Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.

C’era una canzone che cantava mia nonna quando ero bambina, raccontava la storia di una certa Teresina. Era una parabola sull’onore, ma all’epoca non lo sapevo. Per me era solo una storia d’amore che finiva male. Una delle mie preferite. Mia nonna non ricordava dove aveva imparato quel racconto. E aggiungeva o toglieva delle parti ogni volta che lo cantava, in quella sua lingua misteriosa ed espressiva. Un po’ in italiano, un po’ in dialetto. Ma la storia era davvero successa, assicurava lei. Non si trattava di un racconto inventato.

Qualche volta diceva che gliel’aveva raccontata un cantastorie, di quelli che un tempo giravano per le piazze dei paesi, un’altra volta che l’aveva letta sul giornale e che era la storia vera di una ragazza di cui si era tanto parlato dalle sue parti anni prima.

Teresina era “felice e bella”, diceva la canzone. Era una contadina di sedici anni e s’innamorava di un uomo più grande di lei, Giulio, che le giurava un amore eterno. Ma poi le cose si mettevano male: la sorella di Teresina, Margherita, si innamorava dello stesso uomo, e Teresina rimaneva incinta. A sedici anni e fuori dal matrimonio. “Come una serpe fa a uccellino”, la sorella di Teresina attirava a sé Giulio, convincendolo che Teresina lo tradiva e che il figlio che portava in grembo non era il suo.

Così Teresina era abbandonata da Giulio, che decideva di sposare Margherita. Ma poi, nella storia, c’era un secondo tempo inaspettato, un finale che forse era il frutto dell’immaginazione di mia nonna. Il giorno del matrimonio, Teresina si presentava all’altare e uccideva sia Margherita sia Giulio. E poi si consegnava alla polizia per farsi arrestare. “Chi al mondo fa del male, sempre del male avrà”, concludeva mia nonna. Ed era una specie di maledizione, un monito, il tentativo di ribaltare l’ingiustizia.

“Fare l’amore”, diceva mia nonna per dire che una ragazza frequentava un ragazzo. Lo diceva senza nessun imbarazzo. Quando diceva “fare l’amore” non intendeva niente che avesse a che fare con il sesso o l’intimità, anzi la sua intenzione era spiegare – senza mai dire niente in maniera esplicita – che “fare l’amore” per una donna implicava una specie di lotta con l’amato e con se stessa per evitare qualsiasi contatto fisico.

Il sesso fuori dal matrimonio, una gravidanza fuori dal matrimonio erano la cosa peggiore che potesse capitare a una ragazza, perché rischiava di essere abbandonata da tutti e rinnegata perfino dalla sua famiglia, una macchia indelebile che l’avrebbe segnata per tutta la vita.

Saltavo sulle ginocchia di mia nonna senza nessuna grazia certi sabato pomeriggio, mentre aveva appena finito di vedere una soap opera in televisione o di leggere un libro. Faceva le due cose con continuità, guardava Sentieri su Rete4 e leggeva molti libri Harmony. Erano gli anni ottanta.

Lei era nata nel 1909, come John Fante e Rita Levi Montalcini, ma non aveva studiato perché aveva cominciato a lavorare a quindici anni. Tra noi due c’erano settant’anni di differenza. Si era sposata tardi, raccontava. E per tardi intendeva ventisette anni. Aveva avuto quattro figli, di cui due erano morti prima dei due anni.

Aveva sempre lavorato. Non l’ho sentita fare mai discorsi su cosa dovesse fare o non fare una donna, ma la questione dell’onore era un’ossessione. Ho capito anni dopo che era una paura che le avevano inculcato fin da bambina. Era terrorizzata che una ragazza facesse sesso prima del matrimonio come dalla possibilità di essere morsa da una vipera d’estate durante una scampagnata. Sapeva nel profondo del suo cuore che avere un figlio fuori dal matrimonio per una donna della sua generazione poteva arrivare a costarle la vita.

All’origine del dominio maschile

Il delitto d’onore è rimasto in vigore in Italia fino al 1981. Un uomo – un padre, un fratello, un marito – che uccideva una donna che aveva macchiato il suo onore, e cioè che aveva fatto sesso fuori dal matrimonio, poteva avere l’attenuante del delitto d’onore. La pena per l’omicidio poteva essere ridotta, considerando che stava difendendo il suo onore e quello della sua famiglia, presupponendo quindi che gli uomini della famiglia avevano una specie di diritto di controllo e proprietà rispetto alle donne e alla loro sessualità.

Fino al 1930 in Italia era riconosciuta un’attenuante anche per l’omicidio dei figli nati fuori dal matrimonio, chiamati “prole illegittima”. In alcuni paesi del mondo i delitti d’onore sono ancora tollerati: in Pakistan nel 2022 384 donne sono state uccise dai loro familiari per questioni legate all’onore, è il paese con più femminicidi al mondo. Ma il fenomeno non ha nazionalità, è globale.

Secondo lo psichiatra francese Philippe Brenot, all’origine del dominio maschile sulle donne e della violenza, che ne è la conseguenza, c’è l’incertezza della paternità. La violenza maschile sulle donne è una caratteristica esclusiva della specie umana ed è indissolubilmente legata all’invenzione del matrimonio e al controllo della sessualità femminile (anche fuori dal matrimonio) come garanzia del riconoscimento dei figli per gli uomini.

