Alle 16.20 del 13 novembre 2022 un’esplosione ha rotto la tranquillità della domenica pomeriggio sul noto viale Istiklal, nel centro di Istanbul, un’arteria commerciale molto frequentata dai turisti turchi e stranieri, piena di ristoranti e negozi. Una testimone intervistata dalla tv Al Jazeera ha detto di aver udito un boato, che le era sembrato provenire da un cantiere, ma in realtà era stato provocato da una bomba che, oltre a mandare in frantumi le vetrine dei negozi circostanti, ha ucciso sei persone (tra cui dei bambini) e ne ha ferite un’altra ottantina.
Il giorno dopo, i passanti hanno reso omaggio alle vittime posando dei garofani rossi sul luogo dell’esplosione. La metà dei feriti sono stati dimessi dagli ospedali, ma gli altri sono ancora ricoverati, di cui due in condizioni molto gravi. È stato l’attentato più sanguinoso degli ultimi cinque anni per la Turchia. In questo ultimo periodo il paese ha goduto di una relativa calma, dopo aver vissuto tra il 2015 e il 2017 una lunga stagione di terrorismo, culminata nell’attentato della notte di Capodanno del 2017, quando un uomo armato fece irruzione in un locale notturno di Istanbul uccidendo 39 persone.
Le reazioni di Erdoğan
La sera dell’attacco a viale Istiklal, poco prima di partire per il vertice del G20 in Indonesia, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan è intervenuto pubblicamente, parlando di un attentato terroristico e promettendo di punire i responsabili. Nessun gruppo ha rivendicato l’attacco, ma il giorno dopo il ministro dell’interno Süleyman Soylu ha puntato il dito contro i gruppi curdi nel nord della Siria e fatto arrestare 46 persone, precisando che l’ordine di attaccare veniva direttamente da Kobane. La città è nota per la battaglia del 2015 in cui le forze curde respinsero l’avanzata dei jihadisti del gruppo Stato islamico.
Oggi Kobane è controllata dalle Forze democratiche siriane (Fds), che sono formate in gran parte dalle Unità di protezione del popolo (Ypg), alleate del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). L’organizzazione, che da decenni si oppone al governo turco in una lotta che è costata la vita a migliaia di persone, ha smentito ogni coinvolgimento, precisando che nelle sue operazioni non prende di mira i civili.
Secondo la polizia turca, la principale indiziata, una donna che avrebbe lasciato la borsa con l’esplosivo vicino a una panchina lungo il viale, avrebbe ammesso di essere stata addestrata da militanti curdi e di essere entrata in Turchia dalla provincia siriana di Afrin, attualmente occupata dalle forze turche. Il portavoce della presidenza turca, Fahrettin Altun, ha subito messo in evidenza che l’accaduto potrebbe minare le relazioni tra Ankara e i suoi alleati occidentali. Ha scritto infatti su Twitter che l’attentato del 13 novembre è una conseguenza “del supporto di alcuni paesi a gruppi terroristici”. Il ministro dell’interno Soylu ha respinto le condoglianze offerte dagli Stati Uniti, accusati di sostenere i curdi.
I giornali turchi filogovernativi invitano il presidente a non abbassare la guardia e ad annientare una volta per tutti i nemici. “La Turchia ha schiacciato le teste dei gruppi terroristi”, scrive Mehmet Barlas su Sabah. In particolare, ha sconfitto “i seguaci di Fethullah Gülen (il religioso musulmano che da anni vive in esilio in Pennsylvania, accusato dal governo turco di aver ideato il fallito golpe del 15 luglio 2016), il Pkk e il gruppo Stato islamico. Abbiamo chiare quali siano le cause del terrorismo e le modalità con cui va combattuto. Gli attacchi contro i civili mettono in evidenza la disperazione di queste organizzazioni. È quando la Turchia è forte che questi episodi cercano di minarne la stabilità. Forse i terroristi credono di stare ancora nella Turchia degli anni novanta. Ma non riusciranno a riportarci al passato”.
Anche Cumhuriyet chiede una risposta forte: “Dobbiamo prendere sul serio la lotta contro i fiancheggiatori del terrorismo, in patria e all’estero. E soprattutto dobbiamo rafforzare i controlli alle frontiere e preparare una lista dei terroristi che sono entrati in Turchia travestiti da richiedenti asilo”.
Per Zvi Barel, un analista del quotidiano israeliano Haaretz, la guerra in Siria ha aperto un nuovo fronte nel conflitto decennale tra Ankara e il Pkk. Oggi la Turchia aspira a controllare una fascia di territorio nel nord della Siria, proprio per tenere sott’occhio le popolazioni curde di quell’area. Ma gli abitanti dei quei luoghi non sono disposti a piegarsi facilmente. Inoltre la Turchia, che ospita più di 3,5 milioni di profughi siriani, di recente ha cominciato a reinsediare migliaia di persone nelle parti del nord della Siria che non sono amministrate da Damasco. Questa decisione ha scatenato l’opposizione dei profughi, che temono per la loro vita e per la loro capacità di trovare mezzi di sostentamento. Barel ricorda che alcuni commentatori turchi hanno parlato dei siriani in Turchia come di una specie di “bomba a orologeria”, anche se non si è a conoscenza di cellule terroristiche nei campi profughi.
In ogni caso l’attentato di domenica rappresenta “un duro colpo per il prestigio del paese, per il turismo che si stava riprendendo dopo la pandemia e per la posizione del presidente Erdoğan”. Immediatamente dopo l’accaduto il governo ha vietato la pubblicazione di informazioni, comprese le foto e i video che erano già stati diffusi sui social network, ufficialmente per “impedire che si diffondesse il panico” e non ostacolare le indagini. In questo momento Erdoğan non può mostrarsi debole: c’è la crisi economica, con la lira turca al collasso e l’inflazione all’85 per cento. Inoltre, a giugno del 2023, si terranno le elezioni e la popolarità del presidente è in caduta libera. “Per questo”, scrive Barel, “non può far vedere che ha perso anche il controllo della sicurezza del suo paese”.
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