All’inizio di gennaio del 1969 ero a New York, alla ricerca delle canzoni del black power e dei movimenti contro la guerra nel Vietnam. Si stava per inaugurare la prima presidenza di Richard Nixon – a questo eravamo arrivati, dopo tutte le battaglie degli anni sessanta! – ed era prevista una contromanifestazione a Washington. Pensai che ci sarebbero stati suoni, canti, grida, slogan e che sarebbe stata una buona idea documentarla.

Chi mi prestò il registratore Uher a bobine e il microfono che portai con me a Washington fu un personaggio memorabile della sinistra e del movimento della musica popolare: Izzy Young, il fondatore e deus ex machina del Folklore center del Greenwich Village. “Passavo il tempo al Folklore center, la fortezza della musica folk americana”, ha ricordato Bob Dylan nell’autobiografia Chronicles. Volume 1, parlando dei suoi primi tempi a New York. “Era una stanzetta in cima a una rampa di scale, con una sua grazia d’altri tempi. Aveva il tono in una cappella antica, di un’istituzione grande come una scatola di scarpe”.

Izzy Young racconta il suo primo incontro con Bob Dylan nel documentario di Martin Scorsese No direction home.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Izzy Young, ricorda, aveva “la parlata sarcastica e occhiali dalla spessa montatura di corno… Portava pantaloni di lana, cintura striminzita, stivali da lavoro e una cravatta sempre allentata. Le sua voce era come un bulldozer…”. Me lo ricordo anch’io così. Niente mi leva dalla testa il fatto che quella macchina con cui registrai le voci della contromanifestazione di Washington poteva essere stata usata da Izzy Young anche per registrare la voce indisciplinata del giovanissimo Robert Zimmerman.

Bobine e archivi
Quelle registrazioni – e altre che feci in quel mese a New York , le canzoni comuniste di Barbara Dane, gli spiritual diventati canzoni di lotta di Frederick Douglass Kirkpatrick – furono pubblicate poi in un album dei Dischi del Sole, L’America della contestazione. Ora escono di nuovo in We shall not be moved. Voci e musiche dagli stati Uniti 1969-2018, quattro cd accompagnati da un libro che raccolgono cinquant’anni di mie registrazioni americane. È la storia di mezzo secolo di incontri e di ricerca sul campo, raccogliendo canzoni di lotta, ballate, blues, gospel… Ma è anche, forse soprattutto, la storia degli strumenti che ho usato per fare le registrazioni.

Il registratore Uher era una meraviglia. Compatto e quadrato nella sua custodia nera, la prima volta che entrai in un’osteria dei Castelli Romani portandomelo in spalla i clienti pensarono che fosse una bomba (erano passati quattro giorni dalla strage di piazza Fontana). Mi era costato due mesi di stipendio, e me lo avevano procurato Franco Coggiola e Gianni Bosio, anima e fondatore dell’istituto Ernesto DeMartino e del Nuovo canzoniere italiano. Qualche anno prima, Bosio aveva scritto un memorabile “elogio del magnetofono”. Il registratore portatile, scriveva, era per le culture orali una rivoluzione paragonabile all’avvento della stampa nelle culture della scrittura, uno strumento che creava un supporto permanente a espressioni culturali labili e immateriali, e permetteva così di conoscerle criticamente, riconoscerne il valore e consolidarne l’esistenza. Le bobine che registrai con quella macchina sono rimaste più di trent’anni nei miei cassetti, ma quando le tirai fuori per collocarle nell’archivio sonoro del Circolo Gianni Bosio, erano ancora ascoltabili. L’Uher aveva fatto un ottimo lavoro.