Fino agli anni ottanta erano attivi in tutta Italia diversi istituti, spesso gestiti da religiosi, in cui le donne che avevano concepito un figlio fuori dal matrimonio erano mandate dalle loro famiglie per nascondere la gravidanza: in questi istituti partorivano e poi erano costrette ad abbandonare i figli, dati in adozione. Questi luoghi hanno funzionato fino ai primi anni ottanta. La legge 194, che ha legalizzato l’interruzione di gravidanza nel paese, è entrata in vigore nel 1978.

Nel recente Il prezzo degli innocenti (Longanesi 2023) la giornalista italoamericana Maria Laurino ha raccontato che tra gli anni sessanta e ottanta circa quattromila bambini italiani sono stati sottratti alle loro madri in queste circostanze. E sono poi stati adottati da famiglie benestanti negli Stati Uniti, che in cambio versavano agli istituiti alte somme di denaro. In molti casi le donne erano minorenni, venivano da contesti di povertà.

Quante siano state le donne che si sottraevano a questo destino e che portavano avanti la gravidanza nonostante tutto è complicato ricostruirlo. Spesso si mentiva sui figli nati fuori dal matrimonio. Un espediente era quello di fare credere che fossero figli avuti dai genitori delle neomamme, e in questo modo erano registrati all’anagrafe.

Nel 1983 in Italia le madri nubili erano circa 75mila. Era l’unico caso in cui la legge permetteva alle donne di dare al bambino il proprio cognome. Nel 2015-2016 le madri single erano 859mila, più della metà delle quali divorziate o separate. Il 34,6 per cento erano madri nubili, cioè donne sole che avevano avuto figli fuori del matrimonio.

Secondo l’Istat ancora oggi le madri single sono più esposte di quelle in coppia al rischio povertà, e in generale devono lavorare di più e stare di più fuori di casa per sostenere economicamente la famiglia, vista anche la disparità salariale tra uomini e donne nel paese. Il 42 per cento delle madri single è a rischio povertà o esclusione sociale.

L’uguaglianza tra genitori

Fino al 2016 le donne non potevano dare il loro cognome ai figli, se non nel caso di madri nubili, anche per questo nel 2014 l’Italia era stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani (Cedu), che aveva accusato Roma di avere delle leggi discriminatorie verso le donne.

Grazie a due sentenze della corte costituzionale – una del 2016 e una del 2022 – è ormai possibile dare ai figli il cognome di entrambi i genitori e anche solo quello della madre, ma solo se c’è un accordo tra la madre e il padre. “Nel cognome dei figli l’eguaglianza tra i genitori”, è scritto nella sentenza della corte costituzionale del 2022. La corte è arrivata prima del parlamento. L’Italia ancora aspetta una legge che regoli la questione del cognome materno e tutte le contese rimaste in sospeso dopo la sentenza della consulta. Una proposta di legge è in senato da gennaio del 2024, anche se i testi che in passato hanno provato a occuparsi della materia sono sempre stati affossati.

Sono nata nel 1980, un anno prima che fosse abolito il delitto d’onore, due anni dopo la legalizzazione dell’aborto. Porto il cognome di mia madre.

Sono nata una domenica mattina con il parto cesareo, rompendo le acque e i piani di mia madre, che aveva previsto di farmi nascere due giorni dopo. E quando nel nido della clinica hanno dato in braccio a mia nonna quel fagottino paffuto appena arrivato al mondo, lei è scoppiata a piangere. Ero nata fuori dal matrimonio e mio padre non solo non voleva sposarsi, ma non voleva nemmeno che nascessi.

Mia madre aveva 38 anni, lavorava. Era rimasta incinta e aveva deciso di portare avanti la gravidanza anche se mio padre non era d’accordo. Quando mia madre glielo aveva detto, lui le aveva strappato la borsa dalle mani e l’aveva rovesciata. Aveva paura che lei volesse ucciderlo e che nascondesse da qualche parte un’arma, perché non era concepibile per lui che una donna da sola decidesse di fare un figlio, senza il sostegno del compagno.

Quando invece lo aveva detto ai suoi genitori, mio nonno era andato a prendere il fucile da caccia che custodiva in garage, risoluto ad andare da mio padre e regolare i conti dell’onore. Mia madre allora aveva detto che se avesse provato a varcare la soglia di casa con quell’arma non l’avrebbe mai più vista.

C’erano stati la rivoluzione sessuale e il femminismo, mia madre era una donna con una personalità forte, anche se non era stata una femminista. Era autonoma dal punto di vista economico e aveva una sorella, che l’avrebbe sostenuta in tutto. Così mio nonno fu costretto a riporre il fucile e a dimenticarsi l’onore.

Quando mi diedero in braccio a mia nonna, ore dopo la mia nascita, lei pianse disperata. Un uomo, uno sconosciuto, le si avvicinò e senza chiedere quale fosse il motivo della disperazione, le disse che la bambina era davvero molto bella, che le assomigliava, aveva il suo taglio degli occhi e la bocca a cuore. Non sapeva che avrei portato anche il suo nome e che le sarei saltata sulle ginocchia tutti i sabato pomeriggio, per farmi raccontare quelle storie che avevano sempre delle protagoniste femminili. Quei racconti avvincenti a cui ogni volta lei toglieva e aggiungeva dei pezzi, spesso cambiando il finale.

Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.

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