Le difficoltà diplomatiche e geopolitiche degli Stati Uniti in Medio Oriente sono emerse subito dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre e l’intervento israeliano nella Striscia di Gaza. Molti commentatori sottolineavano (anche su Internazionale) che il rapporto di lunga data di Washington con Israele impediva all’amministrazione Biden di apparire come un mediatore credibile agli occhi dei paesi mediorientali, e questo elemento faceva crescere la diffidenza del cosiddetto “sud del mondo” nei confronti degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, il legame stretto con Tel Aviv non dava nemmeno grandi strumenti all’amministrazione Biden per condizionare in modo significativo la strategia militare del governo di Benjamin Netanyahu.
Gli Stati Uniti si sono dovuti muovere quindi in un contesto complicato avendo poco margine di manovra, mentre sul fronte interno e sulla scena internazionale crescevano il malumore e le proteste nei confronti della Casa Bianca, accusata di essere immobile e impotente davanti alla crisi umanitaria in corso a Gaza. In realtà sono stati due mesi molto intensi per la diplomazia statunitense, e il modo in cui Biden si è mosso aiuta a capire come tende ad affrontare le crisi e le trattative complicate in generale, oltre che a farsi qualche idea su come potrebbe evolversi la posizione americana nei prossimi mesi.
Errori da non ripetere
Subito dopo l’attacco di Hamas gli Stati Uniti hanno espresso pieno sostegno all’alleato israeliano, ma allo stesso tempo hanno avvertito Netanyahu del rischio di lanciarsi in un conflitto su vasta scala senza avere un obiettivo chiaro (“non ripetete” gli errori che abbiamo commesso noi dopo l’11 settembre 2001, ha detto Biden il 18 ottobre).
Quando il governo israeliano si è avviato proprio su quella strada, la Casa Bianca ha deciso che non sarebbe riuscita a far cambiare idea all’alleato e ha cominciato a lavorare su obiettivi più limitati e realizzabili, in particolare sulla liberazione degli ostaggi sequestrati dal gruppo radicale palestinese. Non solo perché c’erano anche degli americani nella mani di Hamas, ma anche con l’idea che a un certo punto si potessero usare i canali aperti in quel modo per lavorare a una via d’uscita dalla crisi e magari come punto di partenza per rilanciare dei negoziati sulla questione palestinese.
È un modo tipico di fare politica di Biden, inaugurato ai tempi in cui cercava di mediare difficili accordi al congresso (fu eletto al senato per la prima volta nel 1972) e perfezionato sulla politica estera da vicepresidente durante i mandati di Barack Obama (2009-2016). È l’approccio che in questi tre anni da presidente gli ha permesso di far approvare leggi importanti al congresso nonostante una maggioranza molto risicata e l’aspro scontro tra i partiti.
In un clima politico molto polarizzato, questo modo di procedere tende a radicalizzare gli oppositori e a scontentare i sostenitori e porta a perdere consensi. L’indice di popolarità di Biden era basso già prima della crisi in Medio Oriente, nonostante i risultati non trascurabili ottenuti in politica interna, ed è sceso ulteriormente dopo lo scoppio della guerra. Questo si spiega almeno in parte con il fatto che Biden si è rifiutato di ascoltare sia i repubblicani, convinti che per risolvere il conflitto bisogna incoraggiare le inclinazioni più aggressive di Israele, sia buona parte dei democratici, sicuri invece che le critiche pubbliche nei confronti del governo di Netanyahu porteranno alla pace.
È immaginabile che nelle prossime settimane cresceranno gli attriti tra Biden e Netanyahu
Per la verità il malcontento nei confronti di Biden per la gestione della crisi in Medio Oriente si è manifestato anche dentro la Casa Bianca, a dimostrazione del fatto che questa guerra sta mettendo in difficoltà il presidente molto più di quella in Ucraina. Il Washington Post ha raccontato che all’inizio di novembre venti persone dello staff della Casa Bianca hanno chiesto un incontro con i principali consiglieri di politica estera del presidente, per esprimere preoccupazione per le migliaia di morti civili a Gaza e per capire quale fosse la visione dell’amministrazione sul futuro della regione.
