L’attentato contro Donald Trump ha solo ritardato la resa dei conti nel Partito democratico tra il presidente Joe Biden e chi gli chiedeva, con sempre maggiore insistenza, di non ricandidarsi. Da giovedì erano aumentate le prese di posizione pubbliche dei parlamentari democratici a favore di un passaggio di testimone e i giornali scrivevano delle manovre dei leader democratici più influenti (tra cui l’ex speaker della camera Nancy Pelosi, il leader della maggioranza al senato Chuck Schumer e l’ex presidente Barack Obama) per convincere Biden a farsi da parte. Ormai nemmeno i collaboratori più stretti del presidente sembravano pensare che la candidatura fosse una buona idea.

Biden avrebbe vissuto i momenti prima del ritiro dalla campagna per la presidenza, domenica 21 luglio, trincerato nella sua casa al mare in Delaware, isolato a causa di un’infezione da covid (in molti stati del paese i contagi sono in forte aumento), sempre più risentito per quella che considerava una campagna orchestrata per estrometterlo dalla corsa, e amareggiato nei confronti di alcuni di quelli che un tempo considerava vicini, in particolare Obama.

Intanto gli alleati della vicepresidente Kamala Harris hanno portato avanti una campagna sotto traccia per rafforzare la sua immagine pubblica, con un doppio obiettivo: convincere i dirigenti democratici che, nel caso in cui Biden si fosse ritirato, sarebbe stato sensato puntare su di lei per evitare il caos che sarebbe derivato da una competizione agguerrita tra più sfidanti; e assicurarsi il sostegno dei finanziatori del Partito democratico.

Già dopo il dibattito televisivo del 27 giugno, in cui Biden era apparso in grande difficoltà, Harris aveva cominciato a farsi vedere e sentire molto più di quanto avesse fatto nei primi tre anni e mezzo del suo mandato. I repubblicani si erano adeguati, prendendola spesso di mira durante la loro convention di Milwaukee. “Joe Biden oggi, Kamala Harris domani”, recitava uno spot della campagna elettorale di Trump andato in onda subito dopo il dibattito del 27 giugno.

I dubbi

I dubbi su Harris sono noti: ha un indice di popolarità basso (poco sopra quello del presidente); è andata malissimo quando ha provato a candidarsi fuori dal suo stato (la California), nelle primarie presidenziali del Partito democratico del 2020; in quanto donna nera, potrebbe far fatica a conquistare il consenso degli elettori bianchi della classe media e della classe operaia in alcuni stati decisivi, come Michigan, Wisconsin e Pennsylvania.

Un sondaggio recente di YouGov mostra che tre quarti degli elettori democratici vedono Harris al posto di Biden senza molto entusiasmo (in questo momento probabilmente si farebbero andare bene chiunque). Soprattutto, gli elettori indipendenti, quelli che non si identificano con nessun partito, non sembrano avere una buona opinione della vicepresidente.

Tra i democratici c’è chi pensa che passare automaticamente il testimone a Harris sia sbagliato, e preferirebbe una vera competizione per scegliere il candidato alla convention di agosto. I sostenitori di Harris pensano invece che abbia ampi margini di crescita. Ricerche condotte da diversi istituti vicini ai democratici hanno rilevato che, anche dopo tre anni e mezzo di mandato, la vicepresidente rimane in gran parte sconosciuta agli elettori. È un problema ma anche un’opportunità, perché con una campagna elettorale energica e ben organizzata Harris potrebbe farsi conoscere e portare verso il Partito democratico elettori scontenti e indecisi, oltre a recuperare consensi tra gli elettori giovani e afroamericani, che rispetto alle elezioni del 2020 sembrano delusi e poco coinvolti. Quale storia, quindi, potrebbe raccontare al popolo americano?

Le origini

È una storia che comincia con Shyamala Gopalan, una donna che nel 1958, a 19 anni, lasciò l’India per gli Stati Uniti e diventò una delle prime indiane a iscriversi all’università della California a Berkeley. Arrivò negli Stati Uniti in un’epoca in cui le leggi sull’immigrazione imponevano quote rigide agli ingressi dall’Asia: gli indiani a cui era consentito trasferirsi nel paese erano al massimo cento all’anno. Gopalan diventò una dei dodicimila indiani che ci vivevano, la maggior parte dei quali erano uomini. In quel periodo il razzismo contro gli indiani era molto diffuso.

Gopalan partecipò alle proteste contro la guerra nel Vietnam e cominciò a leggere le opere di scrittori neri come W.E.B. Du Bois e Ralph Ellison. Nel 1963 si sottrasse alla tradizione del matrimonio combinato e sposò Donald Harris, un dottorando di Berkeley proveniente dalla Giamaica, anche lui attivo nel movimento per i diritti civili. Ebbero due figlie, Kamala (che vuol dire “fior di loto” in sanscrito) e Maya. La famiglia di lei non prese bene il matrimonio, e rimase ancora più scandalizzata otto anni dopo, quando Gopalan chiese il divorzio.