Avevo quell’Uher nascosto sotto un cappotto abbondante la notte che registrai le voci dei baraccati espulsi dalle case occupate nel quartiere romano di Nuovo Salario, e quelle dei poliziotti che li cacciavano. Lo portai con me in mezzo al fango dei borghetti romani, nelle stradine dei paesi della Sabina, della Valnerina e della Ciociaria, e in California a registrare ancora Barbara Dane, di nuovo a Washington, nell’ultima manifestazione sindacale dell’era Reagan, nelle chiese pentecostali e spiritualiste di Bedford Stuyvesant, nelle serate fra folksingers ad Amherst, Massachusetts.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Nella mia prima escursione sulle colline impervie del Kentucky, lo accesi sulla fiducia per registrare Granny Hager, eroina delle battaglie sindacali, che mi descriveva le ferite sul suo corpo come tanti promemoria di una storia ribelle. Non capivo ancora il suo inglese montanaro, ma intanto il registratore ascoltava, e mi permise poi, quando avevo affinato l’orecchio alla sua lingua, di decifrare quel racconto. Il registratore era come una protesi alla McLuhan, un’estensione del mio ascolto, una parte di me. Lo chiamavo “il bambino”. Non dimenticherò mai il giorno in cui l’avevo dimenticato nell’osteria di un paese della Sabina. Me ne accorsi a metà del viaggio di ritorno verso Roma, tornai col cuore in gola ed era ancora lì, nessuno me l’aveva toccato.

L’Uher era portabile, ma non leggerissimo: ho sempre pensato che i ricorrenti dolori che sento alla spalla destra dipendono anche dalle scarpinate che mi sono fatto per anni portandomelo addosso. Verso la metà degli anni ottanta, prima di andare a fare ricerca in zone montuose degli Stati Uniti, pensai di fare una scelta ragionevole sostituendolo con un buon Sony a cassette. La qualità era adeguata, visto che stavo registrando sempre meno musica e più storia orale, e poi era meno ingombrante (anche se mi sono sempre rifiutato, fino all’ultimo Zoom H5, di usare microfoni incorporati. E comunque come tecnico del suono ho sempre fatto pena). Magari il supporto materiale – le fragili cassette – era meno affidabile, ma non avevo ancora in mente la visione di un archivio sonoro. Nel disco, la prima registrazione – Worried man di Harold Dutton, registrata a casa sua in un nevoso dicembre 1989 – è stata fatta proprio con quello strumento.

Passaggio al digitale
La svolta avvenne a New York nel 1996 (lo racconto nel libro che accompagna i cd). Ero al seminario estivo di storia orale che si fa tutti gli anni alla Columbia university, e Charles Hardy, uno storico orale con formazione radiofonica, mi sfidò: parli sempre di storia orale, disse, ma poi non fai altro che scrivere. Non era del tutto vero: 25 anni prima le registrazioni delle occupazioni di case e quelle fatte nei borghetti romani erano diventate un long playing dei Dischi del Sole montato nella mia cucina con forbici e scotch, riversando i brani dal mio Uher su un altro preso in prestito e funzionante più o meno per fede, speranza e carità.

Accettai la sfida e Charles Hardy mi mise in mano uno strumento nuovo: un Digital audio tape (Dat) a cassette. Tornai in Kentucky, registrai di nuovo molta musica – Becky Ruth Brae, Arthur Johnson, un sacco di gospel – e anche se non gli volli mai tanto bene come all’Uher tuttavia me ne innamorai un po’. Non era solo la mia introduzione al digitale, ma, soprattutto, il mio primo stereo, e la qualità era incomparabile (ancora oggi, i miei amici che se ne intendono dicono che il Dat rimane la tecnologia migliore). Ci feci tutte le interviste sui minatori di Harlan e sulle fosse Ardeatine, e le canzoni di Becky Ruth Brae, un picnic di famiglia in riva a un lago nella contea di Harlan.

C’era però un problema, ed era un problema economico. Fin dall’inizio tutta la ricerca, in Italia come negli Stati Uniti e altrove, l’ho fatta a mie spese – e i nastri costavano, e le batterie non erano gratis. Le cassette Dat erano difficili da trovare – le vendevano in un seminterrato all’angolo di corso Trieste, a Roma – e costavano quasi il doppio delle vecchie bobine. Soprattutto, era una tecnologia di passaggio: nell’arco di poco tempo, stavano diventando diffusi e accessibili i registratori stereo digitali.

