Non lasciamo il reddito di base universale in mano ai miliardari
Nel 2020 la Open Research, un’organizzazione non profit di ricerca, ha iniziato un esperimento. Dopo aver selezionato in maniera casuale tremila persone a basso reddito in Texas e Illinois, le ha suddivise in due gruppi. Mille persone hanno ricevuto un reddito garantito mensile di mille dollari per due anni. Le altre duemila, invece, che formavano il gruppo di controllo hanno ricevuto un reddito simbolico di cinquanta dollari al mese.
Un gruppo di controllo serve a fornire un punto di riferimento per valutare gli effetti di una variabile sperimentale, in questo caso il reddito garantito. Il confronto tra chi ha ricevuto mille dollari e chi ne ha ricevuti cinquanta permette di isolare gli effetti specifici del reddito garantito (o almeno di provarci) e poi di attribuire eventuali differenze di comportamento osservate proprio al contesto sperimentale.
L’obiettivo di questo esperimento? Valutare le conseguenze dell’introduzione di un reddito di base universale incondizionato. Il tema è completamente fuori dall’agenda politica, ma non da quella dei dibattiti alternativi che, però, trovano poca visibilità e rappresentanza.
Quando si parla di reddito di base ci sono sempre molte obiezioni, anche se ricercatori di vari ambiti ne rilevano la necessità per risolvere alcune storture del cosiddetto mercato del lavoro. In Italia sappiamo che l’idea di un reddito garantito è stata pressoché distrutta dal modo in cui è stata applicata nella pratica con il reddito di cittadinanza, ma anche dalla retorica moralista che ha portato allo stigma nei confronti dei percettori e che si è manifestata anche nelle scelte lessicali per descrivere le norme a corredo della scelta politica: da misura di contrasto alla povertà – osteggiata da più parti – è diventata una misura di inserimento al lavoro.
“Fondamentalmente”, mi spiegava la ricercatrice Chiara Agostini proprio nel 2020, “c’è un pregiudizio rispetto alla condizione di povertà. È il pregiudizio che vede chi è povero come responsabile della propria condizione. Il pregiudizio per cui sicuramente chiunque preferisce avere un reddito e non fare niente”.
Quattro anni dopo, il pregiudizio è ancora lì. Ma adesso abbiamo un’altra ricerca – ce ne sono varie, in realtà – a dirci se è un pregiudizio con basi solide oppure no. Il gruppo di lavoro ha scoperto che, contrariamente alle aspettative di molti scettici, il reddito garantito non ha portato a un significativo calo della partecipazione al mondo del lavoro. Anzi, in alcuni casi, i beneficiari hanno potuto investire in formazione e sviluppo professionale, migliorando le loro prospettive di carriera a lungo termine. Il benessere psicologico dei partecipanti al gruppo sperimentale è migliorato: il reddito garantito ha ridotto lo stress finanziario; ha permesso alle persone di concentrarsi su aspetti non direttamente legati alla sopravvivenza economica come la salute mentale e le relazioni personali; le famiglie e le persone beneficiarie hanno potuto permettersi di reagire meglio di fronte a spese impreviste e periodi di incertezza economica.
Cosa c’entra tutto questo con le intelligenze artificiali di cui ci occupiamo qui?
Prima di tutto, c’è un legame diretto con una delle personalità più in vista in questo settore. La ricerca è, di fatto, finanziata da Sam Altman, amministratore delegato della OpenAi che produce ChatGpt. In effetti, è grazie al fatto che c’è di mezzo il nome di Altman che la notizia dei risultati di questo esperimento è stata proposta con un po’ di enfasi da alcuni media internazionali come la Cbs e, qualche giorno dopo, è arrivata, senza grande risonanza, anche in Italia. Senza il volano di un personaggio che, per vari motivi, suscita interesse, verosimilmente non ci sarebbe stata nemmeno quella flebile eco.
Poi c’è la questione dei posti di lavoro: nella visione di Altman le intelligenze artificiali sarebbero già pronte – o comunque lo saranno a breve – per una sostituzione di massa. Molti lavori diventeranno – o potrebbero diventare – velocemente obsoleti. Dunque per lui è normale immaginare ammortizzatori sociali a questo problema e iniziare a fare ricerca addirittura quattro anni fa, quando le intelligenze artificiali generative sembravano ancora molto lontane.
Come abbiamo visto con il caso delle Harvard computers, le donne astronome impiegate in complessi calcoli manuali e progressivamente sostituite dalle macchine, stiamo parlando di dinamiche comuni nel mercato del lavoro capitalista, che in effetti hanno subito accelerazioni progressive. Vera o meno che sia la visione di Altman, la questione si porrà prima o poi, come si è già posta in passato. Questo solleva un altro problema: perché non se ne occupano direttamente i decisori politici in maniera visibile?
L’idea di un reddito di base universale non è affatto nuova fra vari pensatori di varie estrazioni politico-filosofiche – anche estremamente diverse fra loro, a volte radicalmente opposte – statunitensi e delle varie contro-culture californiane. In effetti, era una delle proposte della lettera The triple revolution (1964) di cui abbiamo parlato. Ci sono già stati molti progetti pilota (fin dagli anni sessanta del secolo scorso, appunto) e le evidenze che emergono dai test, piaccia o meno, sono sempre le stesse. Uno degli ultimi progetti, quello in Ontario, è stato chiuso anticipatamente dal governo conservatore canadese.
Oggi, con le intelligenze artificiali, abbiamo l’occasione di ripensare radicalmente il mercato del lavoro, che ha dimostrato in più occasioni di essere pieno di problemi: dal tempo non retribuito dedicato al pendolarismo al tempo non retribuito dedicato alle attività di cura; dall’impossibilità di gestire gli imprevisti anche per chi ha un “buon lavoro” all’impossibilità di scegliere liberamente come impiegare il proprio tempo.
Davvero dobbiamo accontentarci del fatto che siano i Sam Altman a occuparsi della questione? Non ci basta che abbiano già l’oligopolio delle intelligenze artificiali?
Questo testo è tratto dalla newsletter Artificiale.
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