Come ha spiegato Pawan Dhingra, docente di studi americani dell’Amherst college, nel Massachusetts, le origini di Harris “raccontano una parte spesso ignorata della storia degli statunitensi di origine asiatica”. Dhingra sottolinea che queste persone sono sempre state giudicate in base “alla loro capacità di somigliare ai bianchi per livello d’istruzione e per reddito”. Il “mito della minoranza modello” ha spesso contrapposto la comunità nera a quella asiatica. Ma Harris, spiega Dhingra, rompe questo schema. La sua storia personale è piena di riferimenti alla solidarietà tra comunità diverse e all’impegno politico.

Le ambiguità

Fin da ragazza Harris ha cercato di tenere insieme l’attivismo progressista con l’ambizione di fare strada nel mondo della giustizia, un difficile equilibrio che poi sarebbe stato alla base di molte delle critiche nei suoi confronti. Dopo essersi diplomata in Canada, Harris si è iscritta alla Howard university di Washington, un ateneo frequentato soprattutto da afroamericani. Poi ha frequentato la facoltà di legge di Hastings, in California.

Harris è stata eletta in senato nel 2016, nella stessa tornata elettorale in cui Donald Trump è diventato presidente, e ci è rimasta fino al 2021, quando è entrata in carica come vicepresidente. Ma la sua carriera e le sue scelte politiche sono state interpretate soprattutto sulla base di due incarichi precedenti, come procuratrice di San Francisco tra il 2004 e il 2011 e poi come procuratrice generale della California tra il 2011 e il 2016 (il procuratore generale è il responsabile dell’applicazione della legge in uno stato, ed è eletto dai cittadini ogni quattro anni).

Nel 2020, quando era candidata alle primarie democratiche e nel paese si parlava molto della violenza della polizia, a Harris sono state rinfacciate alcune scelte e posizioni assunte in quel periodo. Alcuni la definirono una “poliziotta”. Da procuratrice distrettuale di San Francisco si era vantata di aver portato in tre anni la percentuale di condanne dal 53 per cento al 67 per cento, il dato più alto del decennio.

Inoltre, si era schierata a favore di una legge che prevedeva l’incarcerazione dei genitori se i figli saltavano abitualmente la scuola. Come procuratrice generale della California si era opposta alla scarcerazione anticipata dei detenuti condannati per crimini non violenti, sostenendo che gli istituti carcerari rischiavano di perdere “un’importante fonte di manodopera”. Allo stesso tempo come procuratrice Harris ha sostenuto più volte le rivendicazioni dei lavoratori, durante la crisi finanziaria ha difeso le persone che rischiavano un pignoramento e ha appoggiato l’aumento del salario minimo a 15 dollari all’ora.

Il fatto di essere entrata in politica senza essere una politica, e peraltro in una fase storica segnata dalla forte polarizzazione, le ha creato molte difficoltà. Durante le primarie del 2020 ha cercato di stare a metà strada, sperando che gli elettori premiassero il fatto che non fosse strettamente legata a nessuno dei poli ideologici del partito, senza successo. Ma il suo essere difficile da inquadrare – per alcuni semplicemente ambigua – l’ha forse aiutata a superare la concorrenza per diventare la vicepresidente nell’amministrazione Biden. E secondo alcuni potrebbe darle una mano in una campagna elettorale che si giocherà molto sull’orientamento degli elettori scontenti.

In un’eventuale sfida tra Trump e Harris, i repubblicani la accuserebbero di essere una socialista radicale e cercherebbero di scaricare su di lei la colpa della crisi migratoria, il principale tema di cui si è occupata nella prima parte del suo mandato.

Per i democratici la sfida sarà, per dirla con le parole di Dan Pfeiffer, direttore della comunicazione della Casa Bianca durante l’amministrazione Obama, “definire rapidamente il profilo politico di Harris prima che lo facciano i repubblicani”. Significa sottolineare soprattutto le battaglie che Harris ha portato avanti nell’ultima parte del suo mandato di vicepresidente, a favore dei diritti della comunità lgbt+ e soprattutto in difesa dell’aborto.

Dopo che i sei giudici conservatori della corte suprema hanno rovesciato il diritto costituzionale all’interruzione di gravidanza, nel giugno 2022, Harris ha guidato i democratici nel condannare la deriva liberticida dei repubblicani. In un recente comizio in North Carolina, ha ripetuto continuamente la parola “libertà”, cercando di collegare le lotte per i diritti civili degli anni sessanta con la difesa di quelle libertà – di abortire, di esprimersi, di affermare il proprio genere sessuale – che secondo i democratici sarebbero minacciate da una seconda amministrazione Trump.

Il giornalista John Hendrickson, che era presente al comizio, ha scritto: “Harris sta ancora cercando di capire la sua personalità politica e non è magnetica sul palco; forse non sarà mai una ‘rockstar’ della politica come Barack Obama e Bill Clinton. Ma nel suo discorso è sembrata molto più convincente e competente di Trump, e di Biden”.

Harris si trova in una posizione insolita nella storia della politica statunitense. Generalmente i vicepresidenti che non lasciano una traccia durante il loro mandato vengono rapidamente dimenticati. Invece lei potrebbe diventare all’improvviso, appena tre mesi prima delle elezioni, l’ultima speranza di chi è convinto che il voto deciderà il destino degli Stati Uniti.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it