Israele è diventato un peso per gli Stati Uniti?
Da sei mesi il mondo si chiede fino a che punto gli Stati Uniti saranno disposti a sostenere incondizionatamente il governo di Benjamin Netanyahu, domanda che diventa più pressante dopo ogni strage o massacro commessi dalle forze armate israeliane. Il bombardamento del 1 aprile, in cui sono stati uccisi dipendenti della World central kitchen (Wck), una ong che consegna aiuti alimentari agli abitanti della Striscia di Gaza, ha suscitato l’indignazione compatta della comunità internazionale e anche una reazione immediata di Washington.
Il presidente Biden ha detto di essere “arrabbiato e distrutto” e ha accusato Israele di non fare abbastanza per proteggere i civili e gli operatori delle ong. Questa posizione si aggiunge alla lunga lista di cose che gli Stati Uniti hanno fatto di recente per sottolineare la loro opposizione al modo in cui Tel Aviv sta conducendo la guerra: le sanzioni contro i coloni israeliani in Cisgiordania; l’astensione al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che ha permesso l’approvazione di una risoluzione per il cessate il fuoco a Gaza; la richiesta di nuove elezioni in Israele fatta da Chuck Schumer, leader democratico al senato statunitense; la visita a Washington di Benny Gantz, membro del gabinetto di guerra israeliano e tra i principali oppositori politici di Netanyahu.
Si è detto che l’attacco del 1 aprile avrebbe esaurito la pazienza degli Stati Uniti nei confronti dell’alleato, come non era successo nemmeno dopo l’uccisione di decine di migliaia di civili palestinesi. “L’uccisione di operatori umanitari stranieri a Gaza potrebbe finalmente esaurire la considerevole pazienza degli alleati di Israele, guidati dagli Stati Uniti”, ha scritto Jeremy Bowen, storico giornalista della Bbc, di cui è stato a lungo corrispondente da Gerusalemme.
Un’altra notizia, arrivata sempre il 1 aprile, ha alimentato questa narrazione. Un attacco attribuito a Israele ha colpito la sezione consolare dell’ambasciata iraniana nella capitale siriana Damasco, causando la morte di tredici persone, tra cui sette Guardiani della rivoluzione, l’esercito ideologico dell’Iran. Gli Stati Uniti, il cui obiettivo principale in questi mesi è stato evitare un allargamento del conflitto e un confronto diretto con l’Iran, si sono affrettati a prendere le distanze da Tel Aviv, comunicando a Teheran che si era trattato di un’operazione israeliana condotta senza il consenso e il coordinamento di Washington.
Il 4 aprile l’amministrazione Biden, sotto la pressione sempre più forte dei politici e degli elettori del Partito democratico, ha avvertito che d’ora in avanti il sostegno statunitense a Israele dipenderà dalla sua capacità di farsi carico delle preoccupazioni sulle vittime civili e sulla crisi umanitaria a Gaza. È la prima volta che il governo statunitense accenna alla possibilità di usare gli aiuti militari come leva per influenzare la condotta di Netanyahu, ma sembra difficile che questa presa di posizione da sola possa fare la differenza. Il 4 aprile, in una telefonata molto tesa con Netanyahu, il presidente statunitense non ha parlato esplicitamente della possibilità di interrompere la forniture di armi né ha imposto condizioni per il loro uso, come molti politici democratici gli hanno chiesto di fare.
Nella notte tra il 6 e il 7 aprile Israele ha ritirato il grosso delle truppe nel sud della Striscia di Gaza. Questa scelta è stata interpretata come il risultato delle pressioni di Washington sugli israeliani. Ma già il 7 aprile Netanyahu ha chiarito che gli obiettivi della guerra non sono cambiati, e che il suo governo è ancora determinato a “completare l’eliminazione di Hamas in tutta la Striscia di Gaza, compresa Rafah”. In generale non sembra che Tel Aviv voglia modificare sostanzialmente la sua condotta né gli obiettivi della guerra.
