“Se morissi vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta”, ha scritto Ousmane Sylla in francese sul muro del centro di detenzione in cui era rinchiuso dal 27 gennaio. Il ragazzo di 22 anni, originario della Guinea, si è tolto la vita il 4 febbraio impiccandosi all’inferriata del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, nella periferia di Roma. “I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro. L’Africa mi manca molto e anche mia madre, non deve piangere per me. Pace alla mia anima, che io possa riposare in pace”, ha scritto Sylla.
Adorava cantare, diceva di essere un cantante, era arrivato in Italia da minorenne sei anni fa ed era stato ospitato prima in una comunità per minori a Ventimiglia, poi in una casa famiglia a Sant’Angelo in Theodice, una frazione di Cassino, nella provincia di Frosinone. In Guinea ha lasciato la madre e il padre, due sorelle e due fratelli.
Secondo i racconti fatti dai compagni, il ragazzo aveva scritto il messaggio sul muro sabato pomeriggio, poi la domenica all’alba si è messo a pregare, quindi si è impiccato usando un lenzuolo come cappio intorno alle 4.30.
Ousmane Sylla è stato ritrovato dagli altri ragazzi, che hanno provato a rianimarlo e hanno chiamato i soccorsi, ma non c’è stato niente da fare. All’interno del centro di detenzione non è permesso avere smartphone e i telefoni fissi non funzionano, quindi è molto complicato chiedere aiuto in caso di necessità.
“I ragazzi si sono messi a urlare e a sbracciarsi di fronte alle telecamere, per chiedere aiuto”, racconta Valentina Calderone, garante per i diritti dei detenuti del comune di Roma, che dopo il fatto ha visitato il centro insieme al garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, alla senatrice del Partito democratico Cecilia d’Elia e al deputato di +Europa Riccardo Magi. L’accesso al centro è negato ai giornalisti.
Secondo il racconto dei ragazzi, è arrivata prima un’infermiera e poi un’ambulanza, ma non è servito. Subito dopo nel centro è scoppiata una rivolta e sono intervenute le forze dell’ordine, facendo ricorso ai lacrimogeni. Secondo fonti interne, la struttura è stata pesantemente danneggiata.
“Gli ultimi quattro mesi della sua vita Ousmane Sylla li ha passati in due Cpr”, ha ricostruito l’associazione Naga di Milano. Prima era stato rinchiuso nel Cpr di Milo a Trapani, dov’era entrato lo scorso ottobre. In seguito alla rivolta scoppiata la scorsa settimana nella struttura siciliana, era stato trasferito nel centro di Ponte Galeria, a Roma. Era arrivato il 27 gennaio ed era stato sottoposto a tutti i controlli di routine.
Ousmane Sylla era entrato nel Cpr di contrada Milo, a Trapani, il 14 ottobre, e aveva dato segnali di disturbi mentali, che erano stati segnalati da una psicologa del centro e poi dall’avvocato assegnato d’ufficio, Giuseppe Caradonna. Il legale non era riuscito a vederlo, ma aveva scritto un’email al questore il 14 novembre, segnalando lo stato di salute psicofisica del ragazzo e dicendo che non era idoneo a essere trattenuto in quel tipo di centri.
“Stando a quanto mi viene segnalato da alcuni operatori del centro per il rimpatrio di Milo, un ospite, Ousmane Sylla, continua a mantenere una condotta del tutto incompatibile con le condizioni del centro, probabilmente per via di disturbi psichici derivanti da esperienze traumatiche al punto da mettere a serio rischio la propria e l’altrui incolumità”, ha scritto l’avvocato al questore. All’email certificata era allegata anche la relazione di una psicologa che segnalava uno stato “agitato e irrequieto”, “aggressivo e scontroso”, e che auspicava il trasferimento del ragazzo in una struttura più adatta.
“Secondo la relazione della psicologa di Trapani nella casa famiglia era stato vittima di un pestaggio da parte di altri ospiti che probabilmente lo aveva traumatizzato, ma aveva già dato segnali di vulnerabilità e difficoltà psicologiche”, ricostruisce Calderone. Era originario della Guinea, quindi non rimpatriabile. “In base alla vecchia legge sarebbe stato già rilasciato dal Cpr”, commenta Calderone. Ma l’attuale governo ha esteso a diciotto mesi il periodo di detenzione massima in un centro di permanenza per il rimpatrio. Presumibilmente la famiglia del ragazzo non è stata ancora avvertita dell’accaduto: è stata informata l’ambasciata del paese d’origine, che dovrebbe contattare i familiari.
