Da più di un mese a Jackson, la capitale del Mississippi, è in corso una grave crisi idrica, cominciata dopo che le piogge intense hanno fatto esondare il fiume Pearl, bloccando il principale impianto per la gestione delle acque della città. Gli abitanti, che sono circa 150mila, non possono bere l’acqua che gli arriva a casa e sono stati invitati dalle autorità a bollirla prima di usarla. Il 29 agosto il sindaco Chokwe Antar Lumumba ha dichiarato l’emergenza idrica; il giorno dopo Tate Reeves, il governatore del Mississippi, ha dichiarato lo stato d’emergenza statale e ha chiesto l’intervento della guardia nazionale per distribuire bottiglie d’acqua alla popolazione; e infine il presidente Joe Biden ha dichiarato lo stato d’emergenza federale.
Una tripla emergenza per rispondere a una situazione in realtà tutt’altro che eccezionale. Il sistema idrico di Jackson è in crisi da anni. Nel febbraio 2021 una violenta tempesta ha messo fuori uso il sistema per un mese. Anche quando l’acqua arriva ai rubinetti, gli abitanti devono spesso bollirla e pagano bollette molto alte per un’acqua che non è sempre sicura da bere. Il Washington Post ha raccontato la storia di Roshonda Snell, una donna di 32 anni che lavora in un albergo. Snell e la sua famiglia non hanno mai bevuto l’acqua del rubinetto. Spendono buona parte di un sussidio che ricevono dal governo per comprare quella in bottiglia.
La famiglia di Snell è afroamericana, come l’82 per cento della popolazione di Jackson. La città ha anche uno dei livelli di povertà più alti del paese, con il 25 per cento degli abitanti in condizioni di indigenza. Questo spiega perché molti giornali statunitensi stanno descrivendo la crisi di Jackson come una sorta di tempesta perfetta in cui si fondono molti dei problemi degli Stati Uniti di oggi: discriminazione razziale, povertà, vulnerabilità delle infrastrutture e crisi climatica. Lo racconta bene un articolo di Bloomberg che pubblichiamo questa settimana su Internazionale (gratuito per i lettori di Americana).
Verso il pericolo
La crisi idrica di Jackson chiama in causa la questione forse più importante dei prossimi decenni, negli Stati Uniti come in Europa: l’adattamento alle conseguenze della crisi climatica. Una parte importante del problema, a mano a mano che le condizioni climatiche peggiorano, riguarda posti dove le persone decidono di vivere. Da questo punto di vista gli Stati Uniti non sono posizionati bene. Un articolo di Vox spiega che negli ultimi anni gli americani hanno continuato a spostarsi nelle zone del paese più a rischio per via degli eventi climatici estremi e si sono invece allontanati da quelle più sicure.
“Secondo un’analisi pubblicata all’inizio di agosto dall’Economic innovation group, dieci delle quindici contee che nel 2021 hanno registrato il maggior numero di arrivi si trovavano nel sudovest, zone che soffrono di una carenza cronica di acqua. Dal 2012 altri 2,8 milioni di persone si sono trasferite in contee che hanno trascorso la maggior parte dell’ultimo decennio in condizioni di siccità grave o eccezionale”. In cima alla classifica c’è la contea di Maricopa, in Arizona. Lì si trova Phoenix, una metropoli costruita nel deserto dove il sole splende più che in qualsiasi altra grande città del pianeta e che ha una media di 110 giorni all’anno con temperature massime di almeno 37,7 gradi. A Phoenix la temperatura media è aumentata di 2,5 gradi rispetto alla metà del secolo scorso. Nel 2021 nella contea di Maricopa 338 persone sono morte a causa del caldo.
Non bisogna pensare che gli statunitensi siano indifferenti al riscaldamento climatico e alle sue conseguenze
Nonostante questo, la popolazione della contea è aumentata del 14 per cento nell’ultimo decennio, arrivando a quasi 4,5 milioni di persone. Qualcosa di simile succede in Florida e in South Carolina, dove al caldo si aggiungono i pericoli legati a tempeste e inondazioni, e in Colorado e Idaho, due stati a forte rischio di incendi. Nel complesso le cinquanta contee statunitensi con la maggior parte delle abitazioni a rischio climatico e di condizioni meteorologiche estreme hanno registrato una migrazione netta positiva (cioè le persone che arrivano sono più di quelle che se ne vanno) in media tra il 2016 e il 2020. Al contrario, le cinquanta contee con la maggior parte delle abitazioni a minor rischio climatico e di condizioni meteorologiche estreme hanno registrato negli stessi anni una migrazione netta negativa.
