“Hanno ucciso mia madre!”. Paula Ribeiro, 34 anni, parla senza sosta da venti minuti. Un fiume di parole, inframezzate da lacrime di disperazione ma anche da una rabbia feroce. Il 22 aprile Ribeiro, che vive a Manaus – la più grande città dell’Amazzonia ed epicentro dell’epidemia di covid-19 in Brasile – ha perso sua madre. Vittima della crisi scatenata dal nuovo coronavirus e dal crollo del sistema sanitario nazionale.

“Dona” Amalia aveva 53 anni. Diabetica, con problemi d’ipertensione, si era ammalata a fine marzo. Dolori, febbre, fatica, poi tosse e difficoltà respiratorie: i classici sintomi del covid-19. “Ma i medici che abbiamo chiamato, così come gli ospedali, si sono rifiutati di farle il tampone o di ricoverarla. Ci hanno detto: ‘Abbiamo troppi pazienti, tornate a casa. Venite solo in caso d’emergenza’”, racconta Ribeiro.

Il 22 aprile le condizioni di Amalia sono peggiorate. Respirava a fatica, era agonizzante. “Ho chiamato per far venire un’ambulanza, ma erano tutte occupate”. In preda al panico, la famiglia ha caricato la madre su un’automobile e l’ha portata al pronto soccorso dell’ospedale Nilton Lins. Ma quel reparto, dedicato ai malati di covid-19, riceveva solo i pazienti mandati dagli altri ospedali. Gli infermieri hanno esitato ad aprire la porta a una paziente che credevano già morta.

Grida, strepiti, pianti. Dopo dieci minuti Amalia, priva di conoscenza, è stata ricoverata. “È morta due ore dopo e non le hanno neanche fatto il test. Sul suo certificato di morte c’è scritto ‘causa sconosciuta’”, dice Ribeiro indignata. “Se fosse stata ricoverata in tempo avremmo potuto salvarla. È vergognoso. Quello che è successo a mia madre potrebbe succedere a chiunque”.

Strategia confusa
Mentre in una parte del mondo cominciano le riaperture dopo i periodi di lockdown, in Brasile l’epidemia di covid-19 è nella fase peggiore. Il 19 maggio il paese contava ufficialmente 260mila casi positivi, più dell’Italia e poco meno della Spagna. I morti sono quasi 18mila, e sono raddoppiati in una decina di giorni, con la più alta mortalità quotidiana registrata al di fuori degli Stati Uniti. E il picco è atteso solo nel mese di giugno. Tutti gli studiosi sono preoccupati. Come quelli del centro Covid-19 Brasil, secondo cui nel paese i contagiati potrebbero essere tra i 2,5 e i 3,4 milioni, cioè oltre 15 volte il numero ufficiale. Per l’Imperial college di Londra il Brasile è il paese con il più alto tasso di contagio al mondo, con un R0 di 2,8. Significa che ogni persona infetta contagia in media 2,8 persone. L’università di Washington prevede che da qui ad agosto i morti potrebbero arrivare a 193mila.

Di fronte al dramma in corso, e in mancanza di una risposta da parte del governo di Jair Bolsonaro, le autorità statali hanno deciso di adottare la linea della fermezza. Nel nordest le città di Fortaleza, São Luís e Recife hanno imposto un rigido distanziamento sociale. A Rio de Janeiro e a São Paulo è obbligatorio indossare una mascherina. Alcune località hanno imposto il coprifuoco, altre delle “barriere sanitarie” all’ingresso della città. Ma la strategia è confusa e male applicata: il 43 per cento della popolazione brasiliana non rispetta le misure d’isolamento.

Mal equipaggiati e poco protetti, sarebbero almeno 116 gli operatori sanitari brasiliani morti di covid-19

Ma c’è una città che fa eccezione: Niterói, cinquecentomila abitanti di fronte a Rio de Janeiro, dall’altra parte dell’ampia e bella baia di Guanabara. Qui le autorità locali hanno reagito tempestivamente, imponendo un lockdown rigido con la polizia per le strade, mascherine obbligatorie, distribuzione di aiuti d’emergenza per i più poveri, acquisto di quarantamila strumenti per i test, chiusura di parchi, spiagge e negozi.

E le misure sembrano funzionare: secondo dati aggiornati al 17 maggio, a Niterói i morti sono 65, con un tasso di mortalità del 5,7 per cento, due volte inferiore a quello di Rio (che conta circa duemila decessi). “Sono i risultati di trent’anni di buona gestione”, spiega il sindaco di Niterói, Rodrigo Neves (Partito democratico dei lavoratori, Pdt, di centrosinistra), fiero del suo bilancio in materia di sanità e istruzione. “Il Brasile sta diventando l’epicentro mondiale del coronavirus”, continua Neves. “Non ho alcun dubbio che il nostro esempio verrà seguito e che altre città adotteranno misure più severe”.

Ma forse è già troppo tardi. Secondo i dati del quotidiano Folha de S.Paulo, in almeno 9 dei 27 stati brasiliani il 70 per cento dei posti letto in terapia intensiva destinati ai pazienti con covid-19 è già occupato, con picchi del 96 per cento nel Pernambuco (nordest) e del cento per cento in Roraima (Amazzonia).

Il Brasile è disarmato. Non ha munizioni, generali e neanche soldati: mal equipaggiati e poco protetti, sarebbero almeno 116 gli operatori sanitari brasiliani morti di covid-19 dall’inizio dell’epidemia. Secondo il ministero della sanità, circa duecentomila operatori hanno presentato qualche sintomo associato alla malattia: tutti medici e infermieri, spesso messi in quarantena, la cui assenza rischia di farsi sentire al momento del picco.

A peggiorare le cose, l’apertura di nuovi reparti o l’acquisto di attrezzature sono arrivati con un ritardo monumentale, a causa di una burocrazia insensata e di pratiche spesso sospette. Nello stato di Rio de Janeiro sono stati aperti solo quattro dei nove ospedali da campo promessi dalle autorità locali. Alcuni approfittano del caos. Il 7 maggio l’ex sottosegretario alla sanità dello stato, Gabriel Neves, è stato arrestato insieme ad altre tre persone. Sono tutti sospettati di essersi arricchiti gonfiando le fatture dei ventilatori comprati, per una somma di quasi ottocentomila euro.

Eppure il Brasile aveva gli strumenti per fare fronte alla pandemia: una robusta industria farmaceutica, un’esperienza in materia di epidemie tropicali e, soprattutto, il Sus, il sistema di sanità pubblica gratuita e universale, molto apprezzato dalla popolazione. “Ma le sue risorse sono molto limitate, e soffre di un sotto-finanziamento cronico”, spiega Miguel Lago, direttore dell’istituto di studi per le politiche sanitarie (Ieps). “Il Brasile investe l’equivalente del quattro per cento del suo pil nella sanità, rispetto a una cifra tra l’otto e il dieci per cento di paesi come Francia e Germania, che hanno sistemi paragonabili”.

Secondo lo Ieps, nel 72 per cento delle regioni del Brasile il numero di posti letto in terapia intensiva nelle strutture pubbliche è inferiore alle raccomandazioni minime dell’Organizzazione mondiale della sanità (dieci per centomila abitanti). “In questo contesto le autorità locali non avranno altra scelta che firmare contratti con aziende sanitarie private, meglio equipaggiate”, spiega Lago. La cosa avrà un costo: quasi dieci miliardi di euro, secondo la peggiore delle ipotesi. “Il dramma lo stiamo già vivendo. Quel che bisogna evitare adesso è il disastro”, conclude Lago.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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