Una situazione che sta portando molti commentatori a chiedersi se l’alleanza con gli israeliani sia ancora negli interessi degli Stati Uniti. L’analista Jon Hoffman ha scritto un articolo su Foreign Policy in cui sostiene che non esistono più le condizioni – in particolare i valori condivisi e gli interessi comuni – che in passato hanno portato alla nascita e poi al rafforzamento della “relazione speciale” tra Washington e Tel Aviv. Il rapporto, sostiene Hoffman, è diventato unidirezionale, nel senso che Israele ottiene tutto quello che vuole senza dare niente in cambio, o peggio mettendo in pericolo la posizione internazionale degli Stati Uniti.
Gli aiuti militari sono l’emblema di questo sbilanciamento. “Israele è il primo beneficiario degli aiuti militari statunitensi. Ha ricevuto più di 300 miliardi di dollari da dopo la fine della seconda guerra mondiale e continua a ricevere ogni anno aiuti per 3,8 miliardi di dollari (a questi soldi andrebbero aggiunti quelli che Washington elargisce a paesi come Egitto e Giordania in cambio dell’impegno a mantenere buoni rapporti con Israele). Dopo il 7 ottobre 2023, quando Hamas ha attaccato Israele, l’amministrazione Biden ha continuato a rifornire Israele di armamenti avanzati, approvando più di 100 vendite militari a Israele, e per due volte ha invocato regole d’emergenza per aggirare il congresso. E di recente il senato ha stanziato altri 14 miliardi di dollari di aiuti militari per Israele”.
Finora Biden ha respinto gli appelli a chiudere il rubinetto delle forniture militari, sostenendo che se lo facesse la relazione con Israele sarebbe compromessa e quindi gli Stati Uniti perderebbero la residua capacità di influenzare il governo di Tel Aviv sulla protezione dei civili o, in futuro, quando si parlerà di una possibile soluzione al conflitto israelo-palestinese. Continua a pensare di poter ottenere qualcosa in cambio da Netanyahu con una combinazione di concessioni e piccoli gesti ostili. I funzionari dell’amministrazione Biden sostengono che la situazione sarebbe ancora più grave nella Striscia di Gaza senza le pressioni di Washington sull’alleato, che hanno spinto Netanyahu a eliminare l’embargo su tutte le forniture di cibo, acqua e carburante a Gaza. Inoltre rivendicano il successo parziale del negoziato che a novembre 2023 ha permesso di ottenere un cessate il fuoco di una settimana e di riportare a casa circa la metà degli ostaggi israeliani. Ma questa strategia può ottenere solo risultati limitati, con un alleato convinto che la propria esistenza sia a rischio, e governato da un politico che sta usando la guerra nella Striscia di Gaza per restare al potere.
Sulla possibile offensiva israeliana a Rafah, dove si sono rifugiati centinaia di migliaia di palestinesi, la schizofrenia della politica americana è venuta fuori in modo clamoroso: nella stessa intervista Biden ha prima definito l’operazione a Rafah come la “linea rossa” che Netanyahu non dovrebbe oltrepassare, per poi aggiungere che “la difesa di Israele è ancora fondamentale, quindi non c’è una linea rossa”. Il premier israeliano interpreta questa contraddizione come un via libera a continuare sulla sua strada percorsa dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre.
È successo qualcosa di simile a proposito degli insediamenti dei coloni israeliani in Cisgiordania, che per Washington sono uno dei principali ostacoli alla normalizzazione dei rapporti tra israeliani e palestinesi. Dopo l’imposizione di sanzioni su alcuni coloni, Israele ha autorizzato la costruzione di 3.400 nuove case negli insediamenti della Cisgiordania.
L’attuale incompatibilità tra la politica israeliana e gli interessi statunitensi è ancora più evidente – e più pericolosa – nella gestione della minaccia iraniana. “Negli ultimi cinque mesi Israele ha ripetutamente tentato di spingere gli Stati Uniti a un confronto diretto con l’Iran, nonostante i tentativi di Washington di abbassare il livello di tensione”, scrive Hoffman. Il 1 aprile Israele ha colpito il consolato iraniano a Damasco sapendo che la reazione del regime di Teheran potrebbe includere attacchi contro gli avamposti statunitensi nella regione. Oltre a far deragliare la politica della Casa Bianca in Medio Oriente, le azioni israeliane indeboliscono politicamente Biden in vista delle elezioni presidenziali. Dietro la politica di Netanyahu sembra esserci anche una scommessa sul ritorno di Donald Trump e dei repubblicani al potere, molto più disposti ad assecondare la deriva estremista della politica israeliana.
Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.
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