“Sappiamo che a Trapani l’avvocato non era riuscito a incontrarlo, ma poi aveva chiesto che fosse valutato il suo stato di salute fisico e psicologico, perché gli era stato segnalato dagli operatori una condizione problematica”, racconta Calderone. Tuttavia, il questore aveva risposto dicendo che dai riscontri che erano stati fatti al Cpr risultava che il ragazzo stesse bene e fosse idoneo a essere rinchiuso nel centro di detenzione. Dopo le proteste nel Cpr di Trapani era stato trasferito a Roma, dove si è ucciso. Per le proteste di domenica a Ponte Galeria sono stati arrestati quattordici dei circa novanta ospiti del centro.
I profitti dei privati
Il Cpr di Ponte Galeria è solo l’ultimo dei centri di detenzione italiani a essere protagonista di eventi tragici: il 4 febbraio era scoppiata una protesta in quello di Gradisca d’Isonzo (Gorizia), in cui un migrante è precipitato dal tetto, finendo all’ospedale in gravi condizioni. La scorsa settimana c’è stata una protesta in quello di Milo, che ne ha causato la chiusura temporanea. Altre due strutture per il rimpatrio, il Cpr di via Corelli a Milano e quello di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza, sono finite al centro di inchieste giudiziarie a causa delle condizioni inumane al loro interno.
“Questi centri sono affidati alla gestione di privati, che fanno profitti sulla privazione della libertà di esseri umani: a Ponte Galeria l’ente gestore è la multinazionale svizzera Ors, l’unica ad avere anche – almeno fino al giugno scorso – una società di lobbying che ne tuteli gli interessi in parlamento”, spiega la Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild).
“Nonostante le denunce della società civile, le indagini della procura che stanno riguardando il Cpr di Milano, il governo ha aumentato i tempi di permanenza fino a diciotto mesi, affidato la gestione di nuovi centri al genio militare e stretto un accordo con l’Albania per la costruzione di un Cpr nel paese balcanico, ancor più lontano dagli occhi”, continua la Cild.
“La multinazionale Ors gestisce strutture di detenzione sia in Germania sia in Francia, e già dal 2015 diverse organizzazioni hanno denunciato una cattiva amministrazione di questi centri. L’Ors gestisce anche il Cpr di Torino, in cui nel 2021 è morto suicida Moussa Balde, un ragazzo della Guinea. In seguito a quel suicidio il Cpr fu chiuso per ristrutturazione. C’è un’oggettiva difficoltà a trovare chi si occupa di queste strutture, che sono al limite della legalità. La gestione privata peggiora la situazione, e la pubblica amministrazione si autoassolve affidando tutto ai privati. Ma è da 25 anni che all’interno di questi centri succedono atti autolesionisti e morti tragiche”, denuncia Fabrizio Coresi, tra gli autori del report Trattenuti sui Cpr.
Secondo Coresi, l’estensione del trattenimento degli stranieri irregolari non fa che peggiorare le condizioni di vita all’interno di questi centri, a fronte di una spesa di denaro pubblico alta, che tra l’altro non ha nessun effetto sui rimpatri.
“Questa tragedia si consuma in una detenzione senza senso, in uno spazio non idoneo. Le persone sono trattenute in spazi non idonei a una vita dignitosa”, ha denunciato il garante per i diritti dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, dopo avere visitato il centro di Ponte Galeria. “Ho parlato con molti trattenuti, mi hanno ancora una volta raccontato le condizioni in cui si trovano, le difficoltà ad avere servizi di base minimi, perfino le dotazioni necessarie per potere dormire in condizioni dignitose”, conclude Anastasia.
I centri di permanenza per il rimpatrio sono stati introdotti in Italia nel 1998 e vi sono trattenute in detenzione amministrativa persone di nazionalità straniera che non hanno i documenti in regola, in attesa di essere identificate e rimpatriate. Negli anni successivi sono stati gradualmente chiusi a causa delle violazioni dei diritti umani all’interno di queste strutture, ma dal 2017 è stata di nuovo ampliata la rete dei centri per il rimpatrio. Nel 2023 il governo Meloni ha stanziato investimenti ingenti per la costruzione di strutture di questo tipo e ha esteso la durata massima di trattenimento.
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