Il declino del petrolio saudita
Il 30 gennaio l’Arabia Saudita ha bloccato un piano di espansione della sua capacità di estrarre greggio. Come spiega il Financial Times, il ministero dell’energia ha ordinato all’azienda di stato Saudi Aramco di abbandonare l’ingente investimento (fino a quaranta miliardi dollari, in parte già spesi) con cui Riyadh intendeva passare da dodici a tredici milioni di barili al giorno entro il 2027.
La decisione, scrive il quotidiano britannico, non è dovuta a motivi tecnici né segnala una maggiore attenzione dei sauditi alla crisi climatica. La questione è strettamente economica: nell’ultimo anno e mezzo l’Arabia Saudita ha ripetutamente ridotto la sua produzione di greggio, passando da circa 10,2 a nove milioni di barili al giorno, nel tentativo di tenere alto il prezzo del petrolio. Questo vuol dire che Riyadh potrebbe già ora estrarre almeno tre milioni di barili in più al giorno, con cui rispondere a eventuali rialzi della domanda. Non avrebbe senso, quindi, spendere miliardi di dollari per aggiungere una capacità produttiva che probabilmente non verrebbe sfruttata.
L’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) stima che nel 2024 in tutto il mondo ci sarà un surplus di greggio invenduto a causa del rallentamento della domanda, ma soprattutto della produzione aggiuntiva di paesi che non appartengono all’Opec e quindi non hanno aderito ai tagli dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati dell’Opec+ (l’Opec insieme a un gruppo di produttori guidato dalla Russia). Per esempio il Brasile, la Guyana e gli Stati Uniti.
Nel 2023 gli Stati Uniti, con 13,2 milioni di barili al giorno, hanno raggiunto il record assoluto di estrazione per un singolo paese. La loro azione e quella di altri stati ha di fatto vanificato il progetto con cui Riyadh voleva far salire i prezzi. Per finanziare i suoi faraonici progetti di trasformazione del paese (con opere come un resort grande quanto il Belgio in riva al mar Rosso, con hotel sospesi sull’acqua e una città futuristica grande 33 volte New York che costerà cinquecento miliardi di dollari), il regime saudita avrebbe bisogno di un prezzo del greggio intorno ai 108 dollari al barile (nel tempo la soglia si è spostata progressivamente verso l’alto, perché i costi dei progetti sono lievitati in seguito all’inflazione). Attualmente invece l’oro nero è scambiato a circa ottanta dollari.
L’abbondanza di greggio sui mercati è legata anche all’attività della Russia e dell’Iran, due grandi paesi produttori che sono sanzionati dall’occidente. Il petrolio russo non può essere scambiato a più di sessanta dollari al barile. L’embargo è stato deciso per ridurre le entrate di Mosca e quindi la sua possibilità di finanziare la guerra contro l’Ucraina, ma allo stesso tempo per non togliere dalla circolazione il greggio russo. In realtà in questi mesi il regime di Vladimir Putin, con la complicità degli armatori occidentali (soprattutto greci) e delle compagnie di assicurazione e degli studi legali della city di Londra (vedi Economica del 26 gennaio 2024), è riuscito a vendere il suo petrolio in grandi quantità e spesso a prezzi superiori ai sessanta dollari.
Anche l’Iran ha aggirato le sanzioni: nel 2023 Teheran ha rafforzato la sua produzione di greggio fino 3,2 milioni di barili al giorno, il dato più alto degli ultimi cinque anni, incassando fino a dieci miliardi di dollari. L’Iea sostiene che l’anno scorso l’Iran abbia estratto in media 445mila barili di greggio al giorno in più. Secondo alcuni esperti, non siamo semplicemente davanti a due regimi abili nell’aggirare i divieti: Washington potrebbe aver allentato la presa per far circolare maggiori quantità di greggio. Questo, però, ha comportato pesanti effetti collaterali: Putin ha avuto i mezzi per proseguire la guerra in Ucraina, e l’Iran per finanziare le azioni terroristiche in Medio Oriente (come gli attacchi degli huthi nel mar Rosso).
La decisione dell’Arabia Saudita di non espandere la sua capacità produttiva, quindi, non significa che il mondo comincia ad avere meno bisogno di greggio né tanto meno che l’era del petrolio sia finita. Nonostante i grandi progressi delle fonti d’energia rinnovabili, l’oro nero svolgerà ancora un ruolo centrale nell’economia mondiale, di sicuro insieme al gas naturale. Ma, come fa notare Bloomberg, in futuro la domanda aggiuntiva di petrolio sarà soddisfatta in gran parte da greggio non saudita. “Forse solo se Riyadh accetterà prezzi più bassi, riuscirà a vendere di più”. La verità è che “il mondo sta passando dal greggio di Riyadh al petrolio americano, non solo quello statunitense, ma anche quello del Canada, del Brasile e della Guyana”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.
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