Secondo l’articolo, i consiglieri di Biden hanno risposto che un atteggiamento più duro nei confronti di Israele avrebbe ridotto ulteriormente la capacità di condizionare le azioni del governo alleato, e hanno detto che gli Stati Uniti avrebbero proseguito con una strategia su due binari: da una parte il sostegno pubblico agli obiettivi di guerra di Israele, dall’altra le pressioni in privato per convincere il governo di Tel Aviv a ridurre le vittime civili a Gaza e a lavorare a una soluzione di lungo periodo che tenga conto del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione.
Washington ha anche messo in guardia Tel Aviv sui rischi di occupare di nuovo in modo permanente la Striscia di Gaza e ha minacciato sanzioni contro i coloni israeliani in Cisgiordania, uno dei principali ostacoli a una soluzione alla questione israelo-palestinese. In questo contesto sono partiti gli sforzi diplomatici, che hanno coinvolto Qatar ed Egitto, per ottenere una pausa dei bombardamenti, consentire lo scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi e far passare gli aiuti umanitari.
Principio di proporzionalità
Come influiscono questi sviluppi sulla situazione nel medio periodo e sui rapporti tra Israele e Stati Uniti? I sette giorni di tregua hanno dato sollievo agli abitanti di Gaza, ma la loro condizione resta drammatica, il governo israeliano ha ripreso i bombardamenti e continua a non avere un piano per il dopoguerra.
È immaginabile che nelle prossime settimane cresceranno gli attriti tra Biden e Netanyahu. Secondo l’articolo del Washington Post, il governo statunitense trova inaccettabile il fatto che Israele non tenga conto in nessun modo del principio di proporzionalità nei suoi attacchi. “Nel tentativo di eliminare Hamas, il governo di Tel Aviv sta usando bombe potenti e radendo al suolo interi quartieri, un comportamento militare che inevitabilmente causa la morte di un gran numero di civili e radicalizza ulteriormente la popolazione palestinese. E ora molti funzionari statunitensi temono che Israele continui a non mostrare nessun tipo di moderazione mentre sposta le sue operazioni nel sud della Striscia di Gaza, dopo la tregua”.
La distanza tra i due governi aumenterà man mano che si avvicineranno le elezioni presidenziali del prossimo anno, con Washington che farà sempre più pressioni su Israele per cercare una via diplomatica.
Scrive ancora il Washington Post: “I funzionari statunitensi pensano che più la guerra continua, più sarà dannosa per Biden dal punto di vista politico e diplomatico. Mentre i funzionari israeliani hanno detto che il conflitto potrebbe durare un anno o più, gli statunitensi sono fiduciosi sulla possibilità che sia finito quando comincerà la fase decisiva della campagna elettorale per le presidenziali, cioè a metà del 2024, a causa della velocità dell’incursione israeliana e per via del fatto che Tel Aviv non ha le risorse per sostenere un’operazione per un periodo così lungo di tempo”.
La fiducia del governo statunitense sembra mal riposta. Anche se i sette giorni di tregua sono stati un risultato importante, su entrambi i fronti del conflitto sono ancora preponderanti le forze più estremiste: Hamas ha sfruttato la settimana di pausa delle ostilità per riorganizzarsi, e il 30 novembre alcuni suoi miliziani hanno ucciso tre persone a Gerusalemme; Netanyahu e la maggior parte dei suoi ministri continuano a dire che Israele non si fermerà finché Hamas non sarà cancellata, un obiettivo che la maggior parte degli analisti considera irrealizzabile.
Queste condizioni faranno proseguire e forse aggravare il conflitto. E a un certo punto l’amministrazione Biden dovrà cominciare a proporre qualcosa di diverso, e questo potrebbe implicare un atteggiamento più severo nei confronti di Israele. Ne parlano Matthew Duss a Nancy Okail su Foreign Affairs.
Questo testo è tratto dalla newsletter Americana
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