Flirtai un po’ con piccoli deludenti apparecchi finché a inizio millennio mi svenai per comprare lo strumento raccomandato ufficialmente dalla Bbc e dall’associazione internazionale di storia orale. Un Marantz Pmd660 che, dicono, con un microfono adeguato – e, ahimè, mi svenai per comprare anche quello: è inutile avere un buon registratore se il microfono non è all’altezza – potrebbe andare bene pure per registrare un’orchestra sinfonica.

A forza di portarmelo in giro ha avuto ogni sorta di disavventure, è diventato meno affidabile perché è caduto un sacco di volte e perché non mi ricordo sempre di verificare l’affidabilità delle batterie e la disponibilità di spazio sulla scheda audio, o di portarmi un ricambio. Lo uso soprattutto in situazioni in cui non c’è da muoversi e magari posso attaccarlo a una presa della corrente. In questo modo, è andato più che bene per registrare, per esempio, l’incredibile polifonia del Sacred harp che si sente nel terzo cd della raccolta, o i canti sufi dei muridi senegalesi nelle campagne di Ladispoli.

Dal 1969 al 2018
La storia di We shall not be moved comincia con l’Uher preso in prestito da Izzy Young nel 1969 e si conclude nel 2018 con un’altra tecnologia. Un giorno di marzo a New York trovo Washington square piena di ragazzi. Sono gli studenti delle medie che, come in tutto il resto del paese, protestano contro l’uso delle armi, che ha provocato una serie di stragi nelle scuole.

Si ascoltano interventi e racconti dal palco, slogan. “Forse pensate che siamo troppo piccoli per capire, ma i piccoli non restano piccoli per sempre, e con ogni generazione cresciamo e capiamo di più”, grida una ragazzina dal palco. Non ho niente con me per registrare, salvo l’altra inseparabile protesi universale, il cellulare. Ho scaricato un registratore vocale relativamente buono, così in mancanza di meglio uso anche quello, tanto per i parlati andrà più o meno bene. Ma poi mi accorgo che stanno per suonare, e mi viene in mente che nella mia stanza d’albergo, a duecento metri da lì, c’è il mio strumento più recente, lo Zoom H5. Corro a perdifiato dalla piazza all’hotel e ritorno con il registratore appena in tempo. I ragazzi hanno cominciato a suonare: “Voi avete portato le tenebre, noi porteremo la luce; siamo speciali, e splenderemo”.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

La prima canzone della raccolta, quella che dà il titolo a tutto il lavoro e che in versioni diverse compare in tutti e quattro i cd si intitola We shall not be moved, siamo qui e non ci sposteremo. La canzone dei ragazzi che chiude tutto il lavoro dice la stessa cosa: “You’re not gonna knock us down, we’ll get up again”, non ci butterete giù, continueremo a rialzarci. In fondo, è il senso di tutti questi anni di lavoro: resisteremo.

Post scriptum. Qualche settimana fa Gianni Novelli, un umile protagonista del pacifismo cattolico, ha regalato all’archivio del Circolo Gianni Bosio il suo vecchio Uher, ancora perfettamente funzionante. È stato un regalo prezioso perché quelli che avevamo noi in archivio erano per lo più inutilizzabili – non li fabbricano più, non si trovano le parti di ricambio ed è difficilissimo trovare chi sappia aggiustarli. E naturalmente ne abbiamo bisogno perché ci restano ancora da ascoltare, schedare, digitalizzare tantissime bobine registrate negli anni passati. Qualche giorno dopo, Gianni Novelli mi scrive: “Come sta il mio Uher?”. Gli ho risposto: “Ha trovato casa e sta benissimo insieme a tutti i suoi fratelli”.

Il libro We shall not be moved esce il 15 maggio per Squi(libri) editore.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it