Non bisogna pensare che gli statunitensi siano indifferenti al riscaldamento climatico e alle sue conseguenze. Semplicemente, al momento di decidere dove andare a vivere si interessano più che altro alle condizioni economiche e al costo della vita delle potenziali mete. “Gli stati del sudovest e il Texas non sono solo caldi, secchi e vulnerabili ai cambiamenti climatici, ma tendono anche a essere molto più economici rispetto alle città della costa”. Non solo: di solito sono i posti con la crescita economica più alta, quindi teoricamente possono offrire più lavoro e maggiori possibilità di mobilità sociale, a fronte di costi per gli alloggi più bassi rispetto alle città della costa. “Pur di usufruire di questi vantaggi gli americani sono disposti ad accettare i rischi causati dal peggioramento delle ondate di calore e di altri fenomeni meteorologici estremi”.
È un problema che non può essere affrontato solo dal punto di vista delle scelte individuali. Bisognerà ripensare completamente le politiche abitative, spiega l’articolo: “Se non vogliamo un futuro in cui un numero sempre maggiore di persone soffra le conseguenze della crisi climatica, dovremo rendere meno costoso vivere in luoghi non soggetti a ondate di calore, siccità o incendi”.
Consulenti per catastrofi
Gli eventi meteorologici estremi, sempre più frequenti e intensi a causa del riscaldamento globale, stanno trasformando la vita degli americani in molti modi. Nel novembre 2021 ho raccontato la crescita dell’industria della ricostruzione dei posti colpiti dalle catastrofi, che poggia principalmente sulle spalle di lavoratori sottopagati: soprattutto immigrati (molti dei quali senza documenti) che si spostano per tutto l’anno da una parte all’altra del paese, offrendo la propria manodopera in luoghi che sono stati appena colpiti da disastri naturali. Giorni fa The Verge ha raccontato un altro settore che sta prosperando a causa dell’aumento delle catastrofi, quello dei consulenti privati che aiutano le amministrazioni locali a chiedere e ottenere i fondi per la ricostruzione stanziati del governo federale.
Città e stati si rivolgono a questi consulenti perché la procedura burocratica che devono completare per ottenere gli aiuti è particolarmente complessa, e anche solo un piccolo errore nei moduli può portare la Fema, l’agenzia che distribuisce le risorse, a negare i finanziamenti. La maggior parte delle amministrazioni locali non è dotata di dipartimenti capaci di gestire l’aspetto burocratico delle emergenze (oltre che naturalmente le emergenze in sé). Inoltre le regole cambiano continuamente, soprattutto in occasione delle elezioni presidenziali quando alla Casa Bianca si insedia una nuova amministrazione. Negli ultimi due anni la pandemia ha aggiunto un ulteriore livello di complessità. E in generale le regole della Fema tendono a diventare sempre più stringenti, per evitare frodi e fare in modo che i soldi pubblici siano usati in modo corretto.
L’articolo racconta la storia di Mexico City, una cittadina della Florida che si affaccia sul golfo del Messico e che nel 2018 è stata distrutta dall’uragano Michael. Quasi tutti gli edifici sono stati rasi al suolo (compresa la stazione di polizia e quella dei vigili del fuoco), la rete elettrica è saltata, come le fognature e le condutture dell’acqua. Non sapendo da dove cominciare con la ricostruzione, il sindaco Al Cathey si è affidato ad Alyssa Carrier, un’esperta nella risposta ai disastri che ha cominciato la sua carriera lavorando per la Fema e poi è passata al settore privato, fondando la AC disaster consulting. Mexico City sta ancora aspettando di ricevere la maggior parte dei soldi a cui dovrebbe avere diritto e la ricostruzione va a rilento.
La crescita rapida del settore delle consulenze crea problemi facilmente immaginabili. Prevedibilmente, la corsa ai fondi pubblici ha fatto proliferare le aziende che offrono questo tipo di servizio, tra cui molte che non sono realmente in grado di aiutare le amministrazioni locali. In secondo luogo, l’intermediazione delle aziende di consulenza comporta costi aggiuntivi per comunità già in grandi difficoltà finanziarie e di conseguenza per la Fema e per lo stato.
Questo articolo è tratto da una newsletter di Internazionale che racconta cosa succede negli Stati Uniti. Ci si iscrive qui.
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