Tra il 1 gennaio 2008 e il 31 marzo 2020 i casi documentati di razzismo in Italia sono stati 7.426. Lo afferma l’ultimo Libro bianco sul razzismo in Italia, l’indagine pubblicata dall’associazione Lunaria insieme al sito Cronache di ordinario razzismo. Si tratta di 5.340 violenze verbali, 901 violenze fisiche contro la persona, 177 danneggiamenti alla proprietà, 1.008 casi di discriminazione. Nel 2019 gli attacchi documentati dall’organizzazione sono diminuiti rispetto al 2018, tuttavia nel complesso il biennio 2018-2019 è stato il peggiore degli ultimi dieci anni, secondo l’organizzazione.

I dati più preoccupanti riguardano le 901 violenze fisiche contro le persone e i 177 danneggiamenti di beni o proprietà connessi (o ricondotti) alla presenza di cittadini stranieri. “Sebbene i dati presentati non abbiano alcuna rappresentatività statistica, ci sembra che sia da guardare con grande attenzione l’anomala ricorrenza di aggressioni fisiche, effettuate individualmente o in gruppo, che abbiamo documentato nel biennio 2018-2019 rispetto agli anni 2012-2017. Gli anni 2009 e 2018 sono i peggiori nel periodo considerato, almeno attraverso la lente del nostro osservatorio. Forse non è irrilevante l’analogia tra i toni, i temi e gli argomenti che hanno attraversato il dibattito pubblico sulle migrazioni in entrambi gli anni”, spiega il rapporto.

Tra le 1.008 discriminazioni registrate, 663 sono state commesse da politici o amministratori: “Anche questo è un dato da non sottovalutare: ci segnala quanto ci sia ancora da fare per prevenire la xenofobia e il razzismo perfino in quelle sedi che dovrebbero essere in prima fila nel prevenirli e nel combatterli”, continua il rapporto. Sono invece 345 le discriminazioni commesse da privati cittadini documentate dal rapporto.

“7.426 casi di razzismo. È un numero alto. Eppure, sappiamo che è approssimato per difetto. La xenofobia, il razzismo, l’islamofobia, l’antisemitismo, la ziganofobia sono difficili da quantificare, perché la gran parte delle ingiustizie, delle discriminazioni e delle violenze razziste resta confinata nell’invisibilità del silenzio di coloro che le subiscono e nell’omertà dei molti che ne sono testimoni passivi e, dunque, anche complici”, spiega Grazia Naletto di Lunaria.

In Italia – come nella maggior parte dei paesi occidentali – i crimini di odio motivati da ragioni etniche, religiose e razziali sono in aumento

“Il numero 7.426 ci serve, dunque, innanzitutto a questo: a ricordare che la xenofobia e il razzismo, lungi dall’essere fenomeni straordinari ed estemporanei, imputabili a individui solitari, sono radicati nel nostro paese da molto tempo e fanno parte di un contesto, sono cioè fenomeni sociali, strutturali, ordinari e sistemici, in cui giocano un ruolo centrale gli attori collettivi: le istituzioni, i partiti e gli operatori dei mezzi di comunicazione, innanzitutto. Il razzismo istituzionale è quello che da sempre attrae la nostra attenzione, nella convinzione che da esso discendano in gran parte le forme di razzismo mediatico e popolare”, conclude Naletto. Nel rapporto sono ripercorse le tappe dei dieci anni dell’osservatorio e i passaggi più importanti anche nella presa di coscienza del fenomeno.

L’indagine pubblicata ogni anno da Lunaria si fonda sull’osservazione e sul monitoraggio quotidiano della stampa italiana e delle segnalazioni rilasciate online da parte delle vittime, dei testimoni o di altre associazioni. Come ricordano gli autori non ha valore statistico, ma è di fatto una delle poche fonti di informazione su questo tema in Italia e permette di osservare i cambiamenti in atto. In Italia – come nella maggior parte dei paesi occidentali – i crimini di odio motivati da ragioni etniche, religiose e razziali sono in aumento da anni, anche se le cause di questo incremento sono difficili da stabilire. Il problema principale è che in Italia non esiste una banca dati ufficiale che raccolga e pubblichi ciclicamente le statistiche su questo tipo di aggressioni, come avviene invece in altri paesi europei.

Esistono diverse agenzie che raccolgono informazioni, ma non c’è un coordinamento centralizzato. Nel 2010 è stato creato l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), un’agenzia del ministero dell’interno che registra le segnalazioni alla polizia di crimini di odio. Ma i dati non sono molto aggiornati. Altre agenzie governative in possesso di informazioni utili sono il ministero della giustizia, che registra il numero dei procedimenti giudiziari avviati per questo tipo di crimini, mentre i dati delle discriminazioni li raccoglie anche l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar), che dipende dalla presidenza del consiglio dei ministri. Uno dei problemi riguarda le definizioni dei reati, in quanto in Italia non esiste una definizione univoca di “crimine di odio” e di “discorso di odio”.

L’Oscad segue la classificazione di “crimine di odio” fornita dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), l’autorità internazionale che si occupa di questo tipo di reati. La classificazione di crimini di odio per l’Osce (e quindi per l’Oscad) è molto rigida e non contempla per esempio i discorsi d’odio (hate speech). Un altro problema è che in Italia non esiste comunicazione tra il ministero della giustizia e il ministero dell’interno su questo tema, per cui non si sa quante denunce presentate alle forze di polizia si tramutino in processi.

Per tutte queste ragioni è molto difficile quantificare l’aumento delle aggressioni razziste in Italia e determinarne le cause, così come è molto complicato fare un paragone con gli altri paesi europei. In Italia nell’ottobre del 2019 è stata istituita una commissione parlamentare contro l’odio voluta dalla senatrice Liliana Segre, che dovrebbe avere proprio l’obiettivo di monitorare il razzismo e l’antisemitismo nel paese, ma la commissione formata da 25 senatori non si è ancora riunita. Nel frattempo in Italia si è formata una Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni di odio con il contributo di diverse organizzazioni, tra cui la stessa Lunaria, Arci, Asgi e Amnesty international. La rete ha mandato una lettera alla commissione per chiedere di cominciare a lavorare il prima possibile.

La legge Zan e i discorsi di odio
In questo contesto e in questo momento storico, con il movimento antirazzista Black lives matter che sta scendendo in piazza in tutto il mondo dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis, negli Stati Uniti, uno degli argomenti più controversi è quello sui discorsi di odio che prendono di mira le minoranze e sul contrasto a questo tipo di discorsi, che per alcuni potrebbe porre un limite alla libertà di espressione e di parola. Sulla rivista Harper’s ha fatto discutere la lettera firmata da 150 intellettuali contro la cosiddetta cancel culture, ovvero quella forma di boicottaggio promossa online con cui ci si dissocia da aziende o celebrità che hanno manifestato comportamenti controversi o oltraggiosi.

“Sappiamo che spesso questo tipo di iniziative contro l’omofobia sono accusate di voler porre un limite alla libertà di espressione e di parola”, spiega Federico Faloppa, docente di storia della lingua italiana e sociolinguistica all’università di Reading, nel Regno Unito, e autore del libro Manuale di resistenza alla violenza delle parole (Utet 2020). “Ma in realtà sono solo strumenti per capire meglio cosa sta succedendo nei nostri paesi in una situazione in cui anche la raccolta dei dati è complicata: quest’anno sembra che i discorsi di odio siano scomparsi, ma sappiamo che non è così, forse fanno solo meno notizia rispetto all’anno scorso. Sarebbe giusto quindi che esistesse un osservatorio di monitoraggio stabile su questi temi”.

Ma che si intende per discorsi di odio? “Negli Stati Uniti la definizione è rigida. In molti paesi europei, invece, si fa molta attenzione a non far collidere i limiti che si vogliono porre al discorso di odio con la censura che intaccherebbe la libertà di espressione: la definizione di questo limite è un tema molto complesso e ogni paese cerca di legare la questione al proprio sistema giuridico”, spiega Faloppa. La European commission against racism and intolerance (Ecri) parla di “forme di espressione” che discriminano le persone per motivi di razza, di sesso, di religione. “Quella dell’Ecri è una definizione molto vaga che non tiene contro dell’uso di stereotipi o, per esempio, del body shaming “, continua Faloppa.

Per il linguista tuttavia una delle questioni da tenere presente nel riflettere sulla definizione univoca per i discorsi di odio è che si tiene poco conto del punto di vista della vittima. “Bisognerebbe dare un po’ più di attenzione alle persone che subiscono le parole di odio: è necessario coinvolgerle nella definizione di quali linguaggi sono più discriminatori, altrimenti si rischia di non centrare il punto”. Sul piano del linguaggio, secondo Faloppa, sarebbe il caso di arricchire la definizione di hate speech dell’Ecri. “È necessario costruire questa discussione dal basso, per ragionare in maniera più complessa sulle parole che usiamo e sulle parole che feriscono, includendo il punto di vista di chi questa ferita la subisce”.

In Italia c’è molta discussione sul tema per una proposta di legge contro l’omofobia e la misoginia, la legge Zan, che modifica la legge Mancino del 25 giugno 1993, estendendo agli episodi d’odio fondati sull’omofobia e sulla transfobia i reati già previsti nel codice penale, aggiungendo alla discriminazione “razziale, etnica e religiosa” quella fondata “sul genere e sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”. In passato ci sono stati altri tentativi di estendere la legge Mancino che tuttavia sono naufragati. La proposta di legge Zan arriverà alla camera il 27 luglio.

Faloppa giudica positivamente la norma, perché “ci sono persone che sono attaccate più di altre sulla base di discriminazioni e che al momento sono meno tutelate”. La parola può già diventare reato come nel caso della calunnia o della diffamazione: “Infatti fino a ora sono state usate spesso le norme sulla calunnia per tutelare le persone lgbt che hanno subìto discorsi di odio”. Ma il limite è sempre quello della libertà di espressione: “Le corti valutano sempre i contesti in cui certe parole sono espresse e quali sono i danni che provocano nella persona che li riceve”, conclude Faloppa.

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