Cara catastrofe, un dialogo con Vasco Brondi su questi tempi incerti
Aveva parlato di catastrofe già dieci anni fa, quando non aveva nemmeno trent’anni ed era all’inizio della sua carriera. La prima canzone del suo secondo album, Cara catastrofe, ha compiuto dieci anni il 14 ottobre e Vasco Brondi ha detto di non ricordarsi esattamente le circostanze nelle quali ha scritto quel pezzo che prefigurava un tempo capovolto come quello che stiamo vivendo. “Non mi sono mai messo a scrivere canzoni pensando di parlare per gli altri o del mondo, non ho mai avuto questa supponenza, io ho parlato sempre di quattro miei amici e di un chilometro quadrato di città, quello che conosco bene”, mi dice quando lo incontro in un bar di Trastevere, poco prima che in Italia cominciasse la seconda ondata della pandemia di coronavirus.
Dieci anni dopo, i deserti avanzano ancora, licenziano altra gente dal call center e dormiamo in camere separate più che altro per non contagiarci. Ma Brondi dice che non c’è niente di profetico nelle canzoni, si tratta solo di stare attenti: “Non leggiamo i fondi del caffè, osserviamo la realtà con attenzione”. Ma anche lui si dice sorpreso di come la musica riesca a cogliere i momenti di crisi in anticipo e con la precisione di un sismografo: “Non so come possa succedere che certa musica parli a distanza di tempo. Per esempio quando suono Cronaca montana dei Pgr che dice: ‘Certo le circostanze non sono favorevoli. E quando mai? Bisognerebbe. Bisognerebbe niente. Bisogna quello che è. Bisogna il presente’. Queste parole scritte chissà quando, ora riverberano in una maniera particolare”.
Per Brondi gli artisti dovrebbero essere “come quegli uccellini che i minatori portavano nelle miniere per capire se c’erano fuoriuscite di gas, se torniamo vivi raccontiamo cosa abbiamo visto, se non torniamo vuol dire che bisogna cambiare strada”, scherza, dietro una mascherina di stoffa nera, che ogni tanto deve sistemarsi sul naso. Cara catastrofe non la canta quasi mai nei concerti. “Tanto amata ora, quanto criticata dieci anni fa”, ha scritto su Instagram, ricordando come il secondo album delle Luci della centrale elettrica nel 2010 gli abbia portato più critiche che consensi, dopo il successo del primo disco. Quello di cui rimane convinto è che la catastrofe non è un concetto del tutto negativo: è una specie di irruzione della realtà, in un mondo che perlopiù vive nell’illusione del controllo.
“Quello in cui viviamo, il momento del lockdown e poi della pandemia, non è stato un tempo né irreale né sospeso, come hanno detto alcuni. È cambiata la proiezione di solidità che davamo alle cose: ci siamo resi conto all’improvviso che non abbiamo il controllo su tutto, abbiamo scoperto la realtà nella sua dimensione tragica. Il dramma è che questo avvenga solo quando qualcuno vicino a noi o noi stessi ci ammaliamo. In Cara catastrofe c’era una visione della realtà che ha a che fare con il cambiamento, con il fatto che a ogni fine corrisponde un inizio”, spiega. Questo punto di vista della catastrofe gli viene dal punk e dal grunge, due generi alla base della sua formazione. “Sono correnti musicali che esaltano i limiti e i difetti degli individui, che smascherano le illusioni e le ipocrisie della società. Pensa ai Nirvana che smascherano la finzione dell’America di Ronald Reagan”.
Talismani
Brondi nel suo lavoro è sempre stato un esploratore, uno che sconfina in diversi linguaggi. Con l’età quest’attitudine sta diventando più estrema. Dice che dipende dal fatto che il lavoro di musicista coincide con una ricerca personale continua. “Questo vuol dire sconfinare dalle canzoni, oppure in quelle canzoni metterci dentro anche quello che mi interessa in quel momento che non è strettamente legato alla musica”. Ogni tanto si è chiesto se sia proprio la musica il suo mestiere o se non debba vivere di altro.
Forse ha a che fare con il fatto che ha raggiunto il successo molto giovane, ma anche con una certa avversione per la competizione: “Per me la musica è poco utile quando è uno sport a chi piace di più. Il punto per me è liberarsi dalla ricerca dell’approvazione degli altri”, afferma. Poi confessa di non avere quel tipo di motivazione che viene dagli applausi, dagli stadi pieni, dai concerti affollati, dai bagni di folla, anzi di essersela vissuta anche male la mancanza di questa spinta. “Può essere una grande motivazione per un artista, invece io ogni tanto penso che in ogni perdita c’è una parte di sollievo”.
Ogni tanto pensa che diventerà un maestro di yoga e meditazione, due discipline che pratica da sei/sette anni con assiduità: “Sono parte della mia quotidianità quasi più della musica”. Contemporaneamente a un certo punto ha capito che era necessario ritrovare una dimensione privata della scrittura: “Ho un file sul computer in cui scrivo solo per me, mi sono accorto che scrivere solo per pubblicare mi stava togliendo qualcosa nel mio rapporto con la scrittura”.
È stato durante il lockdown che si è riavvicinato alla musica: “Avevo appena risistemato lo studio a Ferrara e mi sono trasferito anche lì a dormire. Vivere a Ferrara è come vivere in Polonia, ti puoi permettere degli spazi che in altre città sono inimmaginabili. E mi sono ritrovato in questi pomeriggi lunghissimi, un po’ come da adolescente ad ascoltare musica, suonare, provare, leggere”. Da Ferrara, la sua città, è voluto sempre scappare, ma negli ultimi anni invece è tornato alle origini: “Mi sembra che sia interessante vivere nel momento più basso di una città millenaria che è stata una delle città più importati d’Europa per qualche secolo”.
In questo è stato molto ispirato anche da due suoi maestri: il fotografo Luigi Ghirri e il musicista Massimo Zamboni. Con Zamboni ha fatto un viaggio nel canale Tartaro, che collega Mantova al delta del Po, da cui poi è nato un libro Anime galleggianti. “Ferrara è un posto isolato, non è veramente Emilia, è più Polesine che Emilia, è stata una città molto importante per qualche secolo, ma poi è in una continua e inarrestabile decadenza. E anche questo è interessante”.
Da questa esperienza d’isolamento nella sua città è nato un dialogo con altri artisti e scrittori amati. “I miei talismani sono gli autori e la musica che ho scoperto a 15 anni, difficilmente quello che scopri e che ti appassiona a quell’età può essere uguagliato nel corso della vita. E mi sono accorto che cantare davanti al pubblico le canzoni di altri che mi hanno sempre appassionato mi emozionava molto, era come provocare quello che Kerouac chiama uno shock telepatico”.
Nel suo ultimo spettacolo Talismani per tempi incerti ha deciso di intervallare musica e testi: “Più sono estremo, più faccio cose radicali, più mi sembra che le persone siano contente, per me fare questo concerto particolare in giro per l’Italia è stato scoprire che chi ascolta la mia musica è come me, non si accontenta di quello che lo fa sentire comodo, a suo agio e anzi è in una continua ricerca”.
Alla fine di questo concerto hanno cominciato a chiedergli la bibliografia della serata. I suoi talismani sono i Cccp, i Csi, gli Afterhours, De Gregori, De André, Battiato, Chandra Candiani, Mariangela Gualtieri, Julio Cortázar, Elisabeth Bishop, Wisława Szymborska, Vinicio Capossela. Un mosaico che corrisponde alla sua formazione, che definisce “autogestita”. Durante l’ultimo concerto del suo tour alcuni di loro sono saliti sul palco con lui a Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, in un concerto di raccolta fondi per “gli invisibili”, i lavoratori e i professionisti dello spettacolo dal vivo, pesantemente colpiti dalla crisi economica che ha seguito la crisi sanitaria.
È uscito di casa da giovane, faceva il barista e il facchino, si è iscritto all’università a Bologna, poi il successo e la musica lo hanno allontanato dagli studi: “Da ragazzino non avevo libri o dischi in casa. Facevo fuoco a scuola (come si dice a Ferrara saltare le lezioni) per andare a leggere libri nella Biblioteca Ariostea, forse una delle biblioteche più belle d’Italia”. Gli è rimasto questo gusto di far parlare gli autori tra di loro, d’intrecciare i generi, di mischiare cultura alta e bassa: “Ho conosciuto Majakovskij grazie ad Andrea Pazienza, che ha messo una tavola dedicata al poeta russo in Pompeo. Se Bukowski parla di John Fante, allora leggo tutto John Fante. Per chi come me si è costruito una cultura caotica a partire da intersezioni, queste relazioni con altri autori sono fondamentali”.
Poi dice che non potrebbe fare altrimenti, non è in grado di fare qualcosa che non lo appassioni: “Si pensa che gli autori siano più liberi nei loro primi lavori perché non hanno niente da perdere, io credo invece di essere più libero ora che dieci anni fa. Posso decidere di mettere un violoncello in una canzone o delle percussioni africane, senza preoccuparmi di incontrare il gusto di qualcuno”. E al suo prossimo lavoro comincerà a pensare nelle prossime settimane: “Ho già un sacco di materiale accumulato su cui lavorare”. Senza fretta però: “È inutile dire: ‘Adesso faccio un disco’. Dopo un tour si è vuoti. Bisogna prima vivere, tornare una persona ‘normale’ e poi si può ricominciare. Non è che sono saggio, proprio non funziono in un altro modo”.