Il 10 novembre, due giorni prima del comizio del candidato alla presidenza Roch Marc Christian Kaboré a Dori, nel nord del Burkina Faso, su una pista a una quindicina di chilometri dalla città è stato trovato il cadavere di Sorgho Wendtoin, l’autista di un deputato della regione.

“Bisogna dire la verità, la situazione è precaria e quest’omicidio ne è un altro esempio”, si preoccupa Amadou Abdouramane Ly, funzionario della grande città di Dori e candidato alla camera dei deputati per il partito al potere.

Il Burkina Faso sta organizzando le elezioni presidenziali e legislative del 22 novembre e il vicino Niger quelle presidenziali del 27 dicembre, ma in molti comuni della grande area detta “delle tre frontiere” – Burkina Faso, Niger e Mali – gli scrutini non potranno tenersi perché lo stato è del tutto assente.

“Come si fa a organizzare un’elezione in una zona in cui si verificano attacchi quasi tutti i giorni?”, si chiede un esperto di sicurezza burkinabè.

L’11 novembre quattordici militari sono stati uccisi in un’imboscata su una strada della regione. Si tratta del più grave attacco contro l’esercito degli ultimi mesi. Il 14 novembre, una settimana prima del voto, un gruppo di jihadisti a bordo di un centinaio di moto e di cinque veicoli è stato segnalato nella zona di In-Tillit, in Mali, nei pressi della frontiera burkinabè.

“È evidente che queste elezioni saranno una sfida enorme”, dichiara una fonte vicina alle autorità di Dori.

Un bilancio pesante
In Burkina Faso il bilancio degli attacchi jihadisti (a volte intrecciati a conflitti tra le diverse comunità) è molto pesante: 1.200 morti (soprattutto civili) e un milione di sfollati negli ultimi cinque anni, soprattutto nel nord, la regione più colpita.

Il Consiglio costituzionale ha riconosciuto che le elezioni non si potranno tenere in un’area pari a quasi un quinto del territorio nazionale per la “presenza di gruppi terroristici, l’assenza di un’amministrazione e la fuga degli abitanti”.

“Bisogna considerare che gli sfollati che provengono da queste zone non voteranno”, sottolinea Mahamoudou Savadogo, ricercatore burkinabè esperto di estremismo violento.

“I gruppi jihadisti non hanno vinto sul piano militare, ma riuscendo a diffondere una paura che rende molto difficile la vita delle persone”

Alla stazione di Dori, snodo commerciale della regione, i trasportatori sono contrariati: molte strade non si possono più percorrere per paura di fare brutti incontri. “Ci sono troppi problemi sulla strada”, conferma uno di loro, chiedendo di restare anonimo. Racconta che i camion devono aspettare una scorta militare per raggiungere Djibo, 200 chilometri a est di Dori.

“I gruppi jihadisti non hanno vinto sul piano militare, ma riuscendo a diffondere una paura che rende molto difficile la vita delle persone”, sottolinea Rinaldo Depagne dell’International crisis group.

I jihadisti “sono figli del paese, conoscono il territorio, sono sui social network. Gli attacchi non sono mai casuali”, spiega Saidou Maïga, sindaco del comune rurale di Falagountou, al confine con il Niger. Maïga non va più a Gorom-Gorom, a 30 chilometri da Dori, “nemmeno a mezzogiorno”, mentre prima, racconta, “ci andavamo anche di sera per prendere un tè e poi tornare a Dori”.

“Non è un problema a cui il Burkina Faso può rispondere da solo. Se le tre frontiere non saranno gestite insieme al Niger e al Mali, la cosa non funzionerà”, dice il sindaco.

Nel 2017 è stata istituita una forza militare regionale, la Forza congiunta del G5-Sahel, che però non ha raggiunto grandi risultati. È stata sostenuta dalle truppe francesi dell’operazione Berkhane (composta da cinquemila uomini) e dall’operazione europea Takuba.

“I militari sono presenti solo nei dintorni delle città. Nella boscaglia non ce ne sono, sono andati via tutti”, spiega Savadogo. “Lì non c’è più alcun controllo da parte dello stato, interi pezzi di paese non potranno votare”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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