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Il nodo del debito statunitense

Il presidente Joe Biden nel cantiere per una fabbrica della Intel a Chandler, Stati Uniti, il 20 marzo 2024. (Rebecca Noble, Getty Images)

Gli Stati Uniti concederanno alla Taiwan Semiconductor Manufacturing Co. (Tsmc), il colosso taiwanese leader mondiale della produzione di semiconduttori, prestiti per cinque miliardi di dollari e sovvenzioni per 6,6 miliardi per la costruzione di tre impianti in Arizona, scrive Bloomberg. La decisione rientra nel piano di Washington per rafforzare la produzione nazionale di alcuni settori considerati strategici. In base all’accordo preliminare stipulato con il governo americano l’8 aprile, la Tsmc aprirà una terza fabbrica, in aggiunta alle due che erano già previste e che dovrebbero entrare in funzione nel 2025 e nel 2028. I tre impianti costeranno in tutto 65 miliardi.

Il progetto sarà finanziato grazie al Chips and science act (Chips act), una legge approvata nel 2022 dall’amministrazione guidata da Joe Biden per convincere le aziende di semiconduttori a portare i loro impianti negli Stati Uniti promettendo incentivi per almeno 280 miliardi di dollari. La Intel ha già firmato un accordo preliminare che prevede quasi venti miliardi tra prestiti e sovvenzioni, mentre la Samsung Electronics dovrebbe ricevere più di sei miliardi. Il dipartimento del commercio annuncerà a breve un accordo miliardario anche con la Micron Technology.

La quantità di fondi che la Casa Bianca sta mettendo a disposizione del Chips act è davvero impressionante. E lo è ancora di più la mole di finanziamenti assicurata da un’altra legge approvata nel 2022, l’Inflation reduction act (Ira), che si propone di attirare negli Stati Uniti le aziende specializzate in tecnologie innovative e sostenibili dal punto di vista ambientale. L’Ira aveva un bilancio iniziale di 391 miliardi di dollari, ma ora si prevede un conto di almeno mille miliardi. Tutti questi soldi serviranno a rafforzare l’economia statunitense e allo stesso tempo garantire la sicurezza nazionale, mettendo in gioco una quantità di risorse che nessun altro paese, eccetto la Cina, è in grado di spendere.

Ma c’è un problema che gli Stati Uniti prima o poi dovranno affrontare: la Casa Bianca continua ad accumulare debiti e se non fa qualcosa potrebbe trovarsi davanti a uno shock finanziario come quello che ha messo in ginocchio il governo britannico della premier conservatrice Liz Truss. Nell’autunno del 2022 il governo Truss è stato colpito da un durissimo attacco dei mercati finanziari dopo aver proposto tagli alle tasse per 45 miliardi di dollari, quasi interamente finanziati con nuovi debiti. Il paragone con Truss è stato fatto in un’intervista rilasciata al Financial Times da Phillip Swagel, direttore del Congressional budget office (Cbo), l’ufficio di bilancio del congresso statunitense, un’agenzia federale che fornisce dati e analisi economiche ai parlamentari. Con il costo degli interessi sul debito che nel 2026 raggiungerà i mille miliardi di dollari, ha sottolineato Swagel, “i mercati obbligazionari potrebbero reagire male”. Secondo il Cbo, alla fine del 2023 il debito federale degli Stati Uniti era a 26.200 miliardi, pari al 97 per cento del pil, e potrebbe arrivare al 166 per cento entro il 2054.

L’allarme lanciato da Swagel non è un caso isolato. Da tempo l’economia statunitense continua a registrare risultati eccezionali nonostante la poderosa stretta creditizia messa in atto dalla Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti), eppure vari economisti sono preoccupati dalle spese eccessive approvate in questi anni sia dai repubblicani sia dai democratici. Spese che potrebbero creare gravi difficoltà in futuro se il governo non comincerà a riequilibrare i conti. Sono in pochi, però, a parlarne, e in piena campagna elettorale per le presidenziali del prossimo novembre non lo fanno né il presidente in carica, il democratico Biden, né il suo sfidante repubblicano Donald Trump.

“Ma perché nel 2024 la Casa Bianca continua a finanziare spese in deficit, anche se la pandemia è ormai finita?”, si chiede il blogger statunitense Noah Smith. Tra i motivi principali c’è la politica industriale: Biden ha bisogno di finanziare gli ambiziosi progetti del Chips act e dell’Ira. Ma c’è anche la necessità di continuare a far correre un paese in cui la crescita del pil è rapida, la disoccupazione è molto bassa e la borsa vola, aggiunge Smith: “È comprensibile che l’amministrazione Biden non voglia fermarsi. Mettere un freno alla spesa potrebbe provocare una recessione proprio mentre la minaccia di una vittoria di Trump a novembre si fa sempre più seria”.

Dal canto suo anche il candidato repubblicano non ha alcuna intenzione di tagliare la spesa: anzi, se rieletto, ha intenzione di rinnovare i generosi tagli alle tasse approvati durante il suo primo mandato, nel 2017, e in scadenza l’anno prossimo. Secondo il gruppo di studio Committee for a responsible federal budget, se Trump dovesse rinnovare i tagli alla tasse aggiungerebbe altri cinquemila miliardi al debito pubblico tra il 2026 e il 2035. La previsione del Cbo secondo cui nei prossimi dieci anni il bilancio federale chiuderà con un deficit pari al 6 per cento del pil è stata fatta ipotizzando che quei tagli non saranno più in vigore nel 2025.

La Casa Bianca sta già prendendo soldi in prestito per pagare gli interessi sul debito esistente. Ma in futuro la realtà costringerà Biden o Trump a prendere provvedimenti, alzando le tasse o tagliando la spesa, oppure facendo entrambe le cose. “Dopo le elezioni di novembre”, osserva ancora Smith, “ci sarà più attenzione al deficit federale, a prescindere da chi vince e anche se la Fed comincerà a tagliare il costo del denaro, visto che comunque non si tornerà più ai tassi vicino allo zero degli anni passati. Il congresso e il presidente saranno costretti a prendere decisioni scomode. Probabilmente è in arrivo un’era dell’austerità, o almeno una fase di spiacevoli battaglie politiche sull’austerità”. Nella sua intervista al Financial Times, il direttore del Cbo Swagel ha precisato che gli Stati Uniti non sono “ancora a quel punto”, ma qui è il caso di ricordare una celebre frase dell’economista tedesco Rudi Dornbusch: “In economia le cose richiedono più tempo di quanto si pensi perché succedano, e poi succedono più velocemente di quanto si pensava”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.

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