del voto elettronico.

Eppure il presidente ha costretto il tribunale elettorale sulla difensiva. Tra settembre 2021 e maggio 2022, il dipartimento di sicurezza cibernetica delle forze armate ha presentato ottantotto interrogazioni su presunte vulnerabilità del sistema elettorale, molte delle quali riecheggiavano i discorsi di Bolsonaro. Di solito il ruolo delle forze armate nelle elezioni si limita al trasporto delle urne e alla protezione degli elettori dagli attivisti violenti. Quest’anno il Tse ha invitato i vertici delle forze armate a entrare in una “commissione per la trasparenza” per smentire le accuse di essere un organismo troppo reticente. Ma secondo il quotidiano O Estado de São Paulo, i militari stanno pianificando un monitoraggio autonomo delle elezioni, che prevede il controllo delle urne e la verifica dello spoglio dei voti.

Gioca pulito, Jair
Bolsonaro sembra intenzionato a minare la fiducia nelle istituzioni democratiche. Prima delle ultime elezioni, i suoi sostenitori hanno diffuso un gran numero di fake news sui suoi avversari. Da allora l’universo parallelo di notizie pro-Bolsonaro si è dilatato. Su WhatsApp e Telegram i fan del presidente liquidano i sondaggisti come galoppini elettorali e fanno circolare sondaggi non scientifici.

I siti web che diffondono disinformazione “spuntano come funghi”, dice Patricia Campos Mello, una giornalista che di recente ha ottenuto un risarcimento perché Bolsonaro aveva insinuato che avesse offerto prestazioni sessuali a una fonte. Secondo Datafolha, una società di sondaggi che i bolsonaristi odiano, per oltre un terzo dei brasiliani esiste “una grande possibilità” che le elezioni siano truccate.

Il Brasile non ha mai affrontato il suo passato dittatoriale. Nell’esercito c’è ancora chi crede che sia doveroso intervenire per proteggere la democrazia

I contrasti con la magistratura e i mezzi di informazione coincidono con gli eccessi di Bolsonaro in ambito parlamentare, dove ha conquistato consensi distribuendo incarichi ministeriali e assegnando ai legislatori contributi economici poco trasparenti, provenienti da un “bilancio segreto” (com’è stato definito dalle testate locali) che a giugno ammontava a 4,9 miliardi di reais, pari a 926 milioni di euro.

Sempre a giugno, per poco i senatori hanno approvato la clausola di un emendamento costituzionale che avrebbe concesso al presidente ampi poteri straordinari su politiche come i sussidi statali (allo stato attuale Bolsonaro ha quasi otto miliardi di euro in più da spendere). Il testo era stato inserito di nascosto nella versione che sarebbe stata votata quel giorno e l’opposizione se n’è accorta solo all’ultimo minuto.

Beatriz Rey, ricercatrice alla Johns Hopkins University, paragona questa mossa ai trucchi autocratici di Viktor Orban, l’autoritario primo ministro ungherese. Ma questo confronto è una forzatura. Orban, che Bolsonaro ha incontrato quest’anno, ha completamente asservito i tribunali e i mezzi di informazione del suo paese, piegando a suo favore la competizione elettorale. Bolsonaro non è riuscito a fare altrettanto.

Un passato dittatoriale
Tuttavia gli avversari temono che, se le elezioni si terranno troppo presto, l’attuale presidente potrebbe sostenere che la vittoria gli è stata rubata, cercando di ricorrere a mezzi sleali. Potrebbe incitare la folla all’insurrezione, come ha fatto Trump l’anno scorso. Potrebbe spingere la polizia militare o l’esercito all’ammutinamento. Potrebbe persino tentare un colpo di stato. Quest’ultima opzione è estrema, ma il Brasile è uscito da una dittatura militare solo nel 1985 e Bolsonaro ha parlato con nostalgia dei bei tempi andati, quando erano le forze armate a comandare. “Qualsiasi brasiliano che non sia preoccupato non sta prestando attenzione”, afferma Wallace Corbo della Fundação Getúlio Vargas, uno dei più importanti think tank al mondo.

Il Brasile non ha mai affrontato davvero il proprio passato dittatoriale. Nell’esercito c’è ancora chi crede che sia doveroso intervenire per “proteggere” la democrazia. Walter Braga Netto, generale in pensione e candidato alla vice presidenza di Bolsonaro, ha occasionalmente utilizzato un linguaggio minaccioso: “O le elezioni saranno trasparenti, o non ci terranno”, ha detto nel 2021. Nessuno pensava che l’esercito statunitense avrebbe appoggiato il tentativo di colpo di stato di Trump. In Brasile, non tutti sono sicuri di come potrebbero comportarsi i vertici dell’esercito.

Altri sono più ottimisti. “Non credo che i militari sarebbero inclini a intraprendere una qualsiasi avventura politica per difendere Bolsonaro”, afferma Vinícius de Carvalho del King’s College di Londra. Le condizioni sono molto diverse dal 1964, quando l’esercito prese il potere per l’ultima volta. Allora era appoggiato dalle élite imprenditoriali e dai mezzi di informazione statunitensi e da quelli vicini al centrão, un gruppo di politici con le mani in pasta. È difficile immaginare che oggi questi gruppi appoggerebbero un colpo di stato. Nemmeno la maggior parte dei sostenitori del presidente è favorevole all’idea.

Il rischio maggiore è una spaccatura all’interno delle forze armate, ipotizza Carvalho. Nel 1964 fu un tenente generale a dare il via al golpe, osserva, non un general de exército (il grado più alto nella gerarchia militare brasiliana). Gli analisti guardano anche agli agenti della polizia militare, che sono più numerosi dei soldati brasiliani. Molti di loro sostengono l’attuale presidente, ed è possibile che in caso di sconfitta alcuni si uniscano alle proteste o si rifiutino di sedare le rivolte pro-Bolsonaro.

Questo è l’esito più probabile. Le prossime elezioni hanno molto in comune con alcune delle esplosive dispute elettorali degli ultimi anni in America Latina, fa notare Ivan Briscoe di Crisis Group, un’organizzazione non governativa transnazionale che offre consulenza sulla prevenzione e sulla risoluzione dei conflitti. “Il popolo è pronto a combattere per la democrazia”, dice José Carlos Bernardi, un giornalista che sostiene Bolsonaro.

Il 9 luglio una guardia carceraria federale pro-Bolsonaro, in seguito a un diverbio, ha sparato e ucciso un militante del partito dei lavoratori di Lula. Il presidente ha condannato l’omicidio, ma i suoi sostenitori restano agguerriti. C’è chi teme che il 7 settembre, data che segna i duecento anni di indipendenza del Brasile dal Portogallo, qualcuno proverà a bloccare le elezioni.

Le cose, però, potrebbero andare diversamente. In caso di sconfitta, Bolsonaro potrebbe negoziare la sua uscita di scena in cambio dell’immunità tramite quella che i politologi chiamano “transizione pattizia”. È così che in passato finì il regime militare. Ma se nessuno verrà chiamato a rispondere, in pochi saranno soddisfatti: che questa sia l’opzione meno pericolosa per il paese è un triste atto d’accusa contro il Brasile di Bolsonaro.

(Traduzione di Davide Musso)

Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale britannico The